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er oltre due anni al riparo dietro a mascherine chirurgiche o FFP2, unico filtro materiale tra noi e il virus, abbiamo respirato malamente, con inalazioni rapide, frequenti e affannose – l’esatto contrario di quel che si dovrebbe. Abbiamo indossato le mascherine per difenderci poi da una malattia che ha, tra i sintomi gravi, difficoltà respiratoria e fiato corto. Sapevamo per senso comune che chi è in salute respira di norma poco e piano, mentre chi è malato lo fa troppo e velocemente: ne abbiamo avuto prova vedendo i pazienti in fame d’aria indossare il casco per la ventilazione meccanica, quel CPAP che serve a spingere l’ossigeno a forza lungo le vie respiratorie ostruite e a evitare così il collasso dei polmoni. Per un attimo ci è sembrato di assistere al sanatorio descritto da Thomas Bernhard in Il respiro (1978), dove malati con patologie diverse condividono tutti la medesima condizione: respirano eccessivamente, come se ognuno di loro fosse rimasto a corto di fiato.
Ma la pandemia ha alterato la respirazione un po’ a chiunque, non soltanto a chi è finito in terapia intensiva. In un certo senso si può dire che ha aggravato un processo storico ed evolutivo ben più generale, articolato e profondo, che per comodità potemmo chiamare il “declino della respirazione umana”. A definirlo così è in verità il giornalista scientifico James Nestor nel suo L’arte di respirare (Aboca, 2021), un saggio uscito per puro caso nel pieno della pandemia ma che si basa su un lavoro di ricerca pluriennale.
Per quasi un decennio, infatti, Nestor ha scandagliato centinaia di studi scientifici sul tema, si è sottoposto personalmente ai test più estremi e ha viaggiato in lungo e in largo alla scoperta “dell’arte e della scienza della respirazione”, dei metodi per migliorarla, dei suoi effetti sulla salute. Nelle sue peregrinazioni in giro per il mondo ha incontrato scienziati eccentrici, sportivi radicali, terapeuti stravaganti, citizen scientist autodidatti e decine di altri personaggi accomunati dall’essere tutti a loro modo “polmonauti”, pionieri di una nuova disciplina che intende riportare la respirazione al centro dei dibattiti sulla salute umana. Perché respirare, assicura Nestor, è il pilastro mancante della salute: “tutto parte da lì”.
Respirare, assicura il giornalista scientifico James Nestor, è il pilastro mancante della salute: tutto parte da lì.
In fondo la maggior parte delle forme di vita terrestri, esseri umani compresi, trae la propria energia dall’aria. Un individuo sano respira in media 25 mila volte al giorno, inalando circa 13 chili d’aria e filtrandone uno di ossigeno – il combustibile al tempo stesso vitale per gli esseri aerobici e letale per quelli anaerobici – che alimenta i 37 trilioni di cellule del suo corpo. Per raggiungerle una per una, il sangue carico di ossigeno scorre su un reticolo di arterie, capillari e vene che si snoda per 96 mila chilometri: oltre due volte la circonferenza della Terra.
Con un singolo respiro, un numero di molecole d’aria superiore a tutti i granelli di sabbia di tutte le spiagge del mondo entra dal naso e precipita giù nei polmoni, la cui superficie, se la si stendesse su un piano, avrebbe la dimensione di un campo da calcio. Di fatto, noi umani siamo creature che mangiano l’aria: il nostro metabolismo è principalmente aerobico, e solo quando l’organismo è sotto sforzo e in scarsità di ossigeno si attiva il metabolismo anaerobico. Il primo nutre le cellule con un’efficienza sedici volte superiore al secondo, eppure la moderna medicina preventiva si concentra esclusivamente su alimentazione ed esercizio fisico, quasi per nulla sulla respirazione. Perché? “Come può essere così importante e così trascurabile al tempo stesso?”.
