L a relazione fra crisi climatica, guerre e migrazioni è ormai un dato assodato al quale solamente i più accaniti negazionisti possono opporre le loro deboli argomentazioni. La questione è semplice: l’umanità si sposta da sempre per trovare delle risorse. Così come lo hanno fatto i cacciatori-raccoglitori prima e le società agricole dopo, i flussi di popolazioni che cercano le condizioni adatte alla loro sopravvivenza sono costanti anche nell’era industriale e nel mondo globalizzato.
Nell’ultimo decennio, gli studi accademici che hanno messo in relazione cambiamenti climatici e guerre sono aumentati in maniera esponenziale. Si tratta di sintesi capaci di tenere insieme, in maniera interdisciplinare, economia, antropologia, psicologia, sociologia, scienza politica, climatologia, storia antica e moderna. Si è scoperto così come cambiamenti di temperatura e/o forti precipitazioni abbiano innescato le reazioni a catena che hanno portato alla caduta di Roma o ai conflitti del XVII secolo. Un gruppo di economisti di Berkeley e di Standford si è spinto oltre, pubblicando su Science uno studio secondo il quale vi sarebbe una stretta connessione fra violenza e cambiamento climatico negli ultimi 12mila anni di storia. I ricercatori hanno preso in esame molte tipologie di conflitti umani, dalla violenza interpersonale alla criminalità, dalla violenza tra gruppi all’instabilità politica, dalle crisi istituzionali al crollo delle civiltà, e si sono concentrati su studi quantitativi in grado di fornire affidabili associazioni causali fra variabili climatiche e conflitti. La ricerca si è svolta su di un arco di tempo di 12mila anni (dal 10.000 a.C. a oggi) e in tutte le principali regioni del mondo. Il risultato della ricerca ha evidenziato come le deviazioni dalle normali precipitazioni e temperature aumentino sistematicamente il rischio di conflitto. Ogni variazione di 1 °C verso temperature più calde aumenta, secondo stime mediane, la frequenza della violenza interpersonale del 4% e il conflitto tra gruppi del 14%. I ricercatori concludono affermando che, in considerazione dei regimi di precipitazione e temperatura previsti per i prossimi decenni, con un possibile riscaldamento fra i 2° e i 4° C entro il 2050, il cambiamento climatico antropogenico potrebbe rappresentare un elemento di forte impatto sociale generando conflitti sia nelle società ad alto reddito che in quelle a basso reddito.
Crisi idriche, conflitti e migrazioni sono strettamente connessi, ma nelle narrazioni dominanti le cause climatiche delle guerre vengono silenziate per questioni di opportunità.
Quando le condizioni necessarie alla sopravvivenza sono minacciate, le popolazioni entrano in conflitto. L’esempio recente maggiormente citato è quello del conflitto siriano. Nella seconda metà del secolo scorso, l’indebolimento dei venti che portavano le nubi del Mediterraneo nella Mezzaluna fertile e l’aumento delle temperature che ha incrementato l’evaporazione dell’umidità dei terreni sono stati fattori determinanti nella proliferazione delle crisi idriche siriane. Sempre nella seconda metà del Novecento, si è verificato un altro fatto che ha avuto un effetto fortemente destabilizzante nei delicati equilibri del Medio Oriente: l’occupazione siriana delle Alture del Golan avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Se da oltre cinquant’anni questa catena montuosa rappresenta il più importante elemento di conflitto fra Siria e Israele ciò è dovuto in gran parte al fatto che i suoi rilievi costituiscono uno dei più grandi serbatoi idrici del Medio Oriente. Fondamentali per l’approvvigionamento idrico dell’agricoltura israeliana, le sorgenti situate sulle pendici del monte Hermon alimentano da decenni gli appetiti di riconquista di Damasco. I cambiamenti climatici, la privazione delle risorse idriche del Golan e l’incremento della popolazione dai 4 milioni degli anni Cinquanta ai 22 milioni del periodo prebellico hanno creato un mix esplosivo dal punto di vista socioeconomico. La lunga siccità verificatasi fra il 2006 e il 2010 ha fatto crollare la produzione agricola, incidendo negativamente sugli allevamenti e facendo raddoppiare il prezzo dei cereali. Un milione e mezzo di persone si sono spostate dalle campagne verso le città, creando i presupposti per le proteste contro il Governo di Bashar al-Assad e per l’inizio della Guerra Civile tuttora in corso.
