I l predatore si muove paziente, cercando i segni del passaggio della prossima vittima. Quando incontra una pista, la caccia ha inizio. Grazie agli organi recettori altamente specializzati di cui è dotato, il predatore può seguire le lievissime tracce chimiche lasciate sul terreno. La sua preda è già spacciata, ma ancora ignara della fine che l’attende, si muove lenta alla ricerca di cibo: foglie, funghi e detriti. Una volta che è stata raggiunta, l’attacco è rapido e inesorabile. Aprendo la bocca vorace, il predatore estroflette un rostro dalla superficie composta da migliaia di denti conici, con cui avvolge il corpo inerme della vittima e la divora. Non è una scena tratta da un film di fantascienza, ma qualcosa di reale e che dovrebbe farci ancora più paura: la caccia della temibile chiocciola lupo, Euglandina rosea, una specie aliena che ha sterminato intere popolazioni di chiocciole autoctone delle isole del Pacifico, causando una vera e propria catastrofe ecologica.
Quando parliamo di lumache (più correttamente di chiocciole, le lumache sono quelle senza guscio), probabilmente pensiamo a un piattino di escargots, più che a specie selvatiche e minacciate. Il nostro rapporto con le lumache, infatti, oltre a essere molto antico è spesso legato al cibo, perché sono tra gli animali più facili da catturare e da sempre l’uomo le ha raccolte per arricchire la sua dieta. Tanto per fare un esempio, nel De re rustica di Marco Terenzio Varrone si descrivevano già “cocleari”, cioè allevamenti di lumache, presenti nella zona di Tarquinia dove i molluschi venivano nutriti con farine di cereali ed erbe aromatiche per servirli poi in occasione di feste e banchetti. Anche se la nostra conoscenza spesso si limita alla Helix pomatia, la chiocciola degli antichi Romani, le specie di chiocciole nel mondo sono un numero impressionante, circa 43.000. Praticamente da sole costituiscono l’80% di tutte le specie di molluschi terrestri a noi note. Per avere un dato di riferimento, considerate che tutti i mammiferi del mondo, pipistrelli e cetacei inclusi, non arrivano a 7.000 specie.
La diversità di questi animaletti è ricchissima soprattutto nelle isole, dove appunto la condizione di isolamento ha innescato processi evolutivi che hanno portato alla nascita di tantissimi endemismi, ovvero di specie uniche presenti solo in un piccolo lembo di terra del pianeta. Ma come hanno fatto le lumache a raggiungere le isole sparse per il globo? In realtà, non lo sappiamo con certezza. Potrebbe sembrare una domanda di scarsa rilevanza, ma è un mistero che aveva già incuriosito lo stesso Darwin, che provò a legare delle chioccioline alle zampe di alcune anatre per capire se, in questo modo, sarebbero sopravvissute a un lungo viaggio raggiungendo luoghi anche molto lontani. È probabile, tuttavia, che il mezzo di trasporto più frequente non siano gli uccelli, ma le foglie portate dai venti, sulle quali a volte può trovarsi una chiocciolina.
Quella della chiocciola lupo è solo una delle tante storie che si possono raccontare per descrivere le devastazioni causate dalle specie aliene.
Quando a fare l’autostop è una chiocciola fecondata, capace di deporre fino a cento uova, allora anche un singolo evento può dar vita a una nuova popolazione, dalla quale poi l’adattamento può portare all’evoluzione di nuove specie. Un meccanismo detto di radiazione adattativa, che nel caso delle lumache può diventare esplosivo. Per dire, nelle sole isole Mauritius ci sono 125 specie di chiocciole autoctone, 81 di queste vivono esclusivamente in quell’arcipelago e sono quindi endemiche, mentre a Cuba le specie di chiocciole arrivano addirittura a 1.300, di cui il 95% endemiche. Se siete più interessati alle lumache al sugo che non agli endemismi delle isole, dovete sapere che nel mondo non si mangiano solo le lumache romane, ma ci sono specie ben più nutrienti, come la chiocciola gigante africana, Achatina fulica, una enorme lumaca che può arrivare a misurare oltre 30 centimetri di lunghezza e superare il mezzo kg di peso, praticamente un pollo arrosto strisciante.
Proprio la possibilità di utilizzarla come fonte di cibo ha fatto sì che fosse introdotta in molte isole del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale, per creare una dispensa vivente per i soldati impegnati in quei luoghi remoti, difficili da raggiungere per le navi che dovevano assicurare le scorte alimentari. Ma la chiocciola africana ha anche una fame proporzionata alle sue dimensioni e in poco tempo gli abitanti delle isole si sono trovati i raccolti devastati dal mollusco, che si alimenta di ogni vegetale che incontra, frutta e ortaggi inclusi. Per cercare di combatterla, si è deciso di introdurre un’altra specie di chiocciola, proveniente dal sud degli Stati Uniti: Euglandina rosea, cioè il vorace predatore che abbiamo visto in azione poco fa. Scelta a dir poco sventurata, perché, tra l’enorme cugina africana e le inermi chioccioline isolane, la chiocciola lupo si è concentrata sulle ultime. Di tutte le estinzioni di molluschi di cui abbiamo notizia, il 70% è avvenuto sulle isole, e tra queste circa un terzo è stata causata proprio dalla chiocciola lupo. Alle Hawaii, dove erano presenti in passato circa 750 specie di chiocciole, ne sopravvivono oggi solo una settantina, ovvero una su dieci.
