S e la vita di una persona fosse davvero leggibile attraverso una serie di snodi cruciali – come amano credere sceneggiatori e scrittori – allora i punti di svolta principali nella biografia di Stephen Hawking sarebbero due. Il primo è il momento in cui, nel 1963, a poco più di vent’anni, gli viene diagnosticata la malattia neurale che lo costringerà più tardi su una sedia a rotelle. All’epoca Hawking è uno studente di dottorato (neanche dei più brillanti) a Cambridge, e la diagnosi sembra inizialmente una sentenza di morte. Gli danno due anni di vita: le cose, com’è noto, andranno diversamente (Hawking ha compiuto 76 anni l’8 gennaio scorso). Dopo una fase iniziale di sconforto e depressione, Hawking trova la forza di continuare gli studi. Il suo lavoro di dottorato sulle singolarità dello spazio-tempo getta le basi per una serie di studi pionieristici sui buchi neri e sull’origine dell’universo. All’inizio degli anni ’70, nonostante il progredire della malattia, Hawking è ormai diventato uno studioso di primissimo livello: nel 1973 scrive con George Ellis un libro fondamentale sulla geometria dello spazio-tempo, e l’anno successivo pubblica il risultato a cui è legata gran parte della sua fama scientifica, quello sul meccanismo di evaporazione dei buchi neri. L’ascesa di Hawking ai massimi livelli del mondo accademico internazionale viene riconosciuta in maniera inequivocabile nel 1979, quando l’università di Cambridge gli offre la cattedra lucasiana di matematica, incarico ricoperto in precedenza anche da Isaac Newton (e da Paul Dirac).
Il secondo punto di svolta arriva una decina di anni più tardi, quando Hawking pubblica “A Brief History of Time”, uno dei libri divulgativi di maggior successo di tutti i tempi. Milioni di persone lo comprano, chissà quante lo leggono davvero (e chissà tra loro, quante ci capiscono qualcosa). È il 1989, e il professor Stephen Hawking – fino a quel momento conosciuto soprattutto all’interno di una ristretta cerchia di specialisti – si trasforma in un fenomeno di massa. Da lì, finirà in breve a discutere di modelli di universo a forma di ciambella con Homer Simpson, a giocare a poker con Data (e gli ologrammi di Einstein e Newton) sull’Enterprise, a partecipare a un disco dei Pink Floyd, a cantare una canzone per i Monty Python e insomma a diventare il simbolo quasi universalmente riconoscibile del genio moderno: un’icona pop, un po’ come era successo prima di lui, nel ventesimo secolo, solo ad Einstein. E proprio come era capitato al buon Albert, anche a Hawking toccherà iniziare a dire la sua pubblicamente su ogni tipo di questione, dall’esistenza di Dio alla possibilità dell’incontro con gli alieni, dalle questioni ambientali alla politica internazionale, dal futuro dell’umanità al ruolo della filosofia. Ogni sua frase, sebbene articolata con difficoltà e attraverso l’uso di un sintetizzatore vocale – e, anzi, forse proprio in virtù della sua laconicità, del suo apparire emanata da un piano lontano, astratto, trans-umano – si trasforma in una profezia oracolare, in un titolo di giornale, in una sentenza.
Certo, leggere una vita attraverso pochi punti di svolta non è realistico, ma è una tentazione a cui è difficile resistere. E forse una parte del successo popolare del personaggio Hawking è legata proprio a questa possibilità di semplificazione narrativa. Prima c’è un giovane studente, ribelle e irrisolto, intelligente ma non eccezionale: poi c’è la malattia, e con essa la trasformazione in un genio chiuso nel suo mondo mentale, separato dal resto dell’umanità ma allo stesso tempo in grado di essere una specie di ponte tra il mondo della materia inerte – dove si soffre e ci si ammala – e quello platonico e perfetto della matematica. E non a caso, proprio sul primo snodo narrativo e sul suo dramma umano (e sentimentale) si concentra «La teoria del tutto», il film su Hawking di qualche anno fa. (Nemmeno allo stesso Einstein era toccata una biografia cinematografica in vita).
