C on un po’ di immaginazione la sua forma può sembrare quella di un soffione. Il nuovo coronavirus, 2019-nCoV, all’occhio del microscopio elettronico è sferico e coronato su tutta la superficie di spicole, sorta di protuberanze. Ne hanno ricostruito un’immagine i ricercatori dello statunitense Centers for Disease Control and Preventing, ad Atlanta. Il virus, che è causa della sindrome appena battezzata dall’Organizzazione mondiale della sanità COVID-19 e che dalla città di Wuhan in poi ha già fatto – nel momento in cui scrivo – più di mille e trecento morti, non è l’unico ad avere questa forma, né il primo tra i coronavirus a infettare l’uomo.
Di coronavirus ne esistono di diversi, tutti appartenenti alla famiglia Coronaviridae. Sono virus a RNA, cioè codificano e trasmettono le informazioni genetiche utilizzando l’acido ribonucleico (RNA) – e non il DNA – costituito per lo più da un singolo filamento ripiegato – e non da doppia catena come il DNA. Ogni virus, per potersi replicare, attacca le cellule dell’organismo ospite, ne penetra la membrana e ne altera le funzioni, sfruttandole per replicare il proprio codice genetico. I coronavirus lo fanno attraverso quelle protuberanze sulla superficie, i peplomeri, che si attaccano alla cellula.
Un banale raffreddore può essere causato dal cosiddetto Human CoronaVirus-229E o da HCov-OC43, per esempio. Ma anche le sindromi SARS e MERS, di certo più temibili e che hanno colpito l’uomo di recente – la prima tra il 2002 e il 2003, la seconda dieci anni dopo – sono opera di altri coronavirus ancora e, come la COVID-19, erano sindromi a noi sconosciute prima dei primi focolai. Da dove sono arrivate? Come molte altre malattie, anzi come la maggior parte, arrivano da altre specie animali.
La storia di una zoonosi comincia quando il virus coglie un’opportunità di propagarsi: per esempio un nuovo e inedito contatto ravvicinato tra due specie, una che ha già il virus, l’altra che è ancora ignara di tutto.
Zoonosi è il nome che diamo alle malattie che partono da un animale e arrivano all’uomo. La storia di una zoonosi comincia quando il virus coglie un’opportunità di propagarsi: per esempio un nuovo e inedito contatto ravvicinato tra due specie, una che ha già il virus, l’altra che è ancora ignara di tutto. L’evento del cosiddetto “salto di specie” viene chiamato spillover: il virus “trabocca” e infetta la nuova specie. Di storie di questo tipo si è occupato David Quammen, scrittore di viaggi e di scienza, nel suo Spillover (Adelphi, 2014). Quammen scrive un lungo reportage avventuroso, risale il corso di fiumi, segue le tracce di possibili animali portatori e si fa largo nella giungla per venire a capo dell’enigma dello spillover, del salto fatidico.
Come ricorda Quammen, di zoonosi ne esistono molte, la più nota forse è l’AIDS. Spesso, racconta, i virus zoonotici prima di interessarsi di noi, convivono indisturbati e magari da millenni con una o più specie serbatoio.
Si sono probabilmente adattati a vivere una vita tranquilla all’interno della (o delle) specie serbatoio, dove si replicano senza problemi ma non eccessivamente, e causano poco danno. Quando ‘tracimano’ negli esseri umani sono esposti a un nuovo ambiente e a nuove circostanze, il che spesso li porta a diventare mortalmente devastanti. E un uomo può infettarne un altro, attraverso il contatto diretto con i fluidi corporei.
È più o meno così che dev’essere cominciata anche la storia di 2019-nCoV, nell’ormai noto mercato di Wuhan. Ma è una storia che riguarda anche Ebola, l’Hendra virus, il virus del Nilo occidentale. Ed è una storia che ci riguarda sempre di più: negli ultimi 30 anni, infatti, la frequenza di queste nuove zoonosi, emergenti, è aumentata. Tra le cause ci sono anche lo stravolgimento diretto operato dall’uomo sugli ambienti e la crisi climatica.
