L’ archeologo decifra gli antichi geroglifici e li proclama con voce gutturale, risvegliando così la mummia del faraone dal sonno in cui era immersa da secoli. È una scena che si ripete in tanti film hollywoodiani, che raccontando storie di mummie insistono sull’orientalismo e rinviano inevitabilmente alle piramidi d’Egitto. È vero però che anche in Europa e in particolare nel Sud Italia sono ancora conservate numerose mummie “autoctone”, che permangono al centro di specifici culti, spesso praticati in occasione delle celebrazioni del 2 novembre.
Quando nel tardo medioevo latino si diffuse il termine “mumia”, non era chiarissimo a cosa si riferisse: alcuni credevano indicasse i preparati, solitamente a base di bitume o pissasfalto, con cui si rendeva incorruttibile un corpo. Altri, il cadavere conservato, che in virtù di quelle sostanze si mostrava nerastro. Altri ancora, il sudicio liquame raccolto dai sacelli, che d’altra parte incontrò anche uno straordinario successo nella farmacopea europea del Cinquecento e Seicento: il mefitico essudato era infatti prescritto per la cura di praticamente qualunque malattia, perché si riteneva potesse in qualche modo concentrare le energie del defunto, essendo quasi un suo distillato alchemico. Una credenza balzana, antiquata? Sì e no, se si considera che quando l’anno scorso venne rinvenuto ad Alessandria d’Egitto un misterioso sarcofago in cui si ipotizzava potesse essere sepolto Alessandro Magno e che conteneva i resti di tre uomini ormai immersi in un olezzante liquido rossastro, c’è ch si è dichiarato disposto a pagare una fortuna pur di entrare in possesso di quel “balsamo di eternità”.
Nel Sud Italia sono ancora conservate numerose mummie “autoctone”, che permangono al centro di specifici culti, spesso praticati in occasione delle celebrazioni del 2 novembre.
Lo diceva Paracelso in persona: la “mumia”, liquida o solida, era potentissima, tanto da essere uno degli ingredienti principali del cosiddetto unguento armario, forse il suo medicamento più celebre. Occorreva mescolarla a varie altre strambe “medicine” tra cui la usnea cranii, vale a dire il muschio cresciuto sul cranio di un uomo dai capelli rossi, di ventiquattr’anni circa, vittima di morte violenta: se impiccato, arrotato o impalato, non faceva molta differenza. Il prodigioso unguento, si favoleggiava, poteva sanare ogni ferita inferta da armi, ecco perché era chiamato armarium. L’essenziale era ricordarsi di spalmarlo non sulla lesione… bensì sull’arma che l’aveva cagionata!
Tutto abbastanza improbabile, è vero: ma indicativo di quanto il corpo morto – per intero o a brandelli, in forma solida, liquida o cremosa – fosse paradossalmente ritenuto un concentrato di vitalità. Più potente di qualunque talismano. Soggetto a una vera e propria venerazione medica. Ma anche ad attenzioni e manipolazioni che esulavano da quella che fino ad allora era stata la pietas verso i trapassati. Nei paesi cattolici risultò evidente soprattutto dopo il Concilio di Trento, quando (anche per potenziare il culto di quel Purgatorio che i Riformati rigettavano come una lucrosa invenzione dei papisti) si promossero confraternite votate alla cura dei defunti. Delle loro anime e dei loro corpi.
Fu così che si riempirono molte delle cripte annesse alle chiese. Non che all’inizio si volessero allestire vere e proprie collezioni di mummie. Ma per risparmiare spazio e stoccare i corpi scheletrificati, quei poveri resti non di rado venivano messi a “scolare”, ossia a perder liquidi. “Puozze sculà” è ancora oggi la maledizione che i napoletani rivolgono a coloro a cui augurano la morte: di scolare cioè alla maniera di un cadavere in fase di preparazione in uno degli appositi vani, le cantarelle, come quelli della chiesa di Sant’Agostino alla Zecca o delle catacombe di San Gaudioso. Succedeva quindi che, vuoi per questa pratica vuoi per le particolari condizioni ambientali, talvolta i corpi si conservassero in maniera così incredibilmente completa da indurre qualcuno a esibirli affinché la loro fisicità contribuisse a edificare – in senso stretto – la Chiesa di Dio. Certo, lo si faceva anche con le sole ossa. Ma i corpi mummificati suggerivano l’idea di un intero esercito di “dormienti” in attesa di essere risvegliati dalle trombe dell’ultimo dei giorni. Anche la Puglia, a Oria o a Monopoli, conserva esempi di tal genere.
