Q uesta è la storia di un numero chiamato c, per celeritas o per constantia; 299.792.458 metri che scorrono ogni secondo che scocca; la velocità della luce nel vuoto, l’irraggiungibile misura dello spazio e del tempo.
Quando arriva l’alba dietro di noi?
Empedocle di Agrigento è il primo di cui sia rimasta memoria che ha detto qualcosa sulla velocità della luce. Lo sappiamo perché Aristotele lo confuta nel secondo libro di Dell’anima:
Empedocle (e con lui tutti coloro che si sono espressi in tal modo) sbagliano quando parlano della luce come se ‘viaggiasse’ o fosse, in qualche momento, tra la Terra e il suo involucro, il suo moto inosservabile a noi: questa visione è contraria sia alla chiara evidenza della ragione sia ai fatti osservati; poiché se la distanza attraversata fosse corta, il movimento potrebbe essere inosservabile. Ma che sia inosservabile sulla distanza dall’estremo Oriente all’estremo Occidente è pretendere troppo.
Guardiamo l’alba e la luce è già dietro di noi, fino all’orizzonte: per Aristotele, quindi, era infinitamente rapida. Questo dimostra più che altro le difficoltà di Aristotele con una velocità molto, molto grande, eppure rimase lo standard ufficiale sulla questione per numerosi secoli (lo riprende, tra gli altri, Sant’Agostino; tenterà di dimostrarlo geometricamente Nicola Oresme). Che la luce possa superare senza spendere alcun tempo gli enormi spazi celesti? Difficile da concepire. Ma se la luce viaggia a una velocità finita, allora tutto ciò che vediamo è il passato: vediamo le cose non come sono, ma come erano. Francis Bacon, che pure sosteneva la velocità infinita della luce, nell’aforisma 46 del Novum Organum tentenna:
…mi suggerisce un curioso dubbio, ovvero se vediamo la volta di un cielo stellato nell’istante effettivo in cui esiste, e non poco dopo; e se non ci sia, per i corpi celesti, un tempo reale e un tempo apparente, così come il luogo apparente e il luogo reale di cui tengono conto gli astronomi quando correggono la parallasse. È difficile da credere che l’immagine o i raggi dei corpi celesti possano arrivare alla vista istantaneamente attraverso uno spazio così immenso.
Cannoni e lanterne
La questione era matura per essere affrontata con l’esperimento. Il primo a proporne uno, il 19 marzo 1629, fu Isaac Beeckman, filosofo naturale olandese e amico di Cartesio. L’idea era semplice: porre uno specchio a qualche miglio di distanza, e misurare il tempo trascorso tra il lampo di un cannone e l’osservazione del suo riflesso nello specchio. La velocità della luce sarà quindi il doppio della distanza tra cannone e specchio (bisogna contare andata e ritorno) divisa per questo intervallo di tempo.
Pochi anni dopo, Galileo Galilei descriverà un esperimento analogo nei Discorsi intorno a due nuove scienze, dove invece del cannone e dello specchio vi sono due persone che portano una lanterna coperta da un panno, poste a una distanza nota. Galileo – sotto le spoglie di Salviati – afferma di aver condotto l’esperimento, anche se si schernisce:
Veramente non l’ho sperimentata, salvo che in lontananza piccola, cioè manco d’un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia istantanea; ma ben, se non istantanea, velocissima, e direi momentanea, è ella…
Galilei avrebbe dovuto misurare un tempo inferiore a 11 microsecondi, impossibile all’epoca. L’ipotesi di una velocità infinita era quindi ancora in piedi. Cartesio affermò che tutta la sua filosofia sarebbe crollata, se mai la luce avesse avuto una velocità finita. Secondo lui, le eclissi di Luna dimostravano come non ci sia alcun effetto dovuto alla velocità finita della luce. Cartesio sbagliava, e sarebbero state proprio le eclissi di una luna a dargli torto. Ma non una luna della Terra.