Il mercato è affollato
2019-nCoV e gli altri coronavirus sono capaci di adattarsi velocemente a nuove specie. Essendo virus a RNA, un meccanismo di trasmissione del codice genetico più semplice del DNA, mutano molto più in fretta: da un lato questo aumenta gli errori di codice e la possibilità di fallire ma dall’altro aumenta la velocità con la quale il virus è in grado di evolversi, di trovare nuove strade e, casualmente, di diventare capace di infettare una nuova specie. In un mercato come quello di Wuhan, che a oggi si ritiene il luogo dell’avvenuto salto di specie, si trovano una gran quantità di uomini, animali vivi e animali morti, in una promiscuità tra specie diverse che crea una situazione favorevole allo spillover.
Anche nel 2002, l’epidemia di SARS è molto probabilmente nata proprio in un mercato, quella volta in un’altra provincia cinese, Guandong. Inizialmente si sospettava che il contagio umano fosse avvenuto attraverso un animale selvatico di media taglia, lo zibetto. La carne di zibetto è infatti apprezzata in Cina e perciò venduta al mercato; in effetti i test effettuati su alcuni zibetti avevano dimostrato la presenza del materiale genetico del virus. Le autorità avevano così comandato l’uccisione preventiva di diecimila zibetti, ma solo con ricerche più approfondite si era capito che anche lo zibetto non era ospite usuale e permanente del virus. L’animale malcapitato aveva infatti fatto da ospite intermedio: in questa specie il virus si era replicato, per così dire, fino ad avere le caratteristiche adatte a infettare l’uomo. Una sorta di incubatore, o meglio di amplificatore come lo ha definito lo stesso David Quammen in un’intervista a Npr. Il virus doveva dunque aver incontrato gli zibetti, nel mercato, tramite un altro animale, forse il pipistrello.
E nel caso di questo nuovo coronavirus? Una ricerca cinese della South Agricultural University di Guangzhou ha guardato ai pangolini, anch’essi venduti al mercato di Wuhan, come ospite amplificatore. Ci si è chiesti anche se l’infezione possa essere avvenuta tramite la carne di serpente, ma al momento l’ipotesi più accreditata è che l’ospite serbatoio di questo nuova coronavirus sia il pipistrello Rhinolophus sinicus, o pipistrello ferro di cavallo cinese, per una certa familiarità di questi pipistrelli con i coronavirus. Secondo l’Oms, più di 500 tipi di coronavirus sono stati rinvenuti nei pipistrelli cinesi.
Zoonosi mandate dall’alto
La zoonosi non è un fenomeno nuovo. C’è un passo del libro di Samuele nell’Antico Testamento (Samuele 24,15-16), dove si racconta che Dio scatena su Israele una celebre zoonosi, la peste:
Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono settantamila persone del popolo. E quando l’angelo ebbe stesa la mano su Gerusalemme per distruggerla, il Signore si pentì di quel male.
Anche la peste è una zoonosi, sebbene causata da un batterio, il bacillo Yersinia pestis. Ha per suo ospite serbatoio diverse specie di roditori e per vettore la pulce dei ratti. Ma delle zoonosi più recenti, e che ci riguardano più da vicino, è spesso il pipistrello a essere considerato il probabile ospite serbatoio.
Un esempio è quello dell’Hendra virus. In Australia, nel settembre del 1994 in un quartiere di Brisbane, Hendra, morirono 13 cavalli e il loro istruttore, Victory Rail, per causa di un nuovo virus zoonotico. Quanto aveva portato Rail e i cavalli alla morte sembrava simile a ciò che era accaduto solo un mese prima, 1000 km a nord di Brisbane: due cavalli erano morti assieme al loro proprietario. Da quell’estate, i casi di infezioni di cavalli e uomini si sono susseguiti. Nel caso di Hendra, è il cavallo a fare da ospite amplificatore per il virus, prima che questo colpisca l’uomo. Ma i cavalli si erano infettati entrando a contatto con le feci di un grande pipistrello, la volpe volante, con cui Hendra convive da tempo senza far danni.
