N ell’immaginario collettivo i cinguettii di rondini e passeri riempiono l’aria di primavera, e ogni volta che gli uccelli aprono becco lo fanno sempre e solo per cantare. Eppure il loro linguaggio è molto più articolato e complesso di così: ogni specie produce una varietà di suoni diversi, ognuno con uno scopo preciso. Ci sono prima di tutto i segnali d’allarme, usati per avvertire i conspecifici dell’arrivo di un pericolo ogni volta che un individuo si sente minacciato. Si tratta di vocalizzazioni che spesso vengono comprese trasversalmente da tutte le specie, un po’ come l’SOS umano conosciuto a livello internazionale. Scorrendo il catalogo si entra poi nello specifico: esistono i pigolii dei nidiacei, che richiamano l’attenzione dei genitori per assicurarsi l’imboccata; o i versi detti “di contatto” che corrispondono invece a un “io sono qui, tu tutto bene?”, e ancora altri versi o suoni che vengono utilizzati per marcare il territorio, come il tamburellare di un picchio sul tronco di un albero, e poi ancora altri richiami, che vengono emessi solo in volo, magari in migrazione, per tenere compatto il gruppo.
Insomma, il canto degli uccelli è altro: è una melodia, fatta di note e strofe che si ripetono, l’una dopo l’altra, con uno scopo preciso. Dal punto di vista anatomico, l’estensione vocale degli uccelli è dovuta alla siringe: un organo formato da un insieme di cartilagini a forma di anello, poste in fondo alla trachea (al contrario della laringe che si trova sopra la trachea). Tra questi anelli cartilaginei, si formano delle pieghe, dette membrane timpaniformi, analoghe alle corde vocali dell’uomo, che sono collegate a dei muscoli che ne modificano l’ampiezza, modulando i suoni emessi. Di solito la siringe si ferma ai bronchi, ma negli uccelli canori (Oscines) arriva fino al loro interno, donando a questi animali un’inarrivabile capacità vocale. Sono circa 4.700 le specie di uccelli canori, più della metà di quelle conosciute. Cantano per marcare il territorio, segnalare il proprio stato di salute o sedurre una femmina, nel caso dei maschi: se non si può contare sulla bellezza, bisogna puntare su altre doti per conquistare una partner.
Un lento apprendistato
Per tantissime specie il talento non basta. Bisogna studiare ed esercitarsi: il canto si apprende dagli adulti della propria specie. E con un meccanismo che ricorda molto quello di un bambino che inizia a parlare, imitando i genitori. È il caso di pappagalli, colibrì e di tutti gli Oscini, gli uccelli canori, appunto.
A cavallo degli anni Sessanta e Settanta, con una serie di esperimenti – condotti per lo più sul passero corona bianca (Zonotrichia leucophrys), un piccolo passeriforme americano distinguibile per la caratteristica striatura bianca e nera del capo – si è riusciti a capire che l’esperienza sociale ha un ruolo cruciale nel meccanismo di apprendimento del canto. A cantare, dunque, si impara per ascolto e imitazione. In un determinato periodo della vita, all’incirca tra i 10 e i 50 giorni dopo la schiusa, i pulcini ascoltano attentamente gli adulti e memorizzano il canto prodotto dai conspecifici. E alcune specie hanno una memoria davvero prodigiosa. Per esempio l’usignolo (Luscinia megarhynchos) è capace di imparare, riprodurre e “mixare” circa 120-260 strofe differenti. Dopo aver immagazzinato tutte queste informazioni, a circa 150 giorni d’età, provano le prime volte a schiarirsi la siringe. Come nella fase di lallazione nell’uomo, il loro è un canto immaturo, sgraziato, balbuziente, chiamato “sottocanto”.
Ma ben presto, dopo prove, tentativi e improvvisazioni, diventerà a tutti gli effetti maturo. Molte specie, durante questa fase detta di canto plastico, producono in verità dei suoni molto diversi, come se fossero parole inventate, creano e improvvisano. Poi, verso i 200 giorni d’età, tutte queste variazioni cadono nel dimenticatoio e il canto viene “cristallizzato”. E come un bambino che impara una parola nuova tende a ripeterla più volte, lo stesso farà il giovane volatile: una volta ottenuto il canto corretto, lo proverà più volte di seguito.
