L a tecnologia umana ha iniziato da poco lo sfruttamento intensivo dell’energia solare che arriva sul nostro pianeta in modo continuo, distribuito, gratuito e incredibilmente abbondante. Una così generosa fonte di energia non poteva apparire utile solo alla tecnologia umana: il concetto stesso di vita è legato all’energia solare. Sebbene vi siano nicchie biologiche basate sull’energia termica (come i camini vulcanici oceanici), la quasi totalità dei viventi è legata al sole come fonte primaria di energia. La vita stessa è un semplice processo di ossidoriduzione, e non sarebbe sostenibile se non ci fosse una fonte di energia a mantenerlo attivo.
[…] Con la fotosintesi, una reazione mediata da diversi enzimi la cui storia coincide con la storia della vita, si sfrutta l’energia del sole e si convertono anidride carbonica e acqua in molecole complesse, proprio le molecole complesse che costituiscono i viventi. […] Ma sarebbe strano pensare che solo le piante, all’epoca dell’origine della vita, possano aver intuito il potere della luce solare e trovato un modo per sfruttarla. In effetti, diversi altri viventi hanno cercato di reimparare questo trucchetto. Il motivo è semplice, fare la fotosintesi significa non dover cercare cibo, è sufficiente assorbire anidride carbonica, comodamente disponibile nell’aria. Basta caccia e fuga, ricerca del cibo e carestia; fotosintesi significa stendersi al sole e vivere felicemente, proprio come fanno le piante in giardino e tutti gli altri vegetali, dai muschi ai più grandi alberi.
Questo deve aver pensato l’evoluzione quando sulla Terra è apparso quel fenomeno noto come “cleptoplastia”, ossia il furto dei cloroplasti. I cloroplasti sono gli organuli che svolgono la fotosintesi nelle cellule dei vegetali. Per inciso, i cloroplasti un tempo erano qualcosa di simile a batteri liberi (cianobatteri), che furono inglobati da organismi unicellulari proprio per sfruttarne la capacità fotosintetica. In seguito a questa acquisizione, nacquero i primi organismi eucarioti fotosintetici. Probabilmente questo proficuo processo è avvenuto più volte e tra organismi diversi; infatti, oggi si sospetta che i cloroplasti delle alghe brune derivino da cianobatteri ancestrali con un tipo di clorofilla differente dagli altri organismi fotosintetici noti, la clorofilla “c” (assente nelle piante superiori), frutto di una possibile “fusione” diversa nei modi e nei tempi.
Può sembrare straordinario pensare a un animale che vive con al suo interno gli organuli attivi di un vegetale, eppure non è così raro come processo in natura.
Ci sono diverse prove a sostegno della tesi secondo cui i cloroplasti (e i mitocondri) siano stati inglobati nelle cellule eucariote: tra queste, la struttura e la natura del DNA dei cloroplasti stessi. Quello che mi ha sempre colpito è che in alcuni esseri di oggi, capaci di fotosintesi (come le alghe dorate), i cloroplasti sono rivestiti da tre o quattro membrane. Questo strano involucro di membrane a più strati attorno a questi organuli è spiegato immaginando più eventi di fagocitosi in serie: una cellula eucariotica deve aver fagocitato un’altra cellula eucariotica, che a sua volta aveva inglobato i cloroplasti. Sono proprio un ricco bottino questi organuli, se le cellule giunte sino a noi in miriadi di generazioni se li sono rubati e contesi, coccolandoli al loro interno! Si dovrebbe parlare di endosimbiosi quando si descrivono questi procedimenti, una particolare forma di simbiosi nella quale un organismo (spesso unicellulare) vive all’interno di un secondo organismo, ottenendo un mutuo beneficio.
[…] I cianobatteri (o qualcosa di simile ai moderni cianobatteri) e i loro cloroplasti, una volta inglobati nelle cellule e trasformatisi in utilissimi organuli fotosintetici, hanno permesso l’evoluzione e la differenziazione dei vegetali. Questi cianobatteri tanto utili sono stati poi notati da altri esseri, così che un’infinità di coppie simbiotiche possono oggi essere scovate in natura. Sono coppie in cui uno dei partner è capace di svolgere la fotosintesi (grazie ai cloroplasti). In questo modo, si sono organizzati i licheni (coppie simbiotiche di alghe e muschi), i coralli delle barriere coralline (recenti studi dimostrano che i moderni polipi dei coralli e i loro partner algali convivono da circa 160 milioni di anni di coevoluzione), e addirittura alcune meduse ospitano alghe fotosintetiche sui tentacoli.