È a Palermo che si trova però il più straordinario addensamento di mummie, nelle catacombe dei Cappuccini, che secondo una stima recente ospiterebbero circa 2.000 soggetti, rigorosamente ripartiti per categorie: i preti, le vergini, i professori, i bambini eccetera. Più una quantità di reperti erratici, come teschi e ossa. All’inizio vi era un semplice cimitero, ma nel 1599, durante un’operazione di bonifica, furono rinvenuti i corpi mummificatisi naturalmente di 45 frati che, si racconta, emanavano addirittura un odore soave. I resti vennero riseppelliti (e poi di nuovo riesumati), ma l’episodio, variamente rielaborato nella cultura palermitana, contribuì a creare un immaginario affatto particolare attorno a quella zona di inumazione, che nel 1601 venne ampliata e aperta ai non religiosi.
Come si “fabbricava” una mummia? Lo spiega una testimonianza del conte di Rezzonico datata 1793:
In que’ quadrati pilastri o cellette si colcano i cadaveri sovra un graticcio di ferro, e nello spazio di sei o sette mesi le corrotte minugia, e tutti i visceri escono dal fondamento, e dalle reni, e sventrato dalla putredine il corpo, e ridotto alla semplice ossatura ed all’arida pelle, vien poscia con aceto ben ripulito e deterso, e in orribile apparenza per l’iato immane delle mascelle, e l’orbita vacua degli occhi, e la triangolare apertura delle perdute nari, locato in una nicchia con una grossa fune al collo, da cui pende il suo nome, e l’anno della morte.
V’è da chiedersi come mai ci si impegnasse così tanto nel trattamento dei corpi, piuttosto che seppellirli e lasciare che la natura facesse il proprio corso. Richiamando gli studi, ormai classici, di Robert Hertz, si potrebbe rispondere che la manipolazione del cadavere – il suo farlo passare da una condizione umida, quindi pericolosa, a una secca, dunque socialmente accettata – permetteva di rielaborare, trasformandola in rituale, la condizione liminare del morto, dando così l’impressione di poter gestire anche le tempistiche di accettazione della sua anima nell’aldilà. Dario Piombino Mascali, che per i tipi di Kalós, ha recentemente pubblicato Le catacombe dei Cappuccini. Guida storico-scientifica (Kalos), spiega: “È possibile ipotizzare che il processo di scolatura dei cadaveri fosse più o meno consapevolmente percepito come una pratica tramite cui, nel mondo terreno, si realizzasse quello che già avveniva nell’aldilà. Una corrispondenza tra cielo e terra che si ripete, dunque, e in cui l’elemento che porta a compimento la metamorfosi è il colatoio”.
Ciò naturalmente non significa che le mummie si ottenessero sempre per semplice scolatura. Al contrario, nell’Ottocento siciliano furono in molti a cercare procedure e formule ad hoc, anche innescando violentissime dispute. Tra costoro, il medico Giuseppe Tranchina, che mise a punto un metodo consistente nell’iniezione nell’arteria carotide di una soluzione acquosa o alcolica di deutossido di arsenico e deutosolfuro di mercurio.
È comunque Alfredo Salafia, tassidermista e imbalsamatore, ad aver lasciato i lavori più stupefacenti, guadagnandosi una fama che lo portò a restaurare persino la mummia, malamente realizzata da altri, di Francesco Crispi. Tra i suoi preparati nelle catacombe dei Cappuccini ci sono anche il viceconsole americano Giovanni Paterniti, il fratello Ernesto, celebre schermitore, e la piccola Rosalia Lombardo, la “bella addormentata” di Palermo.
Morta nel 1920 a quasi due anni, sembrerebbe di polmonite, la piccola Rosalia venne immediatamente imbalsamata nell’abitazione privata di Salafia, per poi essere trasportata, due giorni dopo, nelle catacombe. Anche se negli ultimi anni la luce ha un po’ rovinato i suoi colori – tanto che dal 2011 riposa in una teca hi-tech satura di azoto allocata in un vano diverso dall’originale – è ancora sorprendente nella sua “apparenza di vita”.
La formula di Salafia venne scoperta solo nel 2007, proprio da Piombino Mascali. Essa mostra, all’inizio del Novecento, il passaggio dall’uso di mercuriali e arsenicali a quello di sostanze meno tossiche: una miscela di glicerina, di formalina satura di solfato e cloruro di zinco, e di una soluzione alcolica satura di acido salicilico. Una preparazione relativamente semplice, che fa apparire Rosalia così “viva” da alimentare la leggenda secondo cui ancora oggi apre e chiude gli occhi una volta al giorno.