I n una giornata di marzo del 1945, un mese prima del suicidio di Hitler, un tecnico di laboratorio di origine polacca entrò in un bagno dell’Università di Bonn, ignaro di stare per fare una scoperta che avrebbe cambiato la vita di migliaia di persone. Nell’interstizio tra due mattoni vide conficcato un fascio di fogli su cui era scritta una lunga serie di nomi, indirizzi e note: era la famosa Lista Osenberg, la cui storia attraversava i primi decenni del Ventesimo secolo, un periodo in cui l’Europa da padrona del mondo era finita per diventare un cumulo di macerie.
Pochi anni prima che venisse scoperta la Lista, in particolare a partire dalla disastrosa Operazione Barbarossa – il nome che venne dato al tentativo nazista di invadere la Russia –, la Germania aveva inanellato una serie di sconfitte militari che avevano largamente messo a rischio gli strepitosi e inquietanti successi degli anni precedenti. Che cos’era successo? Perché, quasi d’improvviso, il Terzo Reich da padrone d’Europa si era ritrovato all’angolo? La questione aveva aperto un furibondo dibattito tra i vertici nazisti. Erano sconfitte solamente ascrivibili al caso? O forse c’era qualcosa nell’apparato industriale e militare che non funzionava? Come poteva il Terzo Reich tornare ad essere il dominus globale cui aspirava?
Dopo innumerevoli riflessioni i nazisti iniziarono a capirne le ragioni. Una delle possibili risposte stava nell’aver svuotato la struttura tecnico-scientifica di menti pensanti. L’esercito tedesco i muscoli li aveva, quello che gli mancava era il cervello. E questa carenza aveva una causa ben precisa: lo sforzo bellico. L’eterna maledizione tedesca, una “nazione troppo grande per rimanere nei propri confini e troppo piccola per dominare l’Europa”, aveva imposto alla nomenclatura nazista di richiamare al servizio militare tutte le risorse umane disponibili, dai più anziani ai più giovani, dagli operai agli intellettuali. Fu così che gran parte dei dottorandi, dei ricercatori e perfino dei professori universitari vennero spediti al fronte, impiegati in mansioni che nulla avevano a che fare con la loro formazione: logistica, pulizie, combattimenti. Tutti dovevano materialmente contribuire allo sforzo bellico, pure chi già aveva dotato l’esercito tedesco delle sue strabilianti innovazioni.
Verso la fine della Seconda guerra mondiale l’intelligence americana riteneva di assoluta priorità l’acquisizione della conoscenza scientifica nazista, data la sua eccellenza. Si ponevano però numerosi problemi, ascrivibili a questioni etiche e logistiche.
Lo svuotamento del complesso scientifico ebbe come conseguenza diretta il blocco repentino dell’innovazione in campo bellico. Fu uno dei più grandi errori: una decisione sbagliata che portò in poco tempo la Germania da vincitrice indomita ad arroccarsi e dover difendere le proprie conquiste. Il panico iniziò a serpeggiare. Nel tentativo, quasi disperato, di invertire la tendenza, la nomenclatura affidò all’ingegnere Werner Osenberg il compito di individuare e trascrivere su una lista tutti gli scienziati nazisti che si trovavano sparpagliati sui vari fronti di guerra. Gli scienziati furono richiamati, furono riaperti i laboratori e, pur con le restrizioni imposte dall’economia bellica, si cercarono quante più risorse finanziarie possibili da destinare alla ricerca. Grazie alla Lista Osenberg la macchina scientifico-militare tedesca fu rimessa in moto, e fece del suo meglio. La scienza tedesca era davvero all’avanguardia, ma la ricerca scientifica ha i suoi tempi, e rimetterla in moto dopo averla inchiodata significava dover far fronte a uno sforzo inerziale non indifferente. Anche perché, ormai, il divario con gli Alleati appariva pressoché incolmabile.