Queste meduse, più simili a contadini instancabili che alle urticanti cugine dei nostri mari, sono del genere Mastigias e hanno sviluppato una simbiosi con delle alghe unicellulari, le dinoflagellate zooxantelle. In particolare, la specie Mastigias papua, per rispettare le alghe con cui convive, effettua migrazioni giornaliere. Di notte si porta in profondità, dove si nutre attivamente da vero predatore di copepodi (crostacei), e poi di giorno si porta in superficie nella zona di massima illuminazione, per garantire alle alghe una buona fotosintesi e il massimo rendimento. È contadina di giorno e cacciatrice di notte!
In questi casi, si osserva la collaborazione tra due viventi che, mettendo assieme le forze, se la cavano meglio che presi singolarmente. Possibile che qualche essere non abbia pensato di prendere solo il meglio dall’altro partner? Cioè, possibile che qualche essere non abbia pensato di prendere solo il cuore pulsante della fotosintesi, ossia i cloroplasti? Ebbene sì, si tratta appunto della cleptoplastia, il furto dei cloroplasti, il cui processo è ben descritto nella vita di un piccolo mollusco di mare, la Elysia clarki.
Questa simpatica lumaca di mare si nutre di molti tipi di alghe diverse (per esempio, Penicillus capitatus, Penicillus lamourouxii, Halimeda incrassata, Bryopsis plumosa e Derbesia tenissima), ma, a differenza che in altri erbivori, il suo sistema digerente è in grado di assimilare i cloroplasti senza degradarli. Questi vengono poi convogliati nelle varie ramificazioni del corpo della lumaca (che appare come un cespuglio verde), per continuare a svolgere la fotosintesi. Insomma, la lumaca bruca come una normalissima piccola mucca, ma una volta acquisiti i cloroplasti può vivere d’aria. Già, perché con la fotosintesi, assicurata dai cloroplasti assorbiti, può convertire l’anidride carbonica in zuccheri. Lei mangia le alghe non per nutrirsi, ma per non doversi più nutrire! Se qualcuno fosse scettico, sappia che esperimenti condotti con anidride carbonica marcata con l’isotopo 14C dimostrano che i cloroplasti ingeriti rimangono efficienti nella lumaca come se fossero nella loro cellula algale originale e convertono il gas marcato in zuccheri per molti mesi.
La lumaca utilizza lo zucchero prodotto dai cloroplasti e lo converte in altre molecole per tutte le sue necessità vitali. Ovviamente, la lumachina deve vivere in acque basse molto assolate per sostenere la fotosintesi dei cloroplasti. La Elysia clarki non rappresenta una rarità. Infatti, limitatamente al Mediterraneo, possiamo incontrare ben otto specie di lumache “cleptoplastiche”: Elysia hopei, Elysia flava, Elysia timida, Elysia translucens, Elysia viridis, Elysia gordanae, Bosellia mimetica, Elysia ordanae. Evidentemente la strategia che consente a un animale di inglobare cloroplasti e vivere d’aria, oltre che comoda, è anche vincente!
Elysia bruca come una normalissima piccola mucca, ma una volta acquisiti i cloroplasti può vivere d’aria.
Questo verde mollusco non è l’unico essere ad aver adottato questa strategia, si comportano nello stesso modo due specie di vermi piatti marini (i platelminti Baicalellia solaris e Pogaina paranygulgus), capaci di sequestrare i cloroplasti dalle diatomee. Può sembrare straordinario pensare a un animale che vive con al suo interno gli organuli attivi di un vegetale, eppure non è così raro come processo in natura. Spesso piante e animali trovano un modo di vivere in simbiosi senza perdere la propria identità. Uno dei casi più teneri è quello della salamandra solare, l’Ambystoma maculatum. Nelle uova trasparenti di questa specie, oltre all’embrione, si trovano delle alghe unicellulari (Oophila amblystomatis); l’animale produce scarti azotati utili al vegetale, che con la fotosintesi rifornisce di nutrienti l’embrione di salamandra in sviluppo. Recentemente, però, è stato provato che le cellule dell’alga si trovano anche nelle cellule superficiali dell’epidermide della salamadra, e lo scambio di favori avviene direttamente tra alga e vertebrato, anche quando questo è adulto.
Un altro esempio è l’eucariota Guillardia theta (Cryptomonadineae, Chromista), il classico caso di eucariota che ingloba un altro eucariota […]. Come sappiamo che alcuni eucarioti hanno inglobato altre cellule nel corso dell’evoluzione? Nello specifico, l’eucariota Guillardia theta presenta ben quattro genomi diversi a testimoniare la sua storia: un genoma nucleare (il normale genoma presente nel nucleo di una cellula), un genoma mitocondriale (il genoma presente nel mitocondrio, l’organello cellulare considerato “la centrale energetica” della cellula), il genoma del cloroplasto (il cloroplasto è l’organello capace di svolgere la fotosintesi clorofilliana convertendo l’energia luminosa in energia chimica) e il nucleomorfo (cioè ciò che rimane del nucleo di un’alga precedente inglobata).