L’orologio nel cielo
Galilei ebbe più successo con i telescopi, con cui scoprì, tra le altre cose, i satelliti di Giove. Non erano solo una rivoluzione cosmologica. Giove diventava un orologio nel cielo, utilissimo per risolvere il problema, ai tempi irrisolto, della longitudine. L’unico modo per misurare la longitudine – sapere quanto siamo a est o a ovest rispetto a qualcos’altro – è infatti quello di avere una misura del tempo precisa e trasportabile, cosa che gli orologi dell’epoca non erano. Sapendo però quando l’ombra di Giove eclissa una luna, si può avere una misura del tempo standard in ogni luogo della Terra. Gli astronomi iniziarono quindi a collezionare dati sulle eclissi delle lune di Giove: tra questi il danese Ole Rømer, che lavorava all’osservatorio reale di Parigi.
Rømer si accorse che il satellite Io non era un orologio perfetto: spariva dietro a Giove un po’ prima o un po’ dopo, rispetto a un ciclo regolare. Tale ritardo o anticipo sembrava dipendere da dove si trovasse la Terra rispetto a Giove. La spiegazione più semplice era che, quando la Terra si trova dal lato opposto del sistema solare rispetto a Giove, la luce proveniente da Giove doveva attraversare l’intera orbita terrestre prima di arrivare a noi. Il ritardo che Rømer osservava non era altro che il tempo che serviva alla luce per il cammino in più. Rømer pubblicò osservazioni e ipotesi nel 1676: stimò che la luce viaggiasse dal Sole alla Terra in 11 minuti. Il collega astronomo Christiaan Huygens, basandosi sui suoi dati, dedusse quindi una velocità di circa 200.000 km/s – la prima stima effettiva del numero che nel 1894 il fisico Paul Drude segnerà con la lettera c.
Non fu l’ultima parola. Se Isaac Newton ed Edmund Halley accettarono subito la teoria di una velocità finita della luce (Newton darà anche una stima più accurata, nel suo libro Ottica), Robert Hooke, Giandomenico Cassini e altri non furono convinti. Cinquant’anni dopo la disputa venne risolta nel tubo di un telescopio, quando James Bradley scoprì il cosiddetto fenomeno dell’aberrazione stellare: la posizione apparente delle stelle varia lievemente col moto della Terra (Bradley voleva misurare un altro fenomeno simile, la parallasse, che però non c’entra con la velocità della luce ed è puramente geometrico).
È un po’ la stessa cosa che accade quando corriamo sotto la pioggia. La pioggia cade magari a piombo, ma muovendoci contro di essa, la avvertiamo come se ci venisse incontro. Allo stesso modo, la traiettoria apparente della luce dipende dal nostro moto rispetto a essa -e dalla sua velocità. La spiegazione completa è complessa e per averne una definitiva sarebbe servito Einstein, secoli dopo: ma anche all’epoca di Bradley era chiaro che l’aberrazione stellare può esistere solo se la luce ha una velocità finita. Dai calcoli, Bradley ricavava c eguale a circa 300.000 km/s. Duemila anni e quasi un secolo dopo, Aristotele poteva essere messo da parte. La luce dell’alba arriva davvero dopo, dietro di noi.
I sing the speed electric
A quel punto diventava solo questione di misure più precise. I fisici francesi Fizeau e Foucault riuscirono finalmente a implementare il concetto di Beeckman e Galileo, misurando c a terra, con ingegnosi apparati a base di specchi. Nel frattempo molti loro colleghi erano indaffarati con i fenomeni elettromagnetici, e così facendo incocciarono in una curiosa coincidenza. Nei primi anni Sessanta del XIX secolo James Clerk Maxwell – grazie ai contributi di Wilhem Weber, Rudolf Kohlrausch e Gustav Kirchhoff – aveva scoperto che le equazioni dell’elettromagnetismo sembravano fornire naturalmente una velocità fissa per le onde elettromagnetiche, che dipende solo da due costanti fondamentali del campo elettrico e magnetico secondo la formula c = 1/√ε0μ0 . Guarda caso valore pressoché identico a quello misurato per la luce – tanto da poter argomentare che la luce fosse un caso particolare di onda elettromagnetica.