Una parte del successo del personaggio Hawking è legata alla possibilità di semplificazione narrativa: prima c’è uno studente, poi la malattia e la trasformazione in un genio chiuso nel suo mondo mentale.
Meno esplorato è il secondo snodo, quello in cui Hawking cessa di essere un semplice scienziato e diventa una celebrità planetaria. Forse la ragione è che attorno a questo punto di svolta aleggiano domande a cui è difficile dare una risposta che non appaia influenzata dal sospetto (e dall’invidia?) nei confronti della popolarità: domande che hanno a che fare con il reale posto di Stephen Hawking nella storia della scienza, sulla commensurabilità tra la sua fama e il suo effettivo valore accademico. Per quello che vale, nel 1999, la rivista Physics World chiese a un campione di fisici contemporanei quali fossero i fisici più importanti di tutti i tempi. Vinse Einstein, come prevedibile, e Hawking non era tra i primi dieci. Ma il fatto è che anche le classifiche sono semplificazioni, e fare confronti tra le figurine degli scienziati è sempre un gioco un po’ vuoto, proprio come ridurre la vita delle persone a pochi momenti salienti. Le cose sono molto più complesse. Un’analisi obiettiva dell’apporto di Hawking alla fisica degli ultimi cinquant’anni richiederebbe una competenza specifica che pochi hanno. Inoltre, gli argomenti di cui Hawking si è occupato di più nel corso della sua carriera sono estremamente astratti, e per il momento praticamente impossibili da sottoporre a una verifica sperimentale. (Questa, per inciso, è la ragione per cui è molto improbabile che Hawking possa mai vincere un Nobel).
Prendiamo, ad esempio, il risultato scientifico a cui è legato più strettamente il nome di Hawking, ovvero quello secondo cui i buchi neri emetterebbero radiazione elettromagnetica. Un buco nero è una regione di spazio-tempo da cui, a causa dell’intensità del campo gravitazionale, nulla può uscire, neanche la luce. Nonostante ciò, negli anni ’70 Hawking intuì che gli effetti quantistici sul bordo del buco nero potrebbero consentire il rilascio di energia dal buco nero stesso, sotto forma di una radiazione termica, di fatto identica a quella irraggiata nello spazio da un corpo caldo. Il buco nero, secondo Hawking, perderebbe energia, finendo per “evaporare” completamente, sebbene in tempi estremamente lunghi. Come molti dei problemi affrontati da Hawking nel corso della sua carriera, la questione della radiazione che porta il suo nome si situa nella problematica area di sovrapposizione fra relatività generale e meccanica quantistica – due teorie di straordinario successo ma che non vanno d’accordo fra loro, e che da decenni le menti migliori della fisica teorica cercano di conciliare. L’idea che i buchi neri possano evaporare ha dato vita a un’infinità di altre idee e discussioni, spesso anche accese, come la “guerra” tra Hawking stesso e il fisico teorico Leonard Susskind in merito alla sorte dell’informazione che finisce in un buco nero (secondo Hawking va irrimediabilmente persa; secondo Susskind, e secondo quello che sappiamo sulla meccanica quantistica, questo è impossibile). Il problema, ad ogni modo, è: come si può osservare sperimentalmente l’evaporazione di un buco nero? La quantità di energia emessa è troppo piccola per essere misurata con osservazioni astronomiche (sebbene esista la possibilità di rilevare l’energia emessa da grandi quantità di buchi neri primordiali, ovvero creati subito dopo il big bang, ammesso che esistano). D’altra parte, la prospettiva di studiare buchi neri microscopici in laboratorio (per esempio nell’esperimento LHC del CERN) sembra essere ancora più remota.