Il nucleomorfo della Guillardia theta deriva da un’alga rossa, proprio per endosimbiosi secondaria. Cioè, Guillardia theta è tale perché nella sua storia ha inglobato un cianobatterio per la fotosintesi (da cui il cloroplasto), un procariota aerobico (da cui il mitocondrio) e, più recentemente, un’alga rossa da cui il nucleomorfo. Ma perché? […] Conviene avere più centri capaci di fotosintesi al prezzo di uno, in fondo nel corso della propria storia evolutiva basta inglobare un’alga! Il nucleomorfo deriva dall’evento di inclusione di un’alga verde o rossa (eucariote fotoautotrofo), poi, in seguito all’endosimbiosi, si osserva una riduzione graduale del genoma dell’organismo fagocitato. Il risultato finale è un “super-eucariote” con quattro genomi, due genomi di tipo procariotico (mitocondrio e cloroplasto, dai procarioti eterotrofi e autotrofi inglobati) e due genomi di tipo eucariotico (nucleo della cellula stessa e nucleomorfo acquisito dall’alga fagocitata): tutto per poter essere più efficiente.
[…] Per questi processi spesso servono milioni di anni di adattamenti e affinamenti biochimici, come per due coinquilini che si trovino a condividere un monolocale, ma a volte tutto avviene per magia, quasi istantaneamente. In generale, i viventi si dividono in autotrofi (organismi capaci di produrre molecole complesse e ricche di energia partendo da semplici sostanze inorganiche, per esempio con la fotosintesi) ed eterotrofi (organismi che possono nutrirsi solamente utilizzando sostanze organiche prelevate da altri organismi viventi). Alcuni scienziati giapponesi hanno scoperto un flagellato eterotrofo (l’Hatena arenicola) che ingloba abitualmente un’alga verde unicellulare e autotrofa (la Nephroselmis) che di norma conduce vita libera. Una volta avvenuto il processo di inglobamento, l’alga verde perde il proprio citoscheletro, mentre l’ospite perde la propria capacità di nutrirsi (del resto non ne ha più bisogno, l’alga lo sostenta!). Dopo l’endosimbiosi, l’ospite modifica il proprio metabolismo al risparmio, passando da eterotrofo ad autotrofo (cioè acquisisce la capacità fotosintetica) e sviluppa la capacità di movimento per fototassi (ossia quello di organismi biologici determinato da stimoli luminosi).
Un’ultima curiosità: se esiste un animale come l’Elysia, che ha trovato il modo di fare la fotosintesi passando da essere eterotrofo ad autotrofo, allora esiste al mondo un vegetale che ha disimparato questo processo? Un animale capace di fotosintesi come l’Elysia ne trae il grande vantaggio di vivere stando al sole; al contrario, una pianta senza fotosintesi non potrebbe sostenersi. Eppure gli animali in generale fanno proprio questo, non sono capaci di trarre energia dal sole e quindi sfruttano come risorsa energetica i vegetali, ingerendoli, o si cibano di altri animali: gli erbivori trovano sostentamento direttamente dai vegetali, i carnivori dalle carni degli erbivori. L’energia contenuta nelle molecole di cui si ciba ogni animale deriva sempre e comunque dal sole. Perché allora non dovrebbe esserci qualche furbetto anche tra i vegetali? Un vegetale che si comporti come un animale, un vegetale eterotrofo. In effetti, una serie di piante ha trovato il modo di vivere degli animali conveniente e lo ha imitato. Si tratta di piante senza clorofilla, incapaci di fotosintesi; non hanno quindi bisogno di sole, ma devono consumare energia rubandola da altri vegetali, proprio come gli animali: sono piante parassite e ovviamente non sono verdi!
Ne possiamo trovare facilmente facendo una passeggiata e, forse, le scambiamo per piante morte essendo di colore giallognolo. È il caso della Cuscuta europaea, un’erbacea annuale molto diffusa, con foglie ridotte a squame e senza clorofilla; la si distingue per i sottili fusti filiformi giallo-arancioni. Essendo un parassita, si attacca alla pianta ospite avvolgendosi in spire, fatto ciò si libera del contatto con il terreno per nutrirsi esclusivamente della linfa dell’ospite. Utilizza radici modificate, dette austori, per penetrare nel fusto da succhiare e raggiunge così il floema (il tessuto dove scorre la linfa zuccherina elaborata dalla fotosintesi), da cui trae i nutrienti a discapito del vegetale parassitato che, non potendo scappare, dovrà produrre nutrienti per due.
