Ospitiamo un breve saggio di Enrico Alleva e Daniela Santucci del Centro di Riferimento per le Scienze comportamentali e la Salute mentale.
C osa spinge milioni di esseri animali a spostarsi? Alcuni lo fanno in solitudine, come gli avvoltoi, altri in piccoli gruppi, come i pigliamosche, altri ancora in stormi di centinaia di migliaia (se non milioni) di uccelli, come gli storni che abbiamo studiato assieme al fisico teorico Giorgio Parisi e al mai abbastanza compianto economista Marcello De Cecco, recentemente scomparso e che tanto diede alla Treccani.
Partiamo dalla zugunruhe: quella frenesia premigratoria che pervade le menti e i corpi (per esempio) dei pettirossi, uccelli migratori puntuali e precisi, cui etologi di molte generazioni hanno dedicato studi lunghi e approfonditi. Nella mente del pettirosso (anche del giovane uccellino uscito da poche settimane dall’uovo e che dunque nulla apparentemente conosce del proprio viaggio migratorio), scatta un inesorabile meccanismo neurobiologico che produce appunto la zugunruhe: questa frenetica attività di “inquietudine premigratoria”, così la chiamiano tecnicamente gli etologi, che spinge un uccello diurno a divenire notturno, ossessivamente insonne, e a sbattere compulsivamente per tutta la notte contro le sbarre della gabbia: e proprio nella direzione verso la quale dovrebbe migrare secondo un messaggio insito nei geni della sua specie – migratrice obbligatoria (o quasi).
Quindi il viaggio migratorio si compie molto spesso di notte nei piccoli passeriformi, perché è il periodo di minor pericolo di attacco da parte dei predatori; e si viaggia di solito addensati in migliaia di individui, in stormi fitti e tenuti coesi da apposite strida di volo. Tutto comincia con un meccanismo neurofisiologico che prende principio in una zona particolare del cervello che si chiama ipotalamo, perché adagiato sotto il talamo (letto), sul quale si adagiano le due grandi vesciche, gli emisferi cerebrali, dalla forma a grande fagiolo solcate di belle e armoniose circonvoluzioni. Ma cos’è che attiva questi neuroni, questi potenti neuro-ormoni di piccolissime dimensioni (molecole peptidiche di pochi aminoacidi) che fanno partire per il viaggio, cioè fanno scattare la zugunruhe? Il meccanismo, puramente astrale, è scritto nell’Astro per eccellenza, il Sole: fonte di vita, calore, energia, perno dell’evoluzione delle vite terrestri e delle loro tante, inesorabili estinzioni.
È l’allungarsi o l’accorciarsi della durata delle giornate, a dare il segnale di “via”: perché il Sole, l’Astro, che ha fornito luce e energia nella comparsa della vita sulla Terra che ancora regola i nostri ritmi – migrazioni comprese. Se il giorno è vieppiù lungo e dunque si accorcia la notte e dunque arriva la primavera, allora si migra verso lidi meridionali: più caldi, più miti, più ricchi di cibo, di territori da contendersi, che albergano insetti nutrienti per i piccoli pettirossi nidiacei: ma soprattutto lì al Nord ci sono più ore di luce, dunque si può nutrire più spesso la prole e quindi quel periodo di estrema fragilità che è il momento in cui i piccoli sono nascosti nel nido (facilissima preda per qualsiasi predatore li voglia divorare) diventa più breve. Giornate più lunghe, maggior numero di imbeccate al nido, piccoli che crescono molto più velocemente. La specie ne beneficerà massicciamente.
Migrare verso Nord significa, tecnicamente, spostarsi verso i siti denominati nuziali, nuptialia, quelli delle nozze. La migrazione autunnale invece avviene nell’altra direzione, detta contro-nuziale (in realtà i nostri uccelli italiani migrano sulla rotta Nord/Est Sud/Ovest, sono arrivati per decenni regolarmente in Italia uccellini con anelli scritti in cirillico).
Secondo parecchi evoluzionisti lo scopo del viaggio migratorio sarebbe anche quello di far eliminare tutti gli individui con qualche fragilità o debolezza, fisica o esistenziale.
Ma a cosa serve questo terribile viaggio migratorio? Le teorie sono molte, ovviamente il fatto che grandi masse di esseri di una certa specie si muovano per lunghissime distanze sopra la crosta del pianeta Terra permette alla specie di premere continuamente sui propri confini – quello che chiamiamo in zoogeografia areale di distribuzione – e quindi può fare colonizzare nuovi ambienti, ecologicamente sfruttabili: oppure spostare, magari lentamente, da una zona all’altra del Pianeta una certa specie. Ma secondo parecchi evoluzionisti il meccanismo sarebbe anche un altro: quello di far eliminare da questo lungo periglioso quasi impossibile viaggio migratorio tutti quegli individui che abbiano qualche fragilità o debolezza, fisica o esistenziale.