Crisi idriche, conflitti e migrazioni sono strettamente connessi, ma nelle narrazioni dominanti le cause climatiche delle guerre vengono silenziate per questioni di opportunità. La propaganda politica concentra la propria attenzione sulle conseguenze e si arrocca in posizioni identitarie, nativiste e xenofobe. Dagli Stati Uniti all’Ungheria, dal Brasile all’Italia, le forze populiste sono riuscite a occupare posizioni di vertice negli esecutivi capitalizzando le proprie narrazioni imbastite sul consolidato canovaccio della sindrome d’accerchiamento. Quanti di loro hanno citato fra le cause dei flussi migratori la crisi climatica? Nessuno. Anzi, uno degli aspetti più paradossali è che siano proprio i più strenui difensori dei confini coloro che con maggiore forza negano i cambiamenti climatici. Pensiamo al tweet di Donald Trump datato 28 gennaio 2019:
Nel bellissimo Midwest, le temperature percepite raggiungeranno i meno 51 gradi, le più fredde di sempre. Non si può resistere all’aperto neanche per qualche minuto. Cosa sta accadendo con il Global Warming? Torna presto, abbiamo bisogno di te.
Jair Bolsonaro, poche settimane dopo essere diventato il presidente del Brasile, si è affrettato a ricordare come il Brasile non debba «nulla al mondo in relazione alla salvaguardia dell’ambiente». Il partito dell’estrema destra tedesca, Alternative für Deutschland, sostiene che «l’anidride carbonica non è una sostanza inquinante», mentre la francese Marine Le Pen, leader del Front National, sostiene che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima (Unfccc), alla base delle negoziazioni internazionali sull’ambiente, sia «un complotto comunista» per limitare l’espansione economica della Francia. Xenofobia e negazionismo vanno di pari passo e, come spiega Marina Forti in un approfondito articolo di Internazionale, lunghi fili transoceanici legano i partiti di estrema destra di Austria e Germania alle fondazioni dell’estrema destra americana, tutte finanziate dall’industria petrolifera.
Secondo la cronologia costantemente aggiornata di The World’s Water del Pacific Institute, i conflitti dovuti all’acqua fra il 1° gennaio 2010 e il 31 dicembre 2019 sono stati 466: 204 nell’Asia Occidentale, 89 nell’Africa Sub-Sahariana, 66 nell’Asia Meridionale, 33 in Nord Africa, 30 in America Latina e nei Caraibi, 14 nell’Europa Orientale, 10 in Nord America, 8 nel Sud Est Asiatico, 6 nell’Asia Centrale, 2 nell’Asia Orientale, uno in Melanesia. D’altronde, è sufficiente comparare i dati del decennio appena conclusosi con quelli dei dieci anni precedenti: fra il 2000 e il 2009, i conflitti documentati da The World’s Water sono stati 220, meno della metà di 466. La statistica riferita all’intero Novecento ci dice che le guerre per l’acqua sono state 177. Se rispetto al decennio precedente le tensioni dovute alle risorse idriche sono più che raddoppiate, l’incremento rispetto alla prima metà del Novecento è stato esponenziale. La crescita demografica da una parte e la progressiva scomparsa di molte riserve di acqua dolce dall’altra stanno causando un numero crescente di conflitti dovuti alle risorse idriche. Secondo le stime delle Nazioni Unite, entro la fine di questo decennio, il 47% della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico e questa situazione accentuerà le diseguaglianze e i conflitti sociali, ma anche le tensioni fra Paesi confinanti.
Secondo i dati 2017 di UNICEF, OMS, UNESCO e FAO, 2,1 miliardi di persone sono prive dell’accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro e ben 4,5 miliardi non hanno accesso a servizi igienici sicuri. Ogni anno, 340.000 bambini con meno di cinque anni muoiono a causa di malattie dovute a carenze idriche o acque non trattate. Le vittime della scarsità idrica non sono soltanto quelle dei conflitti che si combattono per il possesso della risorsa, ma sono tutte quelle che non possono averne un accesso quantitativamente e qualitativamente compatibile con la sopravvivenza.