Nestor passa anzitutto in rassegna le più rigorose ricerche di settore che nell’ultimo secolo hanno indagato l’impatto della respirazione sulla salute umana. Scopre così che la respirazione influenza l’equilibrio del sistema nervoso e di quello immunitario, che disturbi come asma, ansia, psoriasi, stress cardiovascolare e molte altre malattie croniche o “del progresso” potrebbero essere alleviati o fatti regredire cambiando il modo in cui inaliamo l’aria. Alla cattiva respirazione sono associati russamento, apnee dal sonno e roncopatie, le quali ostacolano l’afflusso di ossigeno alla corteccia prefrontale e hanno conseguenze sull’insorgenza di ictus, diabete, ipertensione, insonnia, disturbi dell’umore, deficit di attenzione e iperattività, persino del cancro. La respirazione contribuisce poi alla digestione del cibo e alla regolazione della massa corporea dal momento che l’anidride carbonica – il suo prodotto di scarto – ha un peso non indifferente, e respirando profondamente ne esaliamo più di quanto ossigeno possiamo inalare. Dalla respirazione pare dipendere addirittura la funzione sessuale, poiché “il naso è connesso più intimamente ai genitali che a qualsiasi altro organo”, fa notare Nestor, e inspirando dalle narici anziché dalla bocca aumentiamo di sei volte la concentrazione sanguigna di monossido di azoto, responsabile dell’apertura dei capillari nei genitali – con un effetto analogo a quello suscitato dai farmaci per stimolare l’erezione maschile.
Di fatto, noi umani siamo creature che mangiano l’aria: il nostro metabolismo è principalmente aerobico, e solo quando l’organismo è sotto sforzo e in scarsità di ossigeno si attiva il metabolismo anaerobico.
Il dato più sconcertante tra gli innumerevoli snocciolati da Nestor è che il 90% delle persone respira oggi in modo scorretto: vale a dire troppo, oppure troppo spesso e volentieri dalla bocca, oppure con inalazioni nasali brevi, contratte e frettolose. Ci sono ragioni evolutive per cui quella umana può essere considerata senza tema di esagerare la peggiore respirazione nel regno animale. Quando i nostri antenati cominciarono a consumare cibi cotti, molli e ricchi di calorie, non ebbero più bisogno di mascelle possenti, di palati spaziosi e di musi proiettati in avanti con in cima delle ampie fosse nasali. Ammorbidire il cibo cuocendolo ha permesso al nostro cervello di espandersi a scapito della parte inferiore del volto, ma ad un prezzo: gli altri mutamenti morfologici della testa umana – abbassamento della laringe, appiattimento della faccia, restringimento delle bocche, indebolimento della masticazione – hanno portato collateralmente alla graduale ostruzione delle vie aeree. “Il volto si accorciò e il cavo orale si rimpicciolì”, riassume Nestor, “lasciandosi dietro un’ossuta sporgenza che rimpiazzava il grugno schiacciato dei nostri antenati. Questa nuova caratteristica apparteneva solo a noi e ci distingueva dagli altri primati: il naso prominente”.
Il naso serve a filtrare, inumidire e riscaldare l’aria, oltre che a pressurizzarla. Si è evoluto anch’esso in base alle condizioni ambientali: stretto e lungo per stemperare l’aria nei climi freddi, largo e piatto per inalare l’aria calda e umida in quelli tropicali. La bocca, dal canto suo, si è invece sviluppata funzionalmente diventando un sistema di ventilazione di riserva da attivare in caso di otturazione delle vie nasali, cosa che agli individui della nostra specie capita di frequente. Succede così che respiriamo sovente dalla bocca, scivolando dall’efficienza energetica del metabolismo aerobico allo stress costante di quello anaerobico. Molti popoli antichi erano ben coscienti delle conseguenze deleterie di queste abitudini respiratorie: il canone taoista, ad esempio, sconsigliava il Ni Ch’i, la respirazione dalla bocca, perché considerata dannosa per la salute. Tutt’oggi nelle medicine orientali la respirazione non viene concepita come semplice ingestione di ossigeno ma come fonte di un’energia invisibile, quella “forza vitale” chiamata qi nei manuali di medicina tradizionale cinese e prana negli antichi testi di yoga.