Una velocità è sempre riferita a qualcos’altro rispetto al quale ci muoviamo. Se io sono su un treno, sono fermo rispetto al passeggero che mi è accanto, ma mi muovo a centinaia di chilometri all’ora rispetto alle rotaie sotto di me. Ma l’equazione di Maxwell non ci dice nulla del genere. C’è un misterioso fondale cosmico? Nelle teoria dell’epoca – che in questo non era molto diversa da quella di Aristotele – tale sfondo era il famigerato etere, la “sostanza” di cui le onde luminose dovrebbero essere le increspature, come le onde del mare increspano l’acqua.
c diventa un confine – il più famoso confine invalicabile della fisica. Gli enti privi di massa, come i fotoni o le onde gravitazionali, devono muoversi a c, senza speranza di rallentare.
Albert Michelson e Edward Morley, che lavoravano alla Case Western University di Cleveland, Ohio, decisero di capire esattamente come ci muoviamo rispetto a questo sfondo. Il ragionamento era semplice: quando andiamo ‘controvento’ rispetto all’etere, la luce dovrebbe muoversi più lentamente rispetto a quando ci muoviamo nella sua stessa direzione. Si tratta di una differenza di una parte su diecimila, ma Michelson e Morley riuscirono a metter su un esperimento che avrebbe potuto misurare senza problemi una differenza anche molto più piccola, tanto per non avere dubbi. Un complesso sistema di specchi faceva interferire due fasci di luce perpendicolari fra loro, che hanno viaggiato la stessa esatta distanza. Le onde luminose dei due fasci, incontrandosi, si rinforzano o cancellano periodicamente, e proiettano quindi una serie di righe luminose e ombre su uno schermo. L’intero apparato era posto su una pietra galleggiante in un bagno di mercurio, per ruotare col minimo di vibrazioni. Man mano che l’apparato ruotava, le velocità relative dei due fasci luminosi dovevano cambiare man mano che cambiano posizione rispetto all’etere e al moto della Terra: le onde luminose si sfasano e la figura sullo schermo deve mutare.
La misura dello spazio e del tempo
Come in una tela tagliata di Fontana, Michelson e Morley avevano sfregiato il concetto di uno sfondo cosmico su cui si muovono le leggi fisiche. Nel loro articolo originale, Michelson e Morley non osano negare la realtà dell’etere: si limitano a ipotizzare, perplessi, che in qualche modo l’etere possa essere trascinato insieme alla Terra lungo la sua superficie, e che magari, a rifare l’esperimento in cima a una montagna, avrebbe funzionato! Ma presto si capì che non c’era modo di sistemare la teoria dell’etere senza rovesciare l’edificio. Il frutto stava per cadere dall’albero, e a raccoglierlo sarebbe stato Albert Einstein (anche se Poincaré, FitzGerald e Lorentz ci andarono vicini). Nel suo annus mirabilis, quel 1905 che cambiò volto alla fisica, Einstein trovò il punto di partenza più semplice e sconcertante. Se non vediamo sfondi cosmici, è perché questi sfondi non esistono. Se non riusciamo a misurare un cambiamento della velocità della luce, è perché non cambia. E se quella velocità non cambia, com’è il mondo allora? La risposta è quella che oggi conosciamo come teoria della relatività.
Con la relatività, c non era più solo una proprietà della luce da tabulare nei manuali. Il matematico Hermann Minkowski, che insegnò matematica al giovane Einstein a Zurigo, dimostrò che la relatività impone di considerare spazio e tempo come un’unica struttura a quattro dimensioni, lo spaziotempo. Nel quale c è letteralmente il fattore di conversione tra le coordinate di spazio e di tempo, è il ponte numerico tra le nostre distinzioni illusorie e la realtà fisica: spazio e tempo sono distinti solo a meno di un c. Un secondo è letteralmente un altro modo di dire 299.792.458 metri. I fisici spesso quando fanno i conti, per parafrasare Wittgenstein, gettano la scala dopo esservi saliti: stabiliscono per convenzione c=1 e non hanno più bisogno di distinguere tra spazio e tempo, massa ed energia. Nel momento in cui c è fondamentale, scompare.
