D ifficile immaginare lo sconcerto dei cardiologi riuniti a Firenze nel 1964 per un convegno internazionale sulle cause di stress nel mondo contemporaneo quando sentirono la relazione di Giorgio de Santillana. Fisico di formazione, costretto dalle leggi razziali a riparare negli Stati Uniti, insegnava storia della scienza al MIT e aveva scritto su Keplero, Galilei e i Presocratici. Visto il contesto, la sua presenza era già di per sé incongrua, ma il suo intervento lo fu ancora di più: sosteneva infatti che la causa della nevrosi fosse da cercarsi nella libertà e nella mobilità contemporanee, nell’“incertezza cosmopolita”, come lui stesso la definì (La storia da riscrivere, ora in Fato antico e Fato moderno). Al contrario, “chi si sottomette al destino soffre, ma la sorte lo protegge”. In America Santillana aveva potuto osservare coi suoi occhi quel grande esperimento sociale su larga scala, già in fase di esportazione, in cui di colpo individui, famiglie e interi popoli venivano trapiantati “da situazioni arcaiche al test psicotecnico”, con esiti da reparto psichiatrico. Da allora sono passati sessant’anni, cinquanta esatti dalla morte di Santillana, e si direbbe che la situazione sia peggiorata.
Nel 1958 Santillana aveva conosciuto Hertha von Dechend, studiosa di mitologia comparata e allieva di Leo Frobenius. Lei gli aveva mandato un suo scritto su alcune costanti nelle rappresentazioni antiche della costellazione del Sagittario in luoghi e tempi troppo lontani per ammettere spiegazioni sbrigative, tra cui la mera coincidenza. Da allora i due lavoravano a un ampio studio sulla cosmologia arcaica a partire dai frammenti astronomici contenuti in miti e fiabe da ogni angolo del globo. Il risultato uscì nel ’69: Il mulino di Amleto, un saggio “sul mito e sulla struttura del tempo” che tentava di ricostruire il più antico linguaggio tecnico del mondo, un “cifrario” che serviva sia a stabilire la posizione esatta dei corpi celesti in un dato momento, sia a presentare in forma narrativa, capace cioè di sopravvivere nei secoli, ciò che gli antichi avevano compreso sull’origine e la struttura del cosmo.
Il libro avrebbe suscitato ancora più sconcerto e imbarazzo di quello strano intervento a un pubblico di dottori. Altro che lavoro e diete varie: la causa del malessere nella contemporaneità era la contemporaneità stessa, ossia l’aver perso l’orientamento rispetto al Fato. Letteralmente, perché il Fato, quello degli antichi, era una macchina precisissima che si leggeva nel movimento degli astri. I quali, dopo essere stati per millenni la prova più tangibile della divinità e dell’ordine, da un po’, almeno in città, non si potevano più vedere.
La scienza prima della scienza
Laureatosi in fisica nel 1925, Santillana aveva preso parte alla fondazione dell’Istituto di storia della scienza presso l’Università di Roma con il matematico e filosofo Federigo Enriques. L’intento era quello di trovare un raccordo ideale fra scienze della natura e saperi umanistici. Prima c’era stato uno scontro accesso fra Enriques e i neoidealisti che dominavano la scena filosofica italiana: Gentile aveva stroncato una sua opera, negando al sapere scientifico un valore conoscitivo sulla realtà e relegandolo a scopi applicati, mentre Croce ne aveva criticato il presunto dilettantismo filosofico, invitandolo a mantenersi entro il perimetro della matematica e a lasciare la filosofia ai professionisti. La polemica, nei primi anni Dieci, pareva essersi risolta con la sconfitta di Enriques, troppo eclettico e troppo poco partigiano per schierarsi in dispute faziose. Aveva allora sviluppato l’idea che un canale di dialogo fra i saperi potesse trovarsi nello studio della storia della scienza, là dove le discipline cosiddette esatte smettono le pose di fissità e si svelano come attività dello spirito a pieno titolo, espressione di creatività e cultura. Lo stesso Gentile doveva averne preso atto: a Enriques fu affidata la direzione della sezione di matematica dell’Enciclopedia Italiana.