La respirazione ideale è da sempre al centro delle preoccupazioni delle discipline orientali, perciò è comprensibile che la ricerca di Nestor cominci proprio dall’epifania che fu per lui la partecipazione a un corso di Kriyā yoga. Al di là di ogni teoria pseudoscientifica sul raggiungimento di livelli superiori di coscienza, sono sempre di più le evidenze empiriche a confermare i benefici per la salute dello yoga, o di pratiche come la meditazione o la mindfulness, che in sostanza non fanno che allenare la respirazione nasale e rallentarla. In Yoga (2021), Emmanuel Carrère scrive che se la respirazione è energia, lo yoga è consapevolezza dell’energia: il suo scopo fondamentale è frenare coscientemente la respirazione, come se si volesse tracciare il percorso più lungo tra due punti, o si tentasse di battere un record di lentezza. Nestor, meno evocativo e più pragmatico, la mette così: “il segreto della respirazione ottimale, e di tutti i benefici in termini di salute, resistenza e longevità che l’accompagnano, è praticare meno inspirazioni ed espirazioni, con un volume minore. Respirare, ma respirare meno”. Secoli di riduzionismo e dualismo cartesiano ci hanno resi scettici nei confronti dell’idea che, semplicemente regolando e rallentando la respirazione, l’organismo possa giovarne e la vita allungarsi anche solo di un po’, ma in fin dei conti in Occidente siamo sempre stati sospettosi di qualsiasi disciplina olistica e sapienziale venisse praticata altrove.
Il 90% delle persone respira oggi in modo scorretto: vale a dire troppo, oppure troppo spesso e volentieri dalla bocca, oppure con inalazioni nasali brevi, contratte e frettolose.
Già Plutarco racconta come i soldati di Alessandro Magno, oltrepassati ormai i confini con l’India, restarono sbalorditi nel vedere quegli uomini barbuti che con la contorsione del corpo e il controllo della respirazione tentavano di moderare le fluttuazioni mentali, per approdare così alla saggezza suprema. Li chiamarono “gimnosofisti”, erano yogi, e il loro esercizio consisteva nell’inalare meno aria possibile a risposo. I buddhisti tibetani addestravano invece gli aspiranti monaci a calmare la mente intervenendo sulla respirazione, mentre l’autocontrollo dei samurai giapponesi veniva scrupolosamente testato posizionando una piuma tra il labbro superiore e le narici: lì sarebbe dovuta rimanere immobile, tanto impercettibile era tenuto ad essere il loro respiro nasale. In Occidente l’interesse per la respirazione controllata e i suoi effetti sulla salute umana si accese a metà Ottocento, per contributo dell’avventuriere americano George Catlin e dei suoi studi antropologici sulle comunità di nativi delle Grandi Pianure. Alti sopra la media, sani e di costituzione robusta, i membri delle tribù descritte da Catlin attribuivano la loro invidiabile salute alla respirazione, che si esercitavano a praticare dal naso sin da bambini. Com’era possibile che un gesto così elementare li rendesse col tempo tanto vigorosi?
Solo in tempi recenti, osserva Nestor, la scienza ha cominciato a misurare empiricamente ciò che popoli antichi come i nativi delle Grandi Pianure e i buddhisti tibetani avevano già compreso con l’intuito. Nel resoconto del suo viaggio al tempo stesso cauto e spregiudicato in compagnia di polmonauti più o meno eterodossi, egli stesso sperimenta discipline ardite come il Tummo, l’ipoventilazione e molte altre tecniche suggestive per espandere i polmoni, sviluppare il diaframma, irrorare il corpo di ossigeno, influenzare il sistema nervoso autonomo, stimolare la risposta immunitaria o resettare i chemorecettori del cervello, con benefici per l’organismo pari sotto molti aspetti a quelli del digiuno ricorrente. Nelle pagine più “eretiche” del suo libro, Nestor racconta di tecniche respiratorie che hanno permesso a giovani scoliotici di raddrizzarsi la schiena, ad atleti di infrangere record mondiali, ad apneisti arrischianti di espandere sensibilmente la capacità polmonare e ad asmatici rinvigoriti di scalare il Kilimangiaro a torso scoperto. E tuttavia il merito maggiore della sua ricerca ad ampio spettro è quello di arrivare a sintetizzare la formula, simmetrica e praticabile da chiunque, della respirazione perfetta: “inalare per circa 5,5 secondi, poi esalare per 5,5. Equivale a 5,5 respiri al minuto, per un totale di circa 5,5 litri d’aria”.