In conseguenza matematica di tutto questo, c diventa un confine – il più famoso confine invalicabile della fisica. Gli enti privi di massa, come i fotoni o le onde gravitazionali, devono muoversi a c, senza speranza di rallentare. Viceversa, tutti i corpi dotati di massa possono solo avvicinarsi eternamente a quella velocità senza mai raggiungerla. Nessun segnale, nessuna informazione potrà mai trasmettersi a una velocità superiore, perché violerebbe uno dei principi più sacri della fisica, il rapporto causa-effetto. Inviare un segnale più velocemente della luce equivale matematicamente a inviarlo nel passato, e quindi gli effetti di quel segnale precederebbero le cause.
Una prigione di raggi di luce
In una notte d’estate, alza la testa verso lo zenit. Quasi sulla tua verticale c’è la stella più luminosa dei cieli del nord – Vega della Lira, ventisei anni di distanza alla velocità della luce, sul punto di non ritorno per noi, creature dalla vita breve. Oltre questo faro bianco-azzurro, cinquanta volte più brillante del nostro Sole, potremo forse inviare le nostre menti e i nostri corpi – ma mai i nostri cuori. Perché nessun essere umano che sia stato oltre Vega potrà tornare a casa per salutare di nuovo chi ha conosciuto e amato sulla Terra. (Arthur C. Clarke, Non conquisteremo lo spazio, 1960)
Nel racconto di Borges I due re e i due labirinti un re mostra che il labirinto perfetto è in mezzo al deserto, “dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. Così siamo noi, in trappola in ogni punto del cosmo. Rispetto alle distanze dell’universo la luce è lenta, lentissima. c è il lucchetto della nostra prigione cosmica. Ma questo è vero solo per chi attende, perché chi viaggia può attraversare gli spazi in un istante, se accetta che fuori passi l’eternità. Più vicino alla velocità della luce ci si muove, meno tempo passa per il viaggiatore – spostandoci sempre più rapidi nello spazio, ci spostiamo meno nel tempo. Nel romanzo di fantascienza Tau Zero di Poul Anderson un’astronave è costretta da un guasto ad accelerare in eterno: avvicinandosi sempre più alla velocità della luce, attraversa intere galassie in quelli che per la nave sono pochi minuti, mentre fuori passano milioni di anni.
Grazie alla sua velocità finita, la luce è però l’unica vera macchina del tempo che le leggi fisiche ci hanno finora concesso. Nel classico racconto di fantascienza Luce di giorni passati del 1966, Bob Shaw narra del vetro lento, il cui spessore accumula e rallenta enormemente anni e anni di luce tra le due facce di una lastra, e che quindi permette di vedere e trasportare scenari di anni fa come se si svolgessero davanti a noi. Ma anche senza vetri immaginari, ogni cosa che vediamo è tecnicamente un viaggio nel tempo. Mentre scrivo, passa una bambina a due metri da me: le vedo com’era 6 nanosecondi fa. Alzo gli occhi alle nuvole, e vedo nel passato di qualche milionesimo di secondo. Il sole dietro di loro è un quadro vecchio di otto minuti. La notte cerco la Galassia di Andromeda e la vedo oggi com’era due milioni di anni fa, quando in Africa passeggiavano i primi australopitechi. Il telescopio spaziale Hubble fotografa regolarmente galassie com’erano ai tempi in cui il Sole e la Terra non esistevano ancora. Per sapere com’era l’Universo all’inizio basta poter guardare lontano.
Arbitraria e perfetta
Se le onde del mare ci colpiscono una volta al minuto, e se ogni onda dista dalla successiva un metro, sappiamo che l’onda si propaga a un metro al minuto. Così si può misurare la velocità della luce, dalla frequenza e dalla lunghezza d’onda di una radiazione luminosa. Salta fuori che è un modo molto preciso, per misurare c. Nel 1972 un gruppo di fisici a Boulder, Colorado, arrivò alla cifra di 299792456.2 +/- 1.1 metri al secondo, e non poté fare di meglio per un unico motivo: il metro.