Una simile ecatombe non rappresenta solo una perdita irreversibile per la biodiversità di ecosistemi già fragili, ma anche una ferita insanabile per le comunità locali. Gli hawaiani chiamavano infatti le chiocciole “voce della foresta”, perché credevano che di notte cantassero riempiendo i boschi di vita con le loro melodie. Nella cultura hawaiana, priva di una lingua scritta, le conoscenze si sono sempre tramandate per mezzo del canto e della danza, e le lumache, ritenute spiriti positivi, impersonavano quindi la trasmissione del sapere. Ma erano anche, purtroppo, spiriti molto vulnerabili. L’ultima estinzione registrata di un mollusco terrestre è avvenuta proprio alle Hawaii il primo gennaio del 2019. Quel giorno, alla veneranda età di quattordici anni, si è spento George, l’unico esemplare sopravvissuto di Achatinella apexfulva, che era stato prelevato in natura insieme ad altri della sua specie in un estremo tentativo di allevamento in cattività. Con la sua scomparsa, anche le foreste hanno perso un po’ della loro voce.
Quando un predatore viene introdotto in una nuova area, gli effetti possono essere rapidissimi e terrificanti.
Quella della chiocciola lupo è solo una delle tante storie che si possono raccontare per descrivere le devastazioni causate dalle specie aliene. È però un esempio emblematico, perché descrive il meccanismo più intuitivo, e sicuramente quello più impressionante, con cui le specie aliene colpiscono quelle autoctone, cioè quello della predazione. Quando un predatore viene introdotto in una nuova area, soprattutto se è un ambiente fragile come le isole o le zone umide, gli effetti possono essere rapidissimi e terrificanti. Animali che si sono evoluti in habitat dove avevano pochi o nessun predatore naturale si trovano d’improvviso esposti alle aggressioni dei nuovi arrivati, incapaci di sfuggire o difendersi efficacemente. È quanto è successo anche a Guam, una remota isola della Micronesia, territorio degli Stati Uniti.
Quando alla fine della Seconda guerra mondiale una nave della marina statunitense attraccò sull’isola di Guam nessuno sospettava quale catastrofe stesse per scatenarsi a causa di un passeggero indesiderato infilatosi di nascosto tra le casse caricate sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea. Il serpente bruno degli alberi (Boiga irregularis) è un serpente diffuso nel nordest dell’Australia, in Borneo e in altre isole della regione. Velenoso e aggressivo, è particolarmente abile a muoversi sui rami degli alberi dove caccia uccelli e piccoli vertebrati. A Guam non c’erano mai stati serpenti, ma l’isola ospitava una ricca fauna di uccelli endemici, che riempivano le foreste di canti e di suoni. Il serpente bruno degli alberi cominciò a esplorare il nuovo territorio e dopo il lungo viaggio aveva una gran fame. Presto scoprì che, a differenza di quelli a cui era abituato, gli uccelli di Guam non erano sempre all’erta e non fuggivano rapidamente al suo avvicinarsi. Un paradiso dei predatori, insomma. Il serpente arrivato era una femmina, già fecondata e pronta a deporre le sue uova, e la sorprendente abbondanza di prede così ingenue era un’ottima notizia anche per la sua prole.
Con tanto cibo a disposizione e nessun nemico da temere, si creò una numerosa popolazione di serpenti che rapidamente colonizzarono tutta l’isola. A questo punto anche gli abitanti di Guam cominciarono a dover fare i conti con il nuovo ospite, che riusciva a intrufolarsi nelle case, si muoveva lungo cavi elettrici e telefonici, e attaccava se disturbato. In pochi decenni il serpente bruno degli alberi ha così sterminato gli uccelli di Guam, causando l’estinzione di 10 delle 12 specie che vivevano nelle foreste dell’isola, portando sull’orlo dell’estinzione anche quelle miracolosamente sopravvissute. Lo sterminio non si è fermato agli uccelli: anche altri rettili e pipistrelli hanno registrato un crollo dopo l’arrivo del predatore, che ora è passato alle lucertole e chissà quali altri disastri potrà ancora causare sull’isola. Nel 1994 il giornalista scientifico Mark Jaffe ha raccontato nel libro And No Birds Sing. The Story of an Ecological Disaster in a Tropical Paradise il caso del serpente bruno e delle foreste di Guam, trasformatesi da luoghi chiassosi a spazi tristi e silenziosi.
Se anche i millenni di domesticazione ne hanno ingentilito i tratti, il gatto non ha perso nulla dell’istinto predatorio dell’antenato.