Con libro ancora tra le mani ci si ritrova a sperimentare personalmente la formula in questione, che sulle prime appare di difficile applicazione a chi è completamente digiuno di esercizi respiratori. In capo a poche pagine, però, lo stesso Nestor rivela che già le preghiere di molte religioni diverse si basano esattamente su questa durata del ciclo di respirazione: “avevano tutte sviluppato in qualche forma le stesse tecniche di preghiera, che richiedevano gli stessi schemi respiratori. E tutte, con ogni probabilità, beneficiavano dello stesso effetto calmante”. Il canto tradizionale dell’Om, il suono sacro dell’universo per l’induismo, richiede ad esempio sei secondi di inspirazione e sei di espirazione. Alcuni ricercatori dell’Università di Pavia hanno invece studiato i cicli di respirazione durante la recitazione dell’Ave Maria, scoprendo come il rosario cattolico rallenti il ritmo delle inalazioni al punto che si ipotizza possa essersi evoluto in questa forma per aumentare la sensazione di benessere legata alla preghiera, e forse anche il grado di partecipazione emotiva al messaggio religioso. “La preghiera guarisce”, commenta Nestor tra il serio e il faceto, “soprattutto quando è praticata a 5,5 respiri al minuto”.
Solo recentemente la scienza ha cominciato a misurare empiricamente ciò che popoli antichi come i nativi delle Grandi Pianure e i buddhisti tibetani avevano già compreso con l’intuito.
Anche se la tentazione di derivare conclusioni azzardate appare a tratti irresistibile, sarebbe un grave errore credere che basti correggere la respirazione per rimanere sempre in salute, o che si possa trasformare la propria vita semplicemente cambiando il modo in cui usiamo il naso. Lo stesso Nestor non manca di ricordare che “respirare velocemente, lentamente o per niente, non può liberarci da un embolo”, non può salvare chi è in fin di vita o sostituire i farmaci per la chemioterapia, così come sarebbe assurdo considerare lo yoga come l’unica via per la felicità umana. Eppure è innegabile che la cultura medica moderna ha perso da tempo contatto con la respirazione, il più banale, basilare e dato per scontato dei processi fisiologici. La clinica contemporanea tende implacabilmente verso terapie sempre più costose, complesse e ad alta intensità tecnologica per trattare malattie in stadio avanzato, ma sottovaluta enormemente l’importanza di quelle soluzioni low-cost e low-tech che concorrono a prevenire i disturbi cronici e sistemici di cui soffre il grosso della popolazione mondiale. “Le tecniche respiratorie sono adatte soprattutto alla manutenzione e alla prevenzione”, chiosa Nestor, “rappresentano un modo di conservare l’equilibrio nel corpo in maniera che i problemi più lievi non evolvano in disturbi più gravi. Se di tanto in tanto ci capita di perdere questo equilibrio, la respirazione in genere è in grado di ripristinarlo”. Si tratterebbe, in buona sostanza, di cominciare a rieducare un gesto naturale, che nel corso della vita ripetiamo 670 milioni di volte senza nemmeno farci caso. Magari non diventeremmo dei savi maestri di yoga, ma che soddisfazione sarebbe imparare a controllare anche solo un po’ quell’insonnia che la notte ci tormenta, o quell’ansia che ogni tanto ci prende, con la sola forza del nostro respiro.