La Lista dunque assolse alla sua funzione primaria di richiamare nei laboratori gli scienziati nazisti. Era nata per quello, ma finirà per essere famosa, come spesso accade nella storia, per tutt’altro motivo. Anzi, per il motivo opposto. Torniamo a quando il tecnico polacco la trovò nel bagno dell’Università di Bonn, anche se nessuno è mai riuscito a capire come fosse finita lì. Già da tempo l’intelligence americana riteneva di assoluta priorità l’acquisizione della conoscenza scientifica nazista, data la sua eccellenza. Si ponevano però numerosi problemi, ascrivibili a due grandi questioni. Una etica, ovvero come trattare quegli scienziati che avevano avuto rapporti organici con il potere nazista, e una logistica, ossia come individuare gli scienziati tedeschi e soprattutto come capire quali erano i migliori, quali tra loro, in altre parole, avevano le conoscenze di cui gli Stati Uniti necessitavano. La Lista Osenberg fu, su quest’ultimo punto, una manna dal cielo e dette l’avvio a una delle campagne di intelligence più particolari del Novecento.
L’Operazione Alsos
Già negli ultimi mesi di guerra, gli Alleati e l’Unione Sovietica iniziarono a pensare cosa farsene di una Germania senza Hitler (e soprattutto come spartirsela). Al netto dei piani alquanto fantasiosi dei francesi, che avrebbero voluto trasformarla in una “nazione agricola” eliminando del tutto l’industria tedesca, si aggiungeva anche il problema delle riparazioni di guerra, ossia i pagamenti che gli sconfitti devono versare ai vincitori per ricompensarli dello sforzo militare. Di solito il grosso di queste riparazioni era costituito dalla cessione di territori più o meno ampi ai vincitori. Tuttavia, smembrare l’intero territorio tedesco per annetterlo in forme più o meno esplicite alle quattro potenze vincitrici era palesemente foriero di una instabilità che avrebbe presto fatto ripiombare l’Europa in una nuova guerra. Quindi, niente acquisizioni territoriali, almeno non su vasta scala.
Un’altra forma di compensazione storicamente accettata era quella di rapinare il Paese vinto delle sue ricchezze: si guardò quindi all’industria militare e civile tedesca. In linea generale, gli occidentali cercarono di portare via alla Germania le innovazioni tecnologiche quali singoli macchinari o brevetti; i sovietici, laddove possibile, estirparono fisicamente interi complessi industriali, scientifici e militari, li caricarono sui treni e li spedirono dentro i confini dell’URSS. Pezzi interi di Germania Orientale furono trasportati in direzione dei monti Urali, talvolta ben al di là di essi. Tuttavia, che si trattasse di idee, brevetti o macchinari, serviva chi quelle idee le aveva avute, chi sapeva come far funzionare le macchine o banalmente chi capiva il valore di quelle idee. In altre parole, servivano tecnici, ingegneri e scienziati.
Proprio nei giorni del rinvenimento della Lista Osenberg, altre forze alleate si stavano aggirando per la Germania ormai prostrata. Erano gli inviati di un’operazione di intelligence strettamente legata al Progetto Manhattan, quello che avrebbe dato la bomba nucleare agli Stati Uniti. Prima di entrare nel merito, però, una curiosità. Il referente militare all’inizio della missione segreta in questione era il generale di brigata Leslie Groves, il quale, probabilmente per assecondare il proprio ego, decise di darle come nome in codice la traduzione del proprio cognome in greco antico; da qui il titolo ufficiale di Alsos Mission, dove alsos era la traduzione greca di grove. Peccato che, una volta scoperto il significato di alsos in greco, il risultato sia piuttosto esilarante: una delle più grandi operazioni di spionaggio scientifico mai realizzata fu chiamata “Missione Boschetto”. Ma al di là del nome, l’operazione fu importante: attraverso contatti con i più noti scienziati, si cercava di capire se i nazisti avessero la bomba atomica.