La definizione del metro, all’epoca, derivava proprio da una lunghezza d’onda luminosa, definita come quella emessa dal balzo di un certo elettrone nell’atomo di krypton-86. Era molto meglio dello standard precedente – che era banalmente la lunghezza di una bella sbarra di platino conservata in Francia – ma manteneva per motivi naturali qualche sbavatura, di una parte su cento milioni. Grazie ai laser, ora la velocità della luce era misurabile con una precisione cento volte maggiore – di una parte su dieci miliardi – se solo il metro non fosse stato così sfuocato.
La soluzione è ovvia. Invece di calcolare la velocità della luce usando i metri, calcoliamo i metri usando la velocità della luce. Fissiamo la velocità della luce a un valore arbitrario e perfetto, e da quello ricaviamo il metro (L’altra unità necessaria, il secondo, è definito già con ottima precisione).
Oggi c non è più un valore che misuriamo: abbiamo scelto noi – o meglio la diciassettesima Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure, nel 1983 – che il suo valore è 299.792.458 metri al secondo, esatti, senza virgole e senza incertezze. Il numero che attribuiamo alla velocità della luce è stato deciso davvero da un comitato. Ha senso, perché ogni numero che associamo a una costante fisica è solo una traduzione nelle nostre unità di misura, che esistono per il nostro comodo, non per quello dell’universo. Curiosamente però questo significa che oggi ogni misura di c non misura una velocità, in realtà, perché questa è fissata per definizione. Semmai si occupa di quanto è lungo veramente un metro.
c come cambiamento
La storia di c non finisce certamente qui: forse perché c ha veramente una storia, nel senso che la velocità della luce di ieri potrebbe non essere la stessa di domani. Una possibilità che Einstein stesso aveva esplorato fin dal 1905. È un’alternativa alle teorie cosmologiche dell’inflazione, per spiegare l’omogeneità del cosmo a scale in cui non dovrebbe essere omogeneo, in quanto non dovrebbero aver mai comunicato tra loro – se la velocità della luce è sempre stata l’attuale. Nessuna di queste teorie per ora è stata corroborata da osservazioni, ma mai dire mai. A lato, c’è una serie di effetti per cui c non è sempre la velocità della luce neanche nel vuoto: è possibile rallentare la luce dandole una struttura, e viceversa (in teoria) accelerarla leggerissimamente facendola correre tra due lastre vicine. In quest’ultimo caso, si va ad alterare la natura del vuoto stesso – che non è mai veramente vuoto, neanche in linea di principio – rendendo più facile alla luce passarci attraverso.
Resta il sogno di uscire dalla gabbia di c, e raggiungere le stelle. Chi conosce la relatività vi dirà che superarla è, a conti fatti, come sperare di andare più a nord del polo nord: non ha senso. Qualcuno sussurra, aggrappandosi alle gonnelle della fisica quantistica, che si possa superare, citando magari la inquietante azione a distanza che tanto aveva fatto rabbrividire Einstein, Podolsky e Rosen. Vi stanno imbrogliando. Ci sono effetti quantistici che sembrano istantanei, ma non esiste alcun modo di trasmettere un oggetto, e men che meno un segnale, sfruttando questo tipo di effetto; c è per ora inviolato.
L’unica speranza è quella di aggirarlo: se non possiamo viaggiare nello spazio, possiamo distorcere lo spazio. È un po’ l’idea di raggiungere un tavolo posto su un tappeto non avvicinandoci al tavolo, ma tirando il tappeto verso di noi. In questo caso, il limite di velocità si applica a quanto si muove rispetto al tappeto, ma non al tappeto stesso. Il fisico messicano Miguel Alcubierre ha ipotizzato così di fare surf su una distorsione dello spaziotempo – più o meno come nel motore a curvatura di Star Trek. Tutti i calcoli mostrano finora che tentare di creare il leggendario “motore di Alcubierre” richiede enti e situazioni fisicamente improbabili, come della materia a massa negativa (no, l’antimateria non ha massa negativa). Per ora non raggiungeremo così le stelle, ma la storia di c non è ancora finita.
Grazie a Jacopo Bertolotti (University of Exeter, UK), Andrea Giammanco (Université Catholique de Louvain, Belgio) e Simone Sturniolo (Rutherford-Appleton Laboratory, Harwell, UK) per i preziosi commenti sul testo