Come un giardiniere esperto e accurato, la migrazione eseguirebbe a primavera e autunno una “grande potatura” di tutti gli esseri che non eserciteranno un ruolo rilevante per la loro specie.
Ed è un viaggio davvero massacrante. Pensiamo ai piccolissimi uccelli passeriformi con un peso di pochi grammi che ogni anno lasciano i confortevoli lidi delle coste africane per attraversare in un solo lungo e durissimo balzo il mare Mediterraneo fino ad atterrare alle isolette laziali Ponza e Ventotene. A Ponza è stata organizzata da anni una stazione di anellamento, pesatura, e di studio neuro-etologico presso la quale i nostri studenti più motivati soggiornano ogni stagione adatta per studiare miti, riti, e controllo neurale delle prestazioni migratorie delle specie che più comunemente scelgono questi lidi come primo punto di sosta.
Così (con Leonida Fusani e Claudio Carere) abbiamo scoperto e pubblicato sull’autorevole rivista Rendiconti Lincei che piccoli passeriformi come il Beccafico e il Canapino comune riescono ad abbassare la propria temperatura corporea notturna di qualche grado se arrivano troppo stremati dal lungo viaggio dall’Africa, come modo per riprendere energia e “riprendere fiato” e così proseguire al meglio la lunga rotta migratoria restante.
L’uccello che rappresenta un po’ la mascotte dei migratori è quel Piviere dorato lungo soli 25 centimetri e che ogni anno migra intrepido e regolare dalle tundre artiche all’America del Sud, un vero circumnavigatore globale.
Ma non solo gli uccelli migrano, anche le farfalle monarca, come molti altri insetti e, sommesso ma potentissimo, non dimentichiamo il lungo e silenzioso viaggio dei pipistrelli migratori. Un viaggio molto importante anche per noi cittadini, dato che i pipistrelli che entrano negli ambienti cittadini e magari decidono poi di riprodursi tra le nostre tegole, soffitte e cantine rimangono tra i più potenti insetticidi (naturali!) contro zanzare mosche e piccole e grandi falene che attaccano vestiti, farinacei o piante ornamentali o dell’orto.
Non solo gli uccelli migrano, anche le farfalle monarca, come molti altri insetti e, sommesso ma potentissimo, non dimentichiamo il lungo e silenzioso viaggio dei pipistrelli migratori.
Cosa ci dice tutto questo sulla migrazione nella specie umana? Una specie nata migrante, uscita dalle grande spaccatura geologica del rift africano per giungere in Europa, pedibus calcantibus. Fare raffronti “coraggiosi” tra specie animale e quell’unica, incomparabilmente diversa, specie umana è sempre un ragionamento culturalmente fragile. Se guardiamo i volti dei giovani adolescenti africani che approdano sugli scogli di Lampedusa, certamente non possiamo commettere l’errore fallace di immaginarli come tanti poveri pettirossi animati da una zugunruhe scatenata dall’allungarsi o dall’accorciarsi della durata delle giornate; né certamente sono vittime dei neurormoni, prolattina, ossitocina, fattori di crescita dei nervi, che ne hanno forzosamente motivato un viaggio così duro e pericoloso.
Ben altri sono i fattori che spingono alla migrazione una famiglia di un paese povero, flagellato da fame, carestia, distruzione socioeconomica, limitato nelle capacità di produrre cibo tramite agricoltura di sussistenza, situazioni dall’incipiente riscaldamento globale. Tutti fattori dovuti all’attività sociale della specie Homo sapiens, che ben poco hanno a che fare con i ritmi, magari terribili, ma comunque “naturali” che spingono pettirossi, farfalle, pipistrelli, zebre, gnu, lemming e pivieri dorati a compiere i loro fortunosi viaggi migratori. Da biologi evoluzionisti (e provando a scherzarci un po’ sopra) l’unica affermazione che ci sentiamo di fare, volendo comparare questo insieme di fenomeni, è che molto spesso a migrare è un maschio giovane-adulto, quello più robusto da un punto di vista muscolare-scheletrico e non solo, quello con più spiccate capacità esplorative, non certamente solo per base genetica ma molto per tradizione culturale locale.
È patrimonio delle specie animali tutte, nei vertebrati e nei mammiferi, provvisti di mammelle e che allattano a lungo i piccoli dopo la nascita, provvedere traiettorie esistenziali differenti per i due sessi. Senza cadere in biologismi assurdi o perniciosissimi social-darwinismi, tentiamo una riflessione. Un insieme di dieci maschi e dieci femmine non soffre se a partire sono nove maschi, dato che teoricamente un solo maschio può fecondare tutte le dieci le femmine. Il contrario non sarebbe molto economico da un punto di vista “darwiniano”, perché se a partire, e a mettersi perciò a rischio di sopravvivenza con un lungo viaggio periglioso fossero le femmine progenitrici di future generazioni, la specie ne avrebbe nel complesso a soffrire molto. È un concetto insomma terribile, nel suo bio-riduzionismo anche eccessivo, quello della “spendibilità” del maschio. Il maschio cioè sarebbe spendibile perché la sua morte non causerebbe eccessive perdite in termini di sopravvivenza nel medio o nel lungo termine della specie.
