È il 1915 a Göttingen. Emmy Noether scrive teoremi che cambieranno il corso dell’algebra astratta, della topologia e di un campo che ancora non esiste: la meccanica quantistica. Il suo maestro David Hilbert, già riconosciuto come uno dei più rivoluzionari matematici della Storia, propone di darle una cattedra. Hilbert ricorda ai suoi colleghi che la separazione dei sessi non ha senso quando la scienza è una sola, li provoca: “il Senato Accademico non è un bagno turco”. Emmy Noether non avrà comunque la cattedra.
È il 1952 a Londra. Rosalind Franklin ha perfezionato un microscopio ai raggi X, scatta una fotografia. Vede “due catene distinte”, le descrive in una nota che non viene pubblicata ufficialmente. I suoi colleghi James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins riescono comunque a mettere le mani su quei lavori. Saranno loro a vincere il Premio Nobel, quattro anni dopo la morte di Franklin, per la scoperta della struttura del DNA. Scoperta basata sui lavori della Franklin, che non verrà citata nelle motivazioni del premio.
Le donne che vogliono lavorare in campo scientifico si scontrano fin troppo spesso con il cosiddetto glass ceiling, il “soffitto di vetro” trasparente che permette di guardare in alto ma non di fare carriera. La storia ne fornisce molti esempi, alcuni più celebri, altri noti per lo più tra specialisti. Sono aneddoti che ricordano quanto una scienziata possa soffrire solo perché non è un uomo: ma gli ostacoli sulla strada di una donna che vuole fare scienza, oggi, sono in larga parte meno eclatanti e più insidiosi. Sono delle micro-aggressioni, un sistema fatto a misura di maschio che spesso ignora gli effetti di una società sessista raccontandosi che “La scienza non fa distinzioni, gli scienziati sono tutti esseri razionali”.
Una donna che vuole fare scienza deve studiare, ovviamente. Ma è più difficile che una bambina o un’adolescente dedichi il suo tempo libero a un hobby scientifico: già da piccola vede i giocattoli divisi in base al genere, con macchine e kit scientifici “per maschietti”, mentre Barbie Teen Talk, la Barbie che parla come un’adolescente, dice che “L’ora di matematica è difficile!” Questo rende più improbabile che una donna arrivi all’università con delle conoscenze extracurriculari nel settore scientifico, ad esempio un linguaggio di programmazione troppo complesso per avere spazio in un corso del liceo. E anche se ha la possibilità di frequentare attività extrascolastiche, una ragazza sarà spesso l’unica donna nella classe, cosa che la farà spesso sentire isolata e al centro dell’attenzione. Per esempio, porterà sulle sue spalle il peso del rappresentare tutto il suo genere: se non capisce un passaggio, la conclusione “tutte le donne non capiscono” è dietro l’angolo, mentre i suoi compagni maschi saranno “uno dei tanti” a cui un errore può capitare.
Troppo spesso una ricercatrice deve fare i conti con molestie sessuali che sono di fatto un ricatto: essere disponibile o perdere opportunità di networking.
A questa disparità è possibile rimediare, anche a livello universitario. Un esempio virtuoso viene dal Mudd College, in California. Il curriculum del primo anno include molte classi per principianti assoluti, in cui gli studenti che arrivano già preparati sono invitati a non rispondere a tutte le domande in classe e non intimidire i compagni alle prime armi. Anche il linguaggio di programmazione usato per gli esempi è stato cambiato, dal più astruso Java al più immediato Python. Per capire la differenza tra i due, basta pensare che il primo esercizio “standard” di un corso consiste nello scrivere “hello”: questo richiede cinque linee di codice in Java e due parole in Python (“print” e “hello”). Risultato: ci sono studentesse che tra la Cornell University (tra le prime venti nel mondo) e il Mudd College scelgono più volentieri il secondo, che vanta il 55% di laureate in Computer Science e un’altissima percentuale di PhD in altre università.
Le donne che si lamentano del sessismo tra scienziati sono spesso accusate di vittimismo. Ma è proprio una pletora di studi scientifici, basati su dati oggettivi, a dimostrare che un curriculum vitae con un nome femminile fa istintivamente pensare a una persona meno competente, a un collega la cui ricerca è meno interessante: assumere una donna sembra un investimento peggiore di tempo e risorse. Uno studio dell’Università di Yale misura l’impatto del fenomeno in termini di posti e di salario; lo stesso studio mostra come il pregiudizio sia comune tra le donne tanto quanto tra i loro colleghi maschi. Anche la minore probabilità che gli articoli firmati da una donna siano accettati da una rivista peer reviewed (cioè soggetta a revisione paritaria da altri scienziati) e, una volta accettati, siano citati da altri è misurabile: ad esempio, Neven Capler, Sandro Tacchella e Simon Birrer hanno esaminato i dati nel campo dell’astronomia.