Non serve però spingersi fino alle isole dei tropici per osservare i danni causati da temibili predatori alieni. Se non ci credete, dovete solo rivolgere lo sguardo verso il vostro divano di casa. Il predatore alieno più implacabile è un animale che ci fa compagnia da millenni: il gatto domestico (Felis catus). Addomesticato sicuramente già dagli antichi Egizi, partendo dalla sottospecie di gatto selvatico che viveva tra il Nord Africa e l’Asia sudoccidentale (Felis silvestris lybica), il gatto domestico potrebbe in realtà avere origini anche più antiche, risalenti a oltre seimila anni fa, come indicano tracce di convivenza tra gatto e uomo nella Mezzaluna Fertile. Nonostante oggi viva comodamente nelle nostre abitazioni e sia ben felice di mangiare le ottime crocchette e il cibo gourmet che gli compriamo, il gatto rimane uno dei cacciatori più efferati del pianeta. I gatti selvatici, antenati del gatto domestico così come il lupo è il progenitore del cane, cacciavano sfruttando la vista acutissima e l’udito sensibile, balzando sui piccoli animali per agguantarli con gli artigli affilati e ucciderli con i denti acuminati. Se anche i millenni di domesticazione ne hanno ingentilito i tratti, il gatto non ha perso nulla dell’istinto predatorio dell’antenato.
Quando guidate in una zona di campagna provate a osservare i campi coltivati: vedrete spesso gatti immobili che osservano attentamente i fossi, l’erba alta o i cespugli. Sono a caccia, attenti a ogni minimo movimento, pronti a sorprendere topolini, lucertole o ranocchie e fiondarsi su di loro. Il gatto è anche un infaticabile esploratore che perlustra il territorio da cima a fondo, compresi i tetti delle case, dove stana pipistrelli e uccellini nascosti nelle fessure tra le tegole. Nessuno si era però reso conto di quale effetto questi felidi avessero sull’ambiente circostante, finché nel 1987 due ricercatori inglesi non condussero un piccolo studio che avrebbe stravolto l’immagine dei teneri gattini di casa. Un giovane studente di biologia dell’Università di York, Peter Churcher, assistito dal bravissimo ecologo John Hartley Lawton, decise di studiare per un anno la predazione di 70 gatti domestici del grazioso villaggio di Felmersham, nella regione del Bedfordshire a nord di Londra.
L’idea in sé era molto semplice: visto che i gatti spesso portano a casa piccole prede per darle in dono ai loro proprietari, Churcher parlò con tutte le abitanti e gli abitanti del paese, chiedendo loro di annotare scrupolosamente le prede portate a casa dai loro animali domestici, per poi tornare a intervistarli nel tempo. L’adesione è stata totale e la comunità di Felmersham ha così partecipato a uno dei primi esperimenti di citizen science. Gli abitanti del paesino hanno raccolto dati su 1.090 prede, di cui 535 mammiferi, 297 uccelli e 258 altri animaletti. Ogni gatto del paese ha ucciso circa 14 animali nell’anno dello studio, e la predazione si è rivelata particolarmente elevata sui passeri, tanto che l’analisi dei due ricercatori ha stimato che i gatti incidessero almeno per il 30% delle morti di questi uccellini. Dopo quella prima ricerca, gli studi sull’impatto dei gatti domestici si sono moltiplicati e i risultati delle indagini scientifiche condotte hanno restituito un quadro ben peggiore di quanto si potesse immaginare. I gatti predano oltre 175 specie di vertebrati e sono responsabili di almeno il 14% delle estinzioni globali di uccelli, mammiferi e rettili. Rappresentano inoltre la principale minaccia per quasi l’8% degli uccelli, mammiferi e rettili tuttora a forte rischio di estinzione.
I gatti domestici inselvatichiti che popolano l’Australia, ad esempio, minacciano la sopravvivenza di oltre 100 specie autoctone, hanno causato l’estinzione di varie specie di piccoli uccelli e mammiferi, e stanno portando alla scomparsa diversi marsupiali endemici, come il bilby e il formichiere marsupiale fasciato. Nelle isole Canarie i gatti stanno decimando svariate specie di lucertole giganti, tipiche di questo arcipelago. O, ancora, in Nuova Caledonia i felini predano sistematicamente sette diverse specie di grandi pipistrelli adattati a nutrirsi di frutta. Uno studio pubblicato nel 2015 sulla prestigiosa rivista Nature Communications ha infine stimato che, solo negli Stati Uniti, i gatti domestici sono responsabili di una quantità incredibile di uccisioni: tra 1,3 e 4 miliardi di uccelli e tra 6,3 e 22,3 miliardi di mammiferi ogni anno. Sono numeri molto più elevati di ogni altra causa di mortalità di origine umana – ben superiori, per esempio, agli esemplari abbattuti dai cacciatori – e secondi solo alle morti provocate dalla distruzione degli habitat naturali.
Un estratto da Specie aliene di Piero Genovesi (Laterza, 2024).