La sproporzione nell’utilizzo delle risorse idriche emerge con evidenza dai dati Aquastat della FAO sul consumo annuo pro capite: se in Benin, Repubblica Centrafricana e Rwanda vengono utilizzati 17 m³ di acqua all’anno, la media degli Stati Uniti è di 1.543 m³ all’anno, più del triplo rispetto alla Cina (425 m³) e Russia (425,2 m³). Per rendere più concreti questi numeri, è sufficiente dire che gli abitanti dei tre Paesi africani utilizzano 46 litri d’acqua il giorno, vale a dire il consumo di un ciclo di una moderna lavastoviglie e di due tirate dello sciacquone, mentre uno statunitense, nello stesso lasso di tempo, consuma 4.227 litri al giorno, quelli necessari per cento cicli di lavaggio di una lavatrice da 5 kg. Il rapporto fra il dato statunitense e quello dei tre Paesi africani è all’incirca di 90 a 1. Considerando quanto l’acqua sia importante per settori strategici come agricoltura, industria e sanità, si può facilmente comprendere come questa metrica sia efficace tanto quanto il Pil nel descrivere le diseguaglianze e gli squilibri dell’economia globale.
Esistono acque dolci senza insediamenti umani nelle vicinanze, certo, ma non possono esserci insediamenti umani lontani dall’acqua. Una banalità che mette a tacere l’abusata e ritrita retorica dell’“aiutiamoli a casa loro”. In Asia, in Africa e in Medio Oriente lo squilibrio fra la disponibilità di acqua dolce e l’aumento della sua richiesta è una delle principali cause dei flussi migratori verso territori maggiormente forniti e verso climi più temperati. I cambiamenti climatici stanno esacerbando e moltiplicando le crisi idriche a causa delle prolungate siccità, ma anche delle inondazioni che, specialmente nei paesi in via di sviluppo, creano gravi problemi nella disponibilità di acqua potabile. Il caso siriano resta emblematico: le stime dell’UNHCR ci dicono che nei primi cinque anni di conflitto 4,8 milioni di persone hanno abbandonato il Paese (verso Turchia, Libano e Giordania, e in misura minore verso l’Europa). A causa dei flussi migratori provenienti da Siria e Palestina, il Libano ha visto aumentare la propria popolazione del 25% tra il 1992 e il 2012; in Giordania l’incremento è stato dell’86% fra il 1990 e il 2008. Se Arabia Saudita ed Emirati Arabi dispongono delle tecnologie necessarie per la dissalazione dell’acqua marina, Libano e Giordania si trovano in una situazione di forte stress idrico.
Spostandosi a Occidente, non si può che constatare come l’intensità, l’incidenza e la gravità della siccità, della desertificazione e delle inondazioni siano aumentate nelle zone aride dell’Africa in cui il 70% della popolazione è giovane e dipendente da un’agricoltura di sussistenza e autoconsumo. L’Africa Sub-Sahariana è l’area dalla quale proviene la maggior parte dei migranti che nell’ultimo decennio hanno attraversato o tentato di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa.
In Asia, in Africa e in Medio Oriente lo squilibrio fra la disponibilità di acqua dolce e l’aumento della sua richiesta è una delle principali cause dei flussi migratori verso territori maggiormente forniti e verso climi più temperati.
L’altra area a grave stress idrico è quella del bacino del Gange che ospita 655 milioni di persone ed è condiviso da Nepal, India e Bangladesh. Qui i cambiamenti climatici stanno avendo un forte impatto sulla produzione agricola di una delle aree più popolose del Pianeta: la variazione delle precipitazioni nella stagione dei monsoni e lo scioglimento dei ghiacciai himalayani sono una vera e propria bomba a orologeria climatica. L’innalzamento del livello del mare e le inondazioni dovute a monsoni più intensi determinano intrusioni di salinità che sono responsabili di rese inferiori nelle risaie.
Un’altra area di crisi è quella del Dry Corridor, il corridoio secco dell’America Centrale costituito da Guatemala, Honduras ed El Salvador, Paesi in cui, negli ultimi anni, 3.5 milioni di persone hanno avuto necessità di assistenza umanitaria. Tre periodi di siccità nel 2014, nel 2015 e nel 2018 hanno causato la morte di migliaia di capi di bestiame e la perdita di 280mila ettari di fagioli e mais nei tre paesi. Nel 2015, il 75% delle colture di mais e fagioli è andato perso a causa della siccità. La prima conseguenza della riduzione della produzione agricola è la migrazione dalle campagne verso le città. Secondo quella che viene chiamata migrazione graduale, i flussi migratori sono inizialmente orientati verso l’interno. Una volta inurbate, però, le popolazioni provenienti dalle campagne si confrontano con la disoccupazione e con tassi di criminalità simili a quelli delle zone di guerra (il tasso di omicidi di El Salvador è di 81 ogni 100mila persone, dieci volte superiore alla media globale). Impossibilitati a trovare il proprio spazio nelle grandi metropoli centroamericane, i migranti interni iniziano il loro viaggio verso Nord. Dopo avere attraversato il territorio messicano, i migranti tentano di penetrare nel territorio statunitense, ma si devono confrontare con un’amministrazione che, negli ultimi quattro anni, ha costruito gran parte della propria fortuna politica sulla criminalizzazione degli immigrati. Sui muri – fisici, legislativi e propagandistici – innalzati da Donald Trump si sono infrante, durante il quadriennio presidenziale del Tycoon, le speranze di migliaia di migranti che hanno finito per stabilirsi in Messico o sono stati costretti a tornare a casa.