Il fenomeno generale è stato studiato: si chiama implicit bias, e ciascuno di noi può iniziare a combatterlo semplicemente esaminando con più cura le proprie “prime impressioni” e non dando per scontate le proprie scelte “istintive”. Un progetto dell’Università di Harvard vi dà anche modo di misurare il vostro livello pregiudizio involontario: potete testarlo più volte, magari riprovando dopo qualche mese di lavoro su voi stessi; i risultati possono essere interessanti.
Per svolgere il suo lavoro quotidiano, una scienziata divide il laboratorio con dei colleghi, deve presentare i propri risultati a delle conferenze, deve trovare dei mentori. Ma come raccontano Joan C. Williams e Kate Massinger in un articolo scritto per The Atlantic, troppo spesso una studentessa o una ricercatrice deve fare i conti con molestie sessuali che sono di fatto un ricatto: essere disponibile o perdere opportunità di networking, se non addirittura il proprio posto (anche su questo fenomeno esistono degli studi che ne dimostrano la pervasività). Gli effetti sono peggiori più alto è il livello della ricerca: la comunità è più ristretta, quindi ci sono meno alleati potenziali, e l’università sarà più propensa a difendere un professore “superstar” che dà prestigio all’istituzione. Un esempio recente nel campo dell’astrofisica è quello di Geoffrey Marcy, esperto mondiale della ricerca su una possibile vita aliena: quando l’università di Berkeley non ha più potuto negare le ripetute molestie alle sue studentesse, non ha di fatto punito il professore e si è limitata a vaghe minacce di provvedimenti futuri.
Come sintetizza Chimamanda Ngozi Adichie: il problema degli stereotipi non è che sono falsi, è che sono incompleti.
Nel campo dell’informatica, alcune professioniste hanno dato vita a iniziative di mentoring in “spazi sicuri” (un buon esempio è il programma Outreachy, che offre stage all’interno di aziende come Google e Mozilla) e gruppi di pressione. Anche grazie ai loro sforzi, molte comunità di software hanno messo a punto dei codici etici che specificano i comportamenti da evitare (ad esempio: commenti sull’abbigliamento) e relative sanzioni (fino al bando permanente da una conferenza o al licenziamento). Non risolvono tutto, ma sono un segnale che non vale solo la legge del più forte. Ma c’è un ostacolo che viene prima di tutti questi: per diventare una scienziata, una ragazza deve immaginare di poter essere una scienziata. Una donna che potrebbe voler fare scienza, oggi, non vede molte donne che fanno scienza con soddisfazione e successo. Questa mancanza di rappresentazione, a sua volta, rende più forte l’identificazione istintiva dello “scienziato di successo” con uno stereotipo tipicamente maschile. Come sintetizza Chimamanda Ngozi Adichie, il problema degli stereotipi non è che sono falsi, è che sono incompleti. Una sola storia diventa l’unica storia. Ma le storie di scienziate che sfuggono agli stereotipi, e non solo di genere, non mancano: ecco alcune delle più felici.
Pochi si aspetterebbero che una delle più grandi dive di Hollywood abbia creato una tecnologia che è parte integrante di tutti i telefoni cellulari. La scienziata e attrice è Hedy Lamarr, il cui lavoro sul frequency hopping spread spectrum permette di usare diverse frequenze per mandare un segnale radio. La prima applicazione del brevetto è un sistema per evitare che i siluri siano dirottati dal nemico: pensato per aiutare la Marina degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, mostra che il contributo di Hedy Lamarr allo sforzo bellico alleato non si è limitato agli spettacoli per intrattenere le truppe.
Un altro colpo allo stereotipo dello scienziato chiuso in una torre d’avorio si può trovare in Sofja Kovalevskaja: nonostante sia protagonista di un racconto di Alice Munro dal titolo Troppa felicità, la sua vita decisamente movimentata è poco nota. Fuggita dalla Russia zarista dopo un matrimonio di convenienza, amica di Ibsen e George Eliot, combattente per la Comune di Parigi e accesa femminista, non ha scritto solo teoremi di analisi e studi degli anelli di Saturno, ma anche biografie (compresa un’autobiografia), romanzi e pièce teatrali.