È anche noto un altro fenomeno, tipico dell’adolescenza e del giovane adulto, quello per il quale esiste un periodo particolare dell’esistenza, nei vertebrati ma in particolare nei mammiferi, durante il quale quasi naturalmente si tende a infrangere le regole sociali del gruppo. Quello che succede, per esempio nei babbuini, è che la tradizione consolidata vieterebbe di assaggiare cibi nuovi, perché potenzialmente tossici oppure velenosi. Dunque, si mangia esclusivamente quello che mangiano gli adulti e gli anziani del tuo gruppo sociale. È la tradizione alimentare locale a dettare le regole. Ma come osserva per esempio nel suo bellissimo libro Diario di un uomo-scimmia il noto neuroscienziato ed etologo Robert M. Sapolsky, autore di seguiti articoli sul New York Times comparsi anche sul nostro Internazionale, cosa succede se nel selvaggio Kenya sorge all’improvviso una lodge per turisti nel bel mezzo della savana? Succede che sono disponibili cibi nuovi, rappresentati dai residui di cibo, morbido materiale da costruzione, e succulenta immondizia, dovute all’inizio al permanere in quella zona di savana degli operai che costruiscono l’impianto turistico, poi dei turisti stessi e degli operatori turistici assieme a loro.
Esiste un periodo particolare dell’esistenza, nei vertebrati ma in particolare nei mammiferi, durante il quale quasi naturalmente si tende a infrangere le regole sociali del gruppo.
Dunque c’è un nuovo cibo disponibile, un cibo completamente estraneo alle tradizioni alimentari di quel gruppo sociale di babbuini. Chi sarà così temerario da assaggiare un cibo nuovo, che potenzialmente potrebbe creare una forte dissenteria, se non avere un effetto fatale di avvelenamento? Eccolo, il ruolo ecologico ed evolutivo del maschio adolescente, quello che rompe tutte le regole e compie il passo potenzialmente mortale: saranno i maschi adolescenti ad andare ad assaggiare il cibo nuovo resosi disponibile. Al resto del gruppo sociale non resta che aspettare: se l’adolescente non muore avvelenato o non dà segni di convulsione o di diarrea liquefacente, allora tutto il gruppo si avvantaggerà del nuovo cibo. Comunque, per quanto detto prima, se un adolescente maschio soccombe, per il gruppo sociale nel suo insieme, una volta risparmiate le femmine, il danno sarà limitato.
E qui entrano in gioco le analisi scientifiche prodotte da uno dei migliori psicobiologi italiani, sommesso professionista, schivo ai media nazionali ma ben conosciuto all’estero: Giovanni Laviola, che coordina da decenni un gruppo di ricerca all’Istituto Superiore di Sanità. È lui che ha individuato un meccanismo semplice ma raffinato, proprio nel cervello dei tipici mammiferi di laboratorio, roditori quali ratti e topi. Tutti noi mammiferi – ratti, topi e babbuini compresi – abbiamo zone del cervello che producono sostanze con un effetto “euforizzante”, di piacere, che lo inondano tutte le volte che raggiungiamo uno scopo, per esempio portare a termine una missione, conquistarci un partner sociale o sessuale, reperire e cibarsi di un cibo particolarmente gustoso. Questo meccanismo legherebbe i centri che producono il neurotrasmettitore dopamina e che si trovano appunto localizzate in alcune aree cerebrali.
Ebbene, negli adolescenti, per un breve periodo, soprattutto in quelle che Laviola definisce fasi iniziali e intermedie dell’adolescenza, questo meccanismo di “euforizzante piacere” si legherebbe attraverso nuovi circuiti neuronali non ad atti consueti, premiati proprio perché utili all’individuo stesso e alla sua specie, bensì remunererebbero con una sorta di auto-iniezione di sostanza morfinica euforizzante tutti quegli atti che rompono la tradizione culturale di quella specie. Insomma fare qualcosa di profondamente vietato e insolito darebbe uno stato di benessere ed euforia.
Questa la vita complessa e assai pericolosa dei maschi adolescenti dei babbuini. Speriamo che le mamme italiane non traggano immediato spavento per quello che succede nei circuiti cerebrali dei loro figli adolescenti, ma accettino l’idea che è quella del giovane-adulto l’età nella quale una prorompente vigoria, anche intellettuale, porta a spinte migratorie, che, sempre per burla, un po’ assomigliano alle nottambule zugunruhe dei pettirossi.