Anche nel caso della MERS, la sindrome che ha colpito alcune aree del Medio Oriente (con picchi nel 2014 e nel 2015, circa 860 morti fino a oggi e ancora centinaia di casi l’anno in Arabia Saudita), tra i possibili ospiti serbatoio figura ancora un pipistrello, e la stessa ipotesi vale per l’origine di Ebola, che dall’agosto 2018 colpisce la regione del Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, facendo finora più di duemila morti.
Ma perché i pipistrelli dunque? Prima di tutto sono il gruppo di mammiferi più numeroso dopo i roditori: con il termine pipistrelli si contano più di 1300 specie, alcune largamente diffuse in tutto il mondo. La ragione per cui potrebbero essere serbatoio di questi virus senza esserne contagiati è che avrebbero un sistema immunitario peculiare, legato al metabolismo accelerato che permette loro il volo. Secondo una ricerca pubblicata su Cell Host and Microbe, la risposta immunitaria di un pipistrello sarebbe in sostanza capace di vincere un virus senza subire alcuna infiammazione e perciò senza perdere le forze necessarie a volare. Il noto ecologo ed esperto di pipistrelli, Merlin Tuttle, ha però contestato che la correlazione tra pipistrelli e alcune zoonosi possa dirsi certa, esprimendo dubbi sul loro ruolo nella diffusione, per esempio, di Ebola, e mettendo in guardia da accuse facili che possano scatenare panico e generare effetti pesanti sugli ecosistemi.
La ragione per cui i pipistrelli potrebbero essere serbatoio di questi virus senza esserne contagiati è che avrebbero un sistema immunitario peculiare, legato al metabolismo accelerato che permette loro il volo.
Inoltre la convivenza dei pipistrelli coi virus e la loro diffusione per tutto il mondo non basta a spiegare perché il numero di nuove zoonosi o di zoonosi riemergenti sia cresciuto. Come scrive Quammen ancora in Spillover, su 1407 specie note di patogeni umani, il 58% sono di origine animale. Di queste “solo 177 sul totale si possono considerare emergenti o riemergenti, e tre quarti dei patogeni emergenti provengono dagli animali. In parole povere: ogni nuova e strana malattia, con grande probabilità, arriva dagli animali”.
Alessandro Magno e le zanzare
Nell’estate del 2018, un donatore di sangue che avesse dormito anche solo una notte nelle province di Torino, Novara, Pavia, Parma, Vercelli, Cremona, Brescia, Udine era escluso dalla donazione per 28 giorni. Il sangue dei donatori di quelle province veniva invece sottoposto a un test particolare. Si cercava così di scongiurare la diffusione del virus del Nilo occidentale, un virus che normalmente abita tra zanzare e uccelli ma può colpire anche l’uomo. La febbre di cui è causa è una zoonosi il cui serbatoio principale è rappresentato dalle zanzare, in particolare del genere Culex.
L’incontro tra il virus del Nilo occidentale e l’uomo non è di questo secolo. Addirittura c’è un’ipotesi, pubblicata su Emerging infectous diseases, di alcuni ricercatori della Colorado State University che a partire dalle note dello storico Plutarco sostiene che Alessandro Magno sia morto improvvisamente per colpa di questo virus. Fu identificato già nel 1937 in Uganda e tuttavia in Italia solo negli ultimi quindici anni si sono moltiplicati i contagi umani, causando 4 morti.
In Italia si è parlato anche di chikungunya, un’altra malattia di origine virale e di cui sono serbatoi alcune scimmie non antropomorfe e vettori le zanzare. Riconosciuta nel 1955, la malattia è endemica in Africa e Asia, ma soltanto nel 2007 è scoppiata la prima epidemia di chikungunya sul suolo europeo: in Romagna, grazie alle zanzara tigre ha infettato 250 persone.
Tra le ragioni di diffusione di queste due zoonosi non di casa in Italia c’è la crisi climatica. Come racconta la ricerca “Emerging zoonotic viral disease”, le temperature più elevate favoriscono il ciclo vitale delle zanzare, dall’attività alla riproduzione fino alla velocità di digestione del sangue e dunque alla rapidità nel pungere di nuovo. Ma non sono l’unico esempio: il riscaldamento globale permette alle zecche che portano la malattia di Lyme, altra zoonosi, di sopravvivere a altitudini e latitudini più elevate. Non solo, aggiunge l’Oms: esiste una correlazione tra eventi estremi come piogge particolarmente intense e la diffusione dell’hantavirus, causa di una zoonosi che fu studiata per la prima volta in Corea del Sud, nell’area del fiume Hantan.