Alsos partì ufficialmente nell’autunno del 1943 con l’invasione alleata dell’Italia, e in particolare quando il grande fisico italiano Edoardo Amaldi fu interrogato su cosa sapeva del programma nucleare nazista. Amaldi rispose di non saperne nulla, ma le spie di Alsos continuarono a lavorare nelle retrovie del fronte, che mano a mano si spostò lungo l’Italia, poi in Francia, per arrivare, proprio nella primavera del 1945, in territorio tedesco. Durante i rastrellamenti, gli ufficiali di Alsos si preoccuparono di interrogare e imprigionare temporaneamente alcune delle menti tedesche più importanti: Werner Heisenberg, Max von Laue e molti altri. L’intento della missione, però, non era quello di catturare gli scienziati, bensì capire a che punto fosse la tecnologia nucleare tedesca. Tuttavia Alsos rese chiaro che un tale patrimonio di menti non poteva andare perduto e, anzi, gli Alleati dovevano iniziare a guardare anche alle altre discipline scientifiche oltre alla fisica nucleare. E quindi, di nuovo, torniamo alla lista di nomi trovata nel bagno dell’Università di Bonn.
L’Operazione Paperclip
Attraverso l’MI6, il servizio segreto britannico (quello di James Bond, per intenderci), gli Alleati ottennero la Lista Osenberg. Gli americani, adesso, avevano una miniera di informazioni; rimaneva da capire cosa farsene. Partirono con la creazione di una squadra che mise insieme i curricula dei nomi presenti nella Lista. E siccome erano eminenti scienziati, i curricula erano lunghi, dunque servivano delle graffette per tenerli insieme. Questo fatto fu preso come spunto per dare l’avvio alla più grande “fuga di cervelli pianificata” della storia: l’Operazione Paperclip (in inglese, “Graffetta”). Essa prevedeva di rintracciare gli scienziati presenti sulla Lista Osenberg e, a coloro ritenuti idonei, offrire una nuova prospettiva di vita e di carriera negli Stati Uniti.
La questione che si pose subito era eminentemente politica, al punto che il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, approvò il piano solo dopo un anno dall’inizio, nel settembre del 1946. In sostanza Truman pose tre condizioni per poter accogliere gli scienziati nazisti: innanzitutto, non dovevano aver avuto legami troppo stretti o comunque pubblici con l’ideologia nazista; non dovevano aver compiuto crimini contro l’umanità; avrebbero dovuto trascorrere un periodo anche minimo isolati o comunque in un regime detentivo.
Al netto dei grandi criminali nazisti, chi non era al vertice si poteva ritenere solo spettatore passivo dei crimini che venivano perpetrati o era un ingranaggio consapevole della macchina nazista?
La questione era incandescente: così come i militari nazisti si giustificarono dicendo di aver “solo eseguito gli ordini dei superiori”, allo stesso modo per la quasi totalità degli scienziati (“ho aderito al partito nazista per poter continuare le mie ricerche”, era la frase ricorrente) fu difficilissimo distinguere un’appartenenza intima all’ideologia nazista rispetto a un mero atteggiamento utilitarista. Wernher von Braun, per esempio, aderì all’ideologia nazista per poter continuare le sue ricerche missilistiche, o credeva davvero nella superiorità della razza ariana?
Un problema simile si poneva anche per la seconda questione posta da Truman. Al netto dei grandi criminali nazisti, come per esempio Mengele, chi non era al vertice si poteva ritenere solo spettatore passivo dei crimini che venivano perpetrati o era un ingranaggio consapevole della macchina nazista? Von Braun sapeva che la manovalanza ebraica a Peenemünde era ridotta in schiavitù? Lo sapeva, lo accettava e se ne approfittava, o lo sospettava e basta? E se anche lo avesse solo sospettato, nella sua posizione, non avrebbe potuto fare qualcosa per salvare quegli esseri umani? Dov’era, dunque, il confine tra crimine, appoggio esterno al crimine e ignoranza di quanto stava succedendo?