Un’altra vita che ha segnato il corso della storia ma resta poco nota è quella di Grace Hopper. Nel 1943, alla non giovanissima età di trentasei anni, si arruola nelle riserve femminili della U.S. Navy. Lavora su uno dei primi computer della Storia, chiamato Harvard Mark I; nel 1952 trasforma il lavoro dei programmatori inventando il concetto di compilatore, un programma che traduce la descrizione di un problema più complesso nel linguaggio strettamente matematico della macchina (e viceversa); nel 1959 crea il linguaggio COBOL, ancora in uso. Pare che un collega non fosse entusiasta: “Ma Grace, così tutti quanti potranno programmare!” Hopper viene congedata nel 1986, a settantanove anni, prima donna a raggiungere il grado di ammiraglio.
Tra le difficoltà che ogni potenziale scienziata deve affrontare: non solo lo studio della materia stessa, ma anche una società che non la considera al pari di un maschio.
Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson hanno distrutto molti stereotipi: quello dello scienziato maschio, quello dello scienziato bianco (o al più asiatico), quello dello scienziato solitario e fuori dal mondo. Tre donne nere nella società americana degli anni Cinquanta, in cui la segregazione razziale era non solo legalmente possibile ma spesso addirittura obbligatoria, riescono a eccellere negli studi tanto da essere assunte alla NASA. Quando l’uomo tocca il suolo della Luna nella Missione Apollo 11, Johnson, Vaughan e Jackson sono parte fondamentale del gruppo di programmatrici che svolge i calcoli necessari per aggirare i limiti della tecnologia degli anni Sessanta. Su di loro è incentrato il film Hidden Figures, nelle sale americane alla fine di quest’anno (non è ancora prevista una data italiana).
Per chiudere, il caso di Sophie Germain. Nata a Parigi da famiglia benestante nel 1776, riesce a dedicarsi alla “poco femminile” matematica nonostante le perplessità iniziali della famiglia (si dice che nascondesse candele sotto il letto per studiare di notte). Esclusa in quanto donna dall’École Polytechnique, sfrutta uno studente mediocre di nome Antoine-Auguste LeBlanc come prestanome. Il miglioramento improvviso dei voti di LeBlanc viene notato da Giuseppe Luigi Lagrange, la cui importanza nella Storia della Scienza è tale che ancora oggi ogni matematico o fisico troverà un suo teorema in buona parte dei corsi. Grazie a Lagrange, Germain potrà studiare e, sempre sotto pseudonimo, corrispondere con i più grandi matematici d’Europa, compreso quello che è ancora considerato il più grande della Storia: il prussiano Carl Friedrich Gauss. Durante le campagne napoleoniche, Sophie raccomanda a un generale, amico di famiglia, di sincerarsi che il grande matematico non corra rischi nel caos che la guerra ha portato in Prussia. L’ufficiale contatta direttamente Gauss, che reagisce alla scoperta del vero sesso di Monsieur LeBlanc con una lettera. Un passaggio in particolare commenta senza mezzi termini i danni del sessismo nella scienza:
Quando una persona appartiene al sesso che per colpa dei nostri costumi e pregiudizi si trova ad affrontare infiniti più ostacoli e difficoltà di un uomo, ma ciononostante supera questi ostacoli e riesce a comprendere in profondità le più oscure parti di questi spinosi problemi astratti, deve senza dubbio avere il coraggio più nobile, il talento più straordinario, una genialità superiore.
E qui si torna alle difficoltà che ogni scienziata, o potenziale scienziata, deve affrontare: non solo lo studio della materia stessa, ma anche una società che, volontariamente o per pregiudizio interiorizzato, non la considera al pari di un maschio. Il fenomeno per cui le donne sono giudicate più severamente degli uomini per ogni sbaglio, per ogni deviazione da una norma ideale, si vede in molti campi: basti pensare al doppio standard per cui la promiscuità sessuale è motivo di vanto per un uomo e di vergogna per una donna, fino al punto per cui un processo per stupro passa per un esame della condotta “non lineare” della vita di una donna, come nel caso (molto dibattuto) di Fortezza da Basso, terminato con un’assoluzione.
Questo si traduce, comprensibilmente, nella tendenza di una donna a rischiare meno, a dare più peso ai propri errori che ai propri successi. La carriera di uno scienziato, però, è costellata di imprevisti, quando non proprio di errori: le sonde (ultima in ordine di tempo, Schiaparelli) si schiantano, un teorema può rivelarsi l’opposto della congettura da cui il lavoro era partito, e una dimostrazione viene ottenuta dopo mesi di discussioni con colleghi che sostengono tesi diverse. I messaggi fondamentali che dovremmo ricordare a tutte le potenziali scienziate, fin da bambine, potrebbero essere questi due: “Non avere paura” e “Sei in buona compagnia”.
C’è ancora molto da fare, sia per le donne che per la scienza. Ma, come dice il motto sulla tomba di David Hilbert: noi dobbiamo sapere, noi sapremo. Con meno paura, più storie e meno stereotipi sarà più facile superare gli ostacoli.