Nel mondo si spostano ogni anno milioni di migranti ambientali. Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050, 143 milioni di persone potrebbero abbandonare i territori dell’Africa Sub-Sahariana, dell’Asia Meridionale e dell’America Latina per spostarsi in luoghi più ospitali e meno vulnerabili in cui vivere. Nonostante ciò, la definizione di “migrante ambientale” o di “migrante climatico” non trova spazio sui media, nelle sedi istituzionali e nel dibattito pubblico che liquidano i flussi con la distinzione binaria in migranti economici e rifugiati politici. Nonostante l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni abbia già dato una sua definizione per questo tipo di migranti, questi gruppi di persone non vengono ancora riconosciuti dal diritto internazionale. Dal punto di vista della legislazione internazionale queste persone non esistono e non possono beneficiare dello status di rifugiato che, dal 1951, tutela tutti coloro che sono perseguitati per motivi razziali e religiosi, a causa dell’appartenenza a un gruppo sociale e delle loro opinioni politiche.
In questo contesto di crescente scarsità idrica, è necessario intraprendere la strada del risparmio. La questione, però, è molto più complessa di quanto si immagini e anche in questo caso mette in evidenza i rapporti di forza e gli squilibri all’interno della nostra società. Se si parla di risparmio idrico la prima cosa che viene in mente è la sensibilizzazione nei confronti della collettività affinché vengano ridotti i consumi domestici. La narrazione dominante ci dice di chiudere il rubinetto quando ci laviamo i denti, di non lasciar correre inutilmente l’acqua, di preferire la doccia al bagno con la vasca piena fino all’orlo. Sono tutte buone pratiche, certo, ma bisogna anche avere chiaro un concetto: in una società tecnologicamente avanzata, l’incidenza del risparmio d’acqua fra le mura domestiche è ininfluente. Prendiamo i dati dello U.S. Geological Survey sulla captazione idrica del 2015 negli Stati Uniti: il 41% delle acque superficiali o sotterranee prelevate viene utilizzato per la produzione di energia nelle centrali termoelettriche, il 37% per l’irrigazione agricola, il 12% per utilizzi pubblici, il 5% in campo industriale, il 2% nell’acquacultura, l’1% nell’allevamento, l’1% nell’industria mineraria e l’1% nell’utilizzo domestico. Fatti cento i litri captati, soltanto uno viene utilizzato per cucinare i nostri alimenti, per idratarci, per l’igiene personale e per il lavaggio di stoviglie e capi d’abbigliamento. Anche ipotizzando un dimezzamento dei consumi da parte della cittadinanza statunitense, il risparmio sul totale dei consumi sarebbe dello 0,5%. Un reale cambiamento potrà realizzarsi solamente con un’economia meno assetata di risorse idriche. Soffermandoci sui dati statunitensi, i settori energetico e agricolo rappresentano il 78% del consumo totale. In entrambi i casi è possibile correggere il tiro e mettere in pratica politiche economiche meno idrovore: l’energia termoelettrica può essere sostituita da fonti rinnovabili maggiormente sostenibili, mentre in agricoltura molto dipenderà da come cambieranno le abitudini alimentari degli statunitensi, grandi mangiatori di carne e, di conseguenza, affamati di coltivazioni con cui nutrire il proprio bestiame.
Se, come abbiamo visto, i consumi idrici mettono in evidenza gli squilibri e le ingiustizie del sistema economico globale, la siccità continua a essere “democratica”, assolutamente indipendente dal Pil e dagli indicatori di crescita e benessere. E così anche la ricchissima California, sede di tutti i più grandi player del capitalismo digitale e dell’industria del cinema che veicola i valori a stelle e strisce in giro per il mondo, ha vissuto un decennio piuttosto critico dal punto di vista della disponibilità delle risorse idriche: nel 2015, sulle montagne californiane sono stati registrati i manti nevosi più bassi degli ultimi 500 anni, mentre il periodo 2012-2015 è stato il più secco degli ultimi 1.200 anni. Nel 2015, il governatore Jerry Brown si è visto costretto, per la prima volta nella storia della California, a ordinare il razionamento obbligatorio imponendo un taglio del 25% nell’erogazione dell’acqua. L’ordinanza di Brown ha colpito i consumi urbani (parchi, verde pubblico, campi da golf, cimiteri e campus universitari), senza andare a incidere su quelli riservati all’agricoltura che rappresenta il 75% del consumo complessivo nello Stato della West Coast. In questo periodo di grave scarsità idrica, si sono registrati numerosi furti, dall’acqua “risucchiata” a un camion dei pompieri nella Sierra Nevada ai 2.500 litri rubati in un cantiere di San Ramon, dal furto di una cisterna della Marina a Oakland alle appropriazioni indebite dei coltivatori di marijuana in varie zone dello stato.