C’è di più, però. Senza questo apprendistato e soprattutto senza l’esempio degli adulti della stessa specie, il canto non si svilupperà mai: resterà anomalo, fatto di poche note distorte. Lo stesso accade, per esempio, se il giovane è sordo. Ed è così per tutte le specie in cui il canto è appreso: il giovane, non riuscendo ad ascoltarsi, non può correggersi e quindi non migliora con la pratica. Una delle cose più sorprendenti è che, proprio come un bambino riconosce la voce della propria madre, anche i nuovi nati – in natura – tra le centinaia di suoni e canti che giungono al loro orecchio, riescono a individuare quale canto devono ascoltare e imitare (l’eccezione sono le specie imitatrici, circa il 15% degli uccelli canori, che fanno dell’imitazione altrui e dell’improvvisazione il loro punto di forza nel canto).
L’interazione a tu per tu con genitori e conspecifici è di vitale importanza. Per esempio, un giovane di passero corona bianca messo a contatto solo con un adulto di un’altra specie, di cui ascolta il canto e con cui ha la possibilità di interagire, finirà con l’imparare il canto che non gli appartiene.
Storia orale
Alcuni uccelli imparano, copiano e tramandano di generazione in generazione il canto, praticamente inalterato, dando vita a una vera e propria tradizione canora. Adottano una strategia chiamata “pregiudizio conformista”, fino a poco tempo fa considerata una prerogativa umana. È quello che fanno, per esempio, i passeri di palude americani (Melospiza georgiana) – un piccolo passeriforme degli Stati Uniti nord-orientali – studiati in una ricerca pubblicata su Nature Communications pochi mesi fa. In pratica, i canti che si possono ascoltare oggi nelle paludi degli Stati Uniti sono gli stessi di 1.000 anni fa: melodie tramandate nel corso delle generazioni e più stabili che nelle lingue o nei dialetti umani.
E non è un paradosso parlare di dialetti quando si discute del canto degli uccelli, anzi. Ogni specie ha un canto specie-specifico, ma questo può essere declinato in tantissime variazioni “dialettali”: inflessioni che variano su scala geografica in maniera molto simile a quanto si osserva per i dialetti umani. Così, per mantenere lo stesso esempio, i passeri corona bianca che vivono a Berkeley, a Marin e a Sunset Beach – tre siti sulla costa californiana di San Francisco distanti appena 50 miglia l’uno dall’altro – parlano tre dialetti differenti. All’orecchio umano il canto sembra sempre lo stesso, identico, ma se si analizza lo spettro sonoro con un sonogramma presenta delle piccole inflessioni dialettali. Questi dialetti, forse, si sono sviluppati per superare problemi di interferenza acustica, barriere ecologiche differenti, tipi di fogliame diverso nei boschi o il rumore delle città. Ancora non se ne sa molto, ma di sicuro diverse popolazioni di una stessa specie hanno sviluppato una “cultura” canora differente. Proprio come nelle lingue umane, l’esperienza sociale è un fattore che incide fortemente nello sviluppo del canto.
Ma come si sviluppano i meccanismi che controllano il canto? Dove vengono archiviati i canti ascoltati tra i 10 e i 50 giorni d’età? Quale parte del cervello è invece deputata alla produzione dei suoni? Nell’uomo, per esempio, sappiamo che l’area di Broca, nel lobo frontale sinistro, è la parte del cervello deputata alla produzione del linguaggio. Anche nel minuscolo cervello degli uccelli – stiamo parlando per lo più di passeriformi che vanno dai 5 ai 200 grammi di peso – ci sono nuclei specifici deputati al controllo del canto. Attualmente non sappiamo con precisione in quale area cerebrale vengono immagazzinati i canti per guidare poi la produzione canora. Ma sappiamo, per esempio, che negli uccelli canori più grande è il nucleo chiamato IMAN (nucleo magnocellulare del nidopallio anteriore) più sarà ampio il repertorio della specie. O ancora, sappiamo che l’area di Broca degli uccelli è in realtà dislocata in tre nuclei: il centro vocale superiore (HVC) che dà istruzioni al nucleo robusto dell’archipallio (RA), che a sua volta le trasferisce al nucleo tracheo-siringeale (nXIIts), che invia le istruzioni alla siringe su come muoversi ed emettere i suoni. La dimensione di questi nuclei varia da specie a specie, ma anche da individuo a individuo: più sono sviluppati più sarà esteso il repertorio.
Le femmine cantano?