Una serie di piante ha trovato il modo di vivere degli animali conveniente e lo ha imitato.
I semi della Cuscuta possono germinare anche senza un ospite, ma il germoglio deve raggiungere rapidamente una pianta verde. Se una pianta verde (clorofillica) non viene raggiunta entro una o due settimane dalla germinazione, la piantina parassita morirà perché incapace di fotosintesi. Altro straordinario esempio è il vegetale noto come succiamele prataiolo (l’Orobanche lutea), altra pianta parassita. Il nome suggerisce lo stile di vita dell’Orobanche, che significa “strozzatrice di legumi”, perché, come tutte le piante parassite, avvolge l’ospite, non per strozzarlo, ma per assorbirne i nutrienti. Lutea deriva dal latino “giallo”, e ci ricorda che, non avendo la clorofilla, il succiamele prataiolo è giallo.
Di queste piante sono molto noti gli assi floreali ben visibili (15-40 centimetri), eretti, ben spessi, di colore giallognolo; il resto della pianta è meno visibile, spesso il corpo è sotterraneo (geofita, cioè trascorre la stagione sfavorevole sotto forma di gemme sotterranee), ed è in quella sede che avviene il contatto con l’ospite e il furto dei nutrienti. È curioso pensare a un buio nascosto in cui avviene il furto della linfa zuccherina tra gli intrichi delle radici, proprio come un abusivo che si allacci illegalmente a qualche cavo o tubatura di servizio nelle cantine di un condominio.
Esistono anche altri modi più antichi di quelli visti per sfruttare la luce del sole. Sono sistemi che devono essere nati quando i vegetali erano ancora in fase di rodaggio e tutti i viventi cercavano una strategia biochimica per esistere. Negli archeobatteri infatti possiamo trovare dei meccanismi per convertire l’energia luminosa in energia chimica assolutamente diversi dalla fotosintesi. In questo caso, non esiste la clorofilla (in nessuna delle sue infinite varietà presenti in alghe e piante). Curiosamente, in questi esseri, a convertire la luce in energia è un sistema basato sulle molecole identiche a quelle presenti nei nostri occhi!
Nei nostri sistemi visivi il meccanismo di ricezione della luce è basato su una proteina: la rodopsina. Alcuni archeobatteri presentano proteine simili alle rodopsine, dette archeorodopsine (proteorodopsine e alorodopsine). Queste proteine convertono la luce in energia chimica (la molecola nota come ATP). Tutte queste proteine si basano su una singola molecola, il vero centro sensibile alla luce: il retinale. In noi vertebrati lo stesso retinale serve per la vista, in questi archei per creare energia. Condividiamo questa molecola perché condividiamo una comune origine, è un retaggio antico! In alcuni archei, il retinale è il motore di proteine di membrana che permettono la sintesi di ATP, in altri rami dell’evoluzione è diventato indispensabile nei meccanismi fotoricettivi. L’albero della vita è un grande riciclo di brevetti biochimici!
Sembra proprio che nel mondo della natura i più moderni siano coloro che hanno imparato a sfruttare al meglio l’energia del sole, magari inglobando esseri fotosintetici o rubando direttamente ad altri organismi. Noi umani siamo molto indietro, dobbiamo ancora imparare a convertire l’energia luminosa in modo proficuo. La natura è un incredibile serbatoio di idee, di esempi, di errori da cui imparare, di strategie da adottare. Dobbiamo trovare il modo di produrre enormi quantità di energia per mantenere il nostro stile di vita e migliorarlo, ma per fare questo dobbiamo assolutamente trovare una strategia che eviti di distruggere il mondo in cui viviamo, il nostro ecosistema. Dobbiamo adottare strategie ecocompatibili in modo che i nostri posteri possano godere dello stesso miglioramento tecnologico che pretendiamo di produrre.
[…] Più in generale, dovremmo forse imparare dalla vocazione simbiotica dei cianobatteri a vivere con tutti gli altri viventi del pianeta, imparare dall’Elysia a sfruttare ciò che incontriamo senza distruggerlo (o digerirlo, assimilandolo) per trarne il meglio, imparare dalla Guillardia, per cui evolvere significa cambiare, modificarsi, magari non nel genoma come lei (che forse si è fatta prendere la mano), ma almeno nello stile di vita e nei comportamenti. In fondo, come umani, non pretendiamo troppo, vogliamo solo stare al sole ad ascoltare musica mangiando un panino!
Un estratto da La natura lo fa meglio (e prima) di Giorgio Volpi (Aboca, 2024).