La crescente domanda d’acqua delle grandi metropoli entra in conflitto con la loro stessa espansione.
A Caracas, la crisi idrica è stata una delle conseguenze della crisi economica. I caraqueñi si sono visti erogare l’acqua due volte al giorno per mezz’ora e, in alcune parti della città, la distribuzione è mancata anche per una settimana. Gli ospedali cittadini, rimasti senza scorte idriche, hanno iniziato a raccogliere l’acqua piovana nei secchi lasciati su balconi e terrazzi. Nell’emisfero australe, uno dei casi più drammatici di carenza idrica si è verificato a Città del Capo. Nel 2018, una siccità durata per ben tre anni ha costretto l’amministrazione locale a prendere decisioni drastiche: agli abitanti di Cape Town sono stati concessi 50 litri d’acqua pro capite al giorno, con il blocco dell’erogazione nel caso di superamento del limite. Come da proverbio, la necessità ha aguzzato l’ingegno dei capetoniani che hanno imparato a utilizzare la stessa acqua per più funzioni, a raccogliere l’acqua piovana e a produrla con macchine che raccolgono l’umidità dell’aria. Le statistiche riguardati il risparmio idrico sono diventate argomento d’apertura di telegiornali e radiogiornali e di conversazione fra gli abitanti della capitale economica del Sudafrica. Anche in questa crisi idrica si è assistito a captazioni abusive di acqua dalle sorgenti, dai corsi d’acqua o dalle reti. Nei mesi dell’emergenza è nata la Police Water, una forza di polizia impegnata in maniera specifica nel monitoraggio del territorio capetoniano e nella cattura e sanzione di tutti coloro che infrangano i regolamenti dell’emergenza. Anche se alla fine del 2018 le piogge sono tornate, gli abitanti di Città del Capo hanno assimilato le buone abitudini e sono diventati un modello di risparmio idrico a livello globale.
A São Paulo, nel 2015, il principale serbatoio della città è sceso al di sotto del 4% della sua capacità. Quando, al culmine della crisi, sono dovute intervenire le autobotti, la polizia ha dovuto scortare i convogli per evitare saccheggi da parte della popolazione. A Bangalore, in quella che è considerata la “Silicon Valley indiana”, la crisi idrica è diventata cronica negli ultimi anni a causa di un mix di carenze infrastrutturali (il 50% viene disperso a causa delle tubazioni anacronistiche) e inquinamento (l’85% dell’acqua può essere utilizzato solo per agricoltura o industria). A partire dal luglio 2016, oltre 75mila famiglie della capitale del Karnataka si sono viste comminare una multa pari al 50% della loro bolletta dei servizi idrici, per non essersi adeguate alla norma che prevede l’installazione di cisterne per la captazione dell’acqua piovana sui tetti delle abitazioni. Il contrario di quanto avvenuto a Cochabamba, dove ai consumatori veniva proibita la raccolta dell’acqua piovana. A Jakarta, in Indonesia, lo scavo illegale di pozzi è ormai una pratica diffusa che sta svuotando le falde acquifere sotterranee.
Ad aggravare la situazione sono la cementificazione e il consumo del suolo che impediscono l’assorbimento dell’acqua nel sottosuolo. La crescente domanda d’acqua delle grandi metropoli entra in conflitto con la loro stessa espansione: la crescita della popolazione urbana e l’ampliamento del territorio antropizzato determinano una maggiore impermeabilizzazione del suolo che blocca l’assorbimento delle precipitazioni nelle falde acquifere. Non c’è nulla di “naturale” nella siccità: i cambiamenti climatici e l’antropizzazione selvaggia sono alla base delle crisi idriche che diventeranno inevitabilmente più drammatiche nel corso dei prossimi anni.
Estratto da Geomanzia di Davide Mazzocco (Palermo University Press, 2021).