La scappatoia legale da tutte queste questioni risiedeva proprio nel terzo punto, ossia una pena detentiva blanda, universale e forfettaria che avrebbe “lavato” la coscienza di quegli scienziati, senza entrare nel merito e, anzi, dando tempo ai servizi segreti di ripulire per quanto possibile le biografie dei diretti interessati. In totale si stima che circa milleseicento scienziati tedeschi (con relative famiglie) furono contattati dai servizi segreti statunitensi nell’ambito dell’Operazione Paperclip. Questa operazione si protrasse per quasi quindici anni e terminò ufficialmente nel 1959.
L’Operazione Osoaviakhim
Molti scienziati tedeschi, tra cui lo stesso Wernher von Braun, si consegnarono spontaneamente agli americani, temendo di finire dalla parte opposta, a Est. Perché, ovviamente, i sovietici non stettero a guardare mentre gli americani facevano incetta di scienziati (ex) nazisti.
In quegli anni, le quattro zone di occupazione della Germania (quella britannica, quella statunitense, quella francese e quella sovietica) avevano come istituzione di raccordo la Commissione alleata di controllo, attiva dal 1943 al 1947. La Commissione operava attraverso dei protocolli, dei veri e propri trattati internazionali, stipulati tra le quattro potenze, sebbene la Francia avesse un ruolo quasi solo rappresentativo. Per quanto ci riguarda, il secondo protocollo prevedeva che le potenze alleate potessero far emigrare forzatamente scienziati, tecnici e lavoratori in generale in qualità di “riparazione di guerra” solo con il consenso delle autorità locali tedesche.
L’Unione Sovietica, però, ebbe da subito dei problemi a gestire i rapporti con i propri corrispettivi tedeschi, nell’area sotto il proprio controllo. I problemi erano principalmente di due ordini. Innanzitutto, la Germania Orientale temeva fortemente che l’URSS avrebbe desertificato il proprio parco industriale e scientifico – cosa che in larga parte avvenne – lasciando il Paese in uno stato di svantaggio rispetto alla controparte occidentale. Da parte sovietica, invece, si temeva che le infrastrutture tecnico-scientifiche della zona orientale fossero smantellate dalla Commissione alleata, nel quadro del programma di disarmo tedesco. Infine, i sovietici vennero quasi subito a conoscenza dell’Operazione Paperclip. Dati tutti questi elementi, a Mosca capirono immediatamente che dovevano agire. E in fretta.
Con una incredibile e chirurgica operazione di intelligence e logistica, in una manciata di ore dopo l’alba del 22 ottobre 1946, i servizi segreti dell’URSS andarono a prelevare casa per casa più di duemiladuecento scienziati tedeschi, con le relative famiglie. Gli scienziati, le loro mogli e i loro figli furono buttati giù dal letto in piena notte, dovettero impacchettare i propri averi in pochi minuti, il tutto senza sapere minimamente cosa stava succedendo e perché. Una volta raccolti nelle stazioni ferroviarie, furono fatti salire su novantadue treni che li avrebbero portati in Russia. In totale, l’Operazione Osoaviakhim coinvolse circa seimila civili che furono deportati forzatamente in territorio sovietico nel giro di qualche ora.
I pochi scienziati che rimasero nella Germania Orientale si accorsero presto che piega stava prendendo l’occupazione sovietica, e soprattutto con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca (1949) fu ben chiaro a tutti che stavano entrando in un nuovo regime ideologico e dittatoriale. Fin da subito le autorità sovietiche vietarono gli spostamenti verso le altre zone di occupazione alleate, ma rimaneva l’enorme buco di Berlino. Qui era una città, non un Paese, ad essere divisa in due, e non era possibile controllare il flusso di persone. Molti scienziati utilizzarono proprio Berlino per oltrepassare il confine e risiedere nella Repubblica Federale Tedesca, almeno fino a quando (1961) non fu costruito il Muro: da quel momento, le comunità scientifiche tedesche occidentali e orientali riuscirono a parlarsi solamente attraverso i piccoli tentativi di cooperazione scientifica internazionale tra le due Germanie, attentamente monitorati dalle rispettive autorità.
Estratto da Ragione di Stato, ragione di scienza. Storie di scienza, spionaggio e politica internazionale (codice edizioni, 2023).