Il canto degli uccelli è spesso presentato come una prerogativa maschile. Si canta per competere con i rivali e conquistare le femmine che scelgono di volta in volta il partner con il canto più melodioso, indice di un buono stato di salute. Alle femmine l’evoluzione avrebbe forgiato piumaggi meno appariscenti e una tendenza al silenzio, per non cadere facili prede nel periodo riproduttivo.
L’archipallio (RA) è in effetti più grosso nei cervelli dei maschi che in quelli delle femmine dei passeriformi oscini, ma questo non significa che le femmine non cantino o non apprendano il canto. Secondo uno studio uscito qualche tempo fa su Nature Communications, infatti, anche le femmine cantano e addirittura duettano con i maschi. Stando ai dati disponibili, sono almeno 660 le specie di uccelli canori in cui abbiamo delle “cantanti”. Lo fanno, per esempio, le femmine di cardinale rosso (Cardinalis cardinalis), l’uccellino che ha ispirato Angry Birds, lo scricciolo dei canyon (Catherpes mexicanus), il sordone (Prunella collaris).
Il canto delle femmine è ancora poco studiato dai ricercatori: non sappiamo in maniera chiara perché cantino e, per esempio, abbiamo le registrazioni di solo 200 specie delle 660 citate. Prima di tutto a causa di una difficoltà tecnica: molto spesso vedere un uccello in canto, individuarlo nel folto di un bosco, tra le fronde dei rami, non è semplice, e agli ornitologi basta sentire il canto per riconoscere la specie e censirla: non ci si sofferma a scovare l’individuo e verificarne il sesso. Per rimediare a questa lacuna i ricercatori del Cornell Lab of Ornithology negli Stati Uniti e dell’Università di Leiden in Olanda hanno avviato un progetto di citizen science, il Female Bird Song, chiedendo a cittadini e birdwatchers di registrare e condividere i vocalizzi delle femmine. Ma una seconda, e forse più importante, ragione è che gran parte della ricerca scientifica è stata condotta in aree temperate, soprattutto Europa e Nord America, dove le femmine degli uccelli canori sono più silenziose. Se guardiamo ai tropici, la situazione cambia. Le femmine di scricciolo azzurro splendente (Malurus splendens), un piccolo passeriforme australiano, cantano addirittura nel nido, e probabilmente, per loro, il canto assume una serie di altri ruoli sociali ancora sconosciuti.
Imitatori
Tra gli oscini ci sono uccelli che hanno il dono dell’orecchio assoluto e che sono imitatori eccezionali, capaci di imparare, e introdurre nel loro canto, anche strofe e versi di altre specie. Oltreoceano il più noto è il tordo di Lawrence (Turdus lawrencii): nelle foreste di pianura tropicali, ciascun maschio riesce a riprodurre perfettamente non solo i canti di più di 50 specie di uccelli, ma anche il gracidio delle rane e il ronzio di alcuni insetti.
I fuoriclasse assoluti dell’imitazione, però, si trovano in Australia: sono l’uccello lira del Principe Alberto (Menura albertii) e l’uccello lira comune (Menura novaehollandiae). Artisti e ladri: circa l’80% del loro canto è in realtà costituito per lo più da strofe “rubate” ad altre 20-25 specie di uccelli. Secondo uno studio uscito nel 2012 su Animal Behaviour, l’imitazione della lira comune è talmente accurata e precisa da riuscire a confondere anche le specie imitate.
I maschi danno spettacolo delle loro doti specialmente nel periodo riproduttivo, quando si esibiscono in veri e propri medley di suoni. Qualche anno fa un estratto di una puntata della serie Life of Birds di David Attenborough è diventato virale: nel filmato, alcuni individui di uccello lira comune erano intenti a “cantare” suoni alieni a quelli comuni nella foresta pluviale australiana: un’esecuzione completa di arie per flauto, il boato di un’esplosione, il suono di un antifurto per auto e il rumore di una motosega. Un mix di imitazioni talmente fedeli da sembrare quasi un eccellente doppiaggio.
A dispetto di quanto si è portati a credere guardando le immagini, due dei tre uccelli ripresi nel video provengono da giardini zoologici, uno dal Healesville Wildlife Sanctuary e l’altro dallo zoo di Adelaide. Quest’ultimo, di nome Chook, ha perfezionato l’arte di imitare trapani, martelli e motoseghe, suoni che con tutta probabilità ha avuto modo di imparare durante la costruzione del recinto destinato ai panda.