Problemi simili esistono con un’altra questione esplorata da Hawking fin dagli inizi della sua carriera scientifica: quella dell’origine dell’universo. Il big bang è stata una singolarità, ovvero uno stato di densità infinita, o no? Hawking è tornato sul problema più volte nel corso degli anni, inizialmente affermando che la singolarità iniziale è inevitabile, poi trovando una scappatoia, una soluzione matematica che elimina qualunque confine nello spazio-tempo (faccenda presto tracimata nel versante teologico, con proclami sull’impossibilità di Dio di intervenire nella creazione dell’universo, e sulla sua conseguente inutilità), infine schierandosi a favore dei modelli che prevedono l’esistenza di una molteplicità di universi. Anche in questo genere di problemi è complicato trovare il bandolo della matassa usando le osservazioni, visto che l’epoca dell’universo di cui stiamo parlando è, almeno per il momento, inaccessibile all’indagine diretta.
Hawking ha saputo utilizzare il fascino esercitato da temi come l’inizio dell’universo, la natura del tempo, il mistero dei buchi neri, ricavando un ritorno straordinario in termini di visibilità.
Quello che è certo, comunque, è che il contributo scientifico di Stephen Hawking allo studio della gravità e della cosmologia sia di assoluto valore, e che i suoi lavori sui buchi neri e sulle singolarità abbiano avuto un impatto che la maggior parte dei fisici può solo sognare di eguagliare. Allo stesso tempo, Hawking ha saputo utilizzare il formidabile fascino che temi come l’inizio dell’universo, la natura del tempo, il mistero dei buchi neri, esercitano sul pubblico generico, ricavandone un ritorno straordinario in termini di visibilità. Non si è mai tirato indietro nel dare in pasto ai media titoli appetitosi, anche a prezzo di apparire irrimediabilmente ingenuo su tutto ciò che non abbia una diretta attinenza con la fisica teorica. Un rapido florilegio di prese di posizione sui temi più disparati? “La filosofia è morta”; “L’intelligenza artificiale segnerà la fine del genere umano”; e, se non saranno i computer malvagi, saranno “la guerra nucleare, il riscaldamento globale o i virus modificati geneticamente” a sterminarci “quasi sicuramente, nel giro di poche migliaia di anni”, a meno che, ovviamente, l’umanità non colonizzi lo spazio; e, se gli alieni esistono, è meglio non farsi notare da loro, perché “il risultato potrebbe essere come quando Colombo è arrivato in America, che non è finita bene per i nativi”. Nel gennaio del 2016, la potenza dell’immagine pubblica di Hawking si è manifestata in modo schiacciante quando tutti gli schermi di Times Square (tranne uno, pare) hanno trasmesso per circa un minuto una foto dello scienziato, seguita da tre cifre enigmatiche: 48, 16 e 11. L’apparizione ha destato sconcerto e curiosità, come nella migliore tradizione epifanica, ed è stata seguita da uno strascico di congetture sul suo significato, che ha intasato per parecchio tempo forum e social network. Solo a mesi di distanza si è scoperto che si trattava del lancio di una serie TV della PBS: Genius.
Cosa si può dire, in definitiva, oggi, di Stephen Hawking? Forse quello che si può dire di ogni scienziato, grande o piccolo, ovvero che solo il tempo potrà stabilire cosa resterà delle sue idee. E anche chi lo critica, chi pensa (magari senza dirlo) che ormai sia più guru che scienziato, più immagine che sostanza, e che ci siano molti ricercatori di calibro superiore con un millesimo del riconoscimento, non dovrebbe disprezzare l’interesse popolare che Hawking riesce ancora a suscitare nei confronti della scienza. In un mondo in cui fanno comodo i simboli, i “nuovi Einstein” e le vite riassumibili in tremila caratteri, Hawking si è ritrovato a un certo punto ad avere tutti gli ingredienti giusti per diventare, agli occhi del grande pubblico, il più famoso scienziato vivente, e ha accettato il ruolo. A pensarci bene, ci vuole coraggio.