Inoltre, si legge su Nature, se negli ultimi 30 anni il 70 % delle nuove malattie è di origine zoonotica, accanto al riscaldamento globale il colpevole è il mutamento degli ambienti generato dall’uomo. La deforestazione e l’urbanizzazione, per esempio, riduce lo spazio delle specie selvatiche – magari serbatoio di un virus, come nel caso della leishmaniosi – e ne aumenta le possibilità di contatto con l’uomo. Più in generale è il turbamento di habitat ed equilibri a costituire un rischio: persino la riforestazione, per esempio, ha favorito nel Nord Est degli Stati Uniti la possibilità di contagio della borreliosi di Lyme, per la maggior diffusione di cervi e roditori che ne sono ospite amplificatore.
Ecologia della salute
Torniamo all’inizio. Nel caso del nuovo coronavirus, il primo problema è costituito dall’accatastarsi di specie animali dentro al mercato, con pangolini, galline, serpenti, zibetti e altri animali, vivi dentro le gabbie, in condizioni di igiene scarsa. Dopo l’epidemia di SARS, che era nata in un mercato del genere ma circa 1000 km a sud, questi luoghi avevano continuato la loro attività, solo con qualche restrizione in più alla vendita. Oggi, avendo con ogni probabilità fornito di nuovo la possibilità ad ancora un altro virus di incontrare il suo ospite amplificatore, sono tornati sotto i riflettori e una loro regolamentazione sembra inevitabile.
Bisogna affrontare questi problemi con una strategia multidisciplinare per la salute pubblica, in cui si tengano assieme epidemiologia, scienze del clima, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio.
Tuttavia, come abbiamo visto, questi luoghi chiusi sono soltanto la punta dell’iceberg di un problema più ampio. Si è detto della deforestazione e dell’urbanizzazione, di sfruttamento e alterazione degli habitat naturali e delle conseguenze della crisi climatica sulla capacità di propagazione di alcuni virus – ma all’elenco dei virus potremmo aggiungere anche quelli che hanno trovato terreno di facile propagazione tra gli animali da allevamento intensivo: per esempio, i virus di influenza suina e aviaria. Per tutte queste ragioni (aggiungiamo anche che le società, almeno quelle più ricche, spostano ormai a grande velocità sul globo individui e merci che possono portare ospiti indesiderati) le occasioni che un virus può cogliere per saltarci addosso aumentano. Allora anche il problema delle nuove zoonosi diventa una questione di sapienza ecologica. Si tratta di ripensare un’altra volta ancora la nostra relazione con l’ambiente e con le altre popolazioni animali. Badare non soltanto alla nostra, ma anche alla salute loro e degli ecosistemi in cui conviviamo.
L’approccio sanitario basato su considerazioni di questo tipo ha preso da qualche anno il nome di One Health. Come scrive l’Oms, si tratta di affrontare questi problemi con una strategia multidisciplinare per la salute pubblica, in cui si tengano assieme per esempio epidemiologia, scienze del clima, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio. Ma una strategia del genere, in attesa del prossimo virus, è una strategia politica. Come ricorda lo stesso David Quammen:
Abbiamo bisogno di più investimenti pubblici, di più istruzione pubblica, di finanziare adeguatamente istituti come lo statunitense Centres for Disease Control and Preventing, e organizzazioni equivalenti sparse per il mondo. Dobbiamo formare scienziati che diventeranno cacciatori di virus, che vadano in quelle grotte, in quelle foreste, facendo il lavoro sporco e che poi tornino nei laboratori a fare il lavoro d’indagine, per aiutarci a identificare questi virus. E abbiamo bisogno che le istituzioni sanitarie pubbliche siano pronte, con risorse e informazioni per affrontare le epidemie.