Fu in questo contesto che Santillana mosse i primi passi, scrivendo assieme al maestro un volume sul pensiero scientifico nell’antichità dal quale, decenni dopo, sarebbe ripartito. Intanto, però, le leggi razziali ostacolavano gli sviluppi dei loro studi. Enriques morì poco dopo la fine della guerra, quando aveva appena riottenuto la cattedra. Santillana, più giovane, emigrò negli Stati Uniti. Fin qui, sarebbe una qualsiasi vicenda di cattedratici con qualche ingerenza della Storia a dare colore, anche perché Santillana non ha certo inventato la bomba atomica. Il suo profilo rimaneva inclassificabile: troppo colto per gli scienziati, troppo poco filologo per gli umanisti, pervicacemente impenetrabile alle tendenze ermeneutiche aggiornate degli antropologi. Di fatto, per queste cose provava un fastidio inverosimile: per gli scienziati che ignoravano i secoli, anzi, i millenni che li avevano preceduti; per i filologi, che scambiavano gli alberi per la foresta; e per tutti coloro per cui nel mito non c’erano altro che allegorie più o meno palesi dell’incesto, del parricidio e della fertilità.
Per Santillana la causa del malessere nella contemporaneità era la contemporaneità stessa, ossia l’aver perso l’orientamento rispetto al Fato.
Auspicava che a tradurre i filosofi greci e i libri sacri fossero astronomi e fisici ferrati nelle lingue antiche: se un classicista non sa riconoscere Cassiopea nel cielo né tantomeno comprendere una levata eliaca, come potrà individuarle e intenderle correttamente in un frammento presocratico, in un testo egizio, in una tavoletta babilonese, in un codice maya? Questa, in fondo, era la sintesi dei saperi che lui stesso cercava di mettere in pratica, inizialmente correggendo gli errori interpretativi di studiosi che nulla sapevano di scienza ma che ciononostante avevano tradotto quei testi antichi, scientifici prima che vi fosse una scienza cosiddetta, i quali implicavano pertanto un linguaggio tecnico ignoto ai più anche nelle lingue madri.
Così, gli interessi di Santillana erano tornati alle conoscenze astronomiche, matematiche e cosmologiche dei Greci – tutte quelle cose che, in genere e sicuramente a torto, in un corso sui Presocratici si saltano a piè pari. Ma per Santillana troppe erano le nozioni che i Greci possedevano e che non avevano scoperto. Il moderno è essenzialmente la superstizione della novità, della tabula rasa su cui compaiono ex nihilo le cose. Perciò nel prologo de Le origini del pensiero scientifico (1961), saggio che copre i secoli da Talete a Proclo, centrale è la domanda: da dove venivano quelle conoscenze precisissime sugli astri e i loro moti, e chi aveva dato i nomi alle costellazioni?
Gli antichi e gli antichissimi
Rispetto alla plurimillenaria civiltà egizia, i Greci erano comparsi tardi sul proscenio della Storia, e il fatto è che lo sapevano benissimo. Un caso rivelatore – anche del metodo di Santillana (Sulle fonti dimenticate della storia, ora in Sirio) – è quello di Eudosso di Cnido, matematico e astronomo greco del quale si dice che in gioventù fu studente di Platone e trascorse un periodo in Egitto. Dal momento che nelle terre del Nilo non si era sviluppata un’astronomia matematica, gli studiosi avevano minimizzato l’importanza del suo soggiorno fra i sacerdoti egizi, quando Eudosso “imparò la loro lingua, rasandosi il capo e le sopracciglia, e visse come loro”. Per Santillana, invece, lo snobismo della storiografia era una ragione sufficiente per indagare più a fondo.
Le fonti antiche, infatti, sostenevano che proprio nei templi Eudosso avesse appreso conoscenze esatte sui moti planetari che avrebbe poi riportato in Grecia, e che avesse studiato il Libro dei Morti, anche traducendone qualche brano. E il Libro dei Morti, com’è noto, contiene informazioni puntuali per guidare l’anima nel suo viaggio verso le stelle: non espresse, come in Babilonia, nel linguaggio matematico, ma nel linguaggio del mito. Certo, dice Santillana, se si presume che “tutti i miti si riducono o ad allusioni politiche, o a culti solari, culti terrestri, al grande inconscio e a varie forme di patologia sessuale”, sarà difficile capire che cosa ci trovasse un astronomo di tanto interessante. Ma se vi fosse stato di più che beghe fra immortali, stupri divini e riti agricoli?
C’è un passaggio della Metafisica (1074 b 12) in cui si accenna a una “tradizione che discende dagli antichi e dagli antichissimi, consegnata ai posteri in forma di mito, secondo cui i corpi celesti sono dèi, e il Divino circonda tutta la natura”. Il resto, come il fatto che questi dèi siano antropomorfi, sarebbe stato aggiunto in seguito, e non sempre per nobili fini. Nello stesso passaggio, Aristotele suppone che le arti e la filosofia si siano ripetutamente sviluppate fino al culmine per poi decadere, mentre certe credenze si siano conservate come “reliquie” o “residui” (leípsana) di conoscenze precedenti. Qualcuno sostiene che anche Platone avesse studiato in Egitto e nel Timeo, dove si parla dei pianeti come degli “dèi visibili”, si dice che è dagli antichi che viene la loro conoscenza – e “bisogna credere a coloro che nell’antichità ne parlarono, poiché, come sostenevano, essi erano i discendenti degli dèi e indubbiamente conoscevano bene i loro progenitori” (40d).
Troppe erano le nozioni che i Greci possedevano e che non avevano scoperto. Da dove venivano quelle conoscenze?
Chi erano questi “antichissimi” menzionati dai filosofi? Qualche fantasioso penserà agli extraterrestri; Santillana e Dechend accettavano piuttosto l’idea che l’umanità arcaica avesse conoscenze superiori a quelle che siamo portati ad attribuire al passato. L’ipotesi è quella di un’antichissima civiltà, centro d’irradiazione di una cultura veramente “mondiale”, di una “visione unitaria del cosmo” che avrebbe abbracciato tutte le successive culture cosiddette arcaiche, a partire dal Medio e Vicino Oriente fra il 6000 e il 4000 a.C. – prima del fiorire di Babilonia, delle piramidi, degli inni vedici, delle civiltà dell’America Centrale. L’Egitto prima delle sabbie, per dirla con Gurdjieff e Battiato, quando “i Kepleri e i Newton di quei millenni aboliti” fissarono il corso dei pianeti, riconobbero e nominarono le costellazioni dello zodiaco e formularono le leggi dell’ordine cosmico. E tutto questo prima della scrittura, sostengono Santillana e Dechend.
Di sé l’antica cultura avrebbe lasciato tutto e nulla al tempo stesso: dalle basi dei futuri sistemi di scrittura (ideati elaborando figure di astri, costellazioni e fasi lunari) a ogni tecnologia avvenire. E soprattutto storie, già quasi incomprensibili ai tempi in cui Greci principiarono a misurare. Troppo spesso di quei racconti, che in origine altro non erano che una raffinatissima mnemotecnica, il “linguaggio tecnico di tuttora ignoti astronomi arcaici” per ricordarsi e trasmettere movimenti, fasi, levate, periodi, calendari, transiti e orbite prima del formalismo matematico e della scrittura stessa, si era persa la chiave, dando avvio a interpretazioni letterali e fuorvianti. Proprio a partire da quelle storie, allora, e dalle loro somiglianze morfologiche da un capo all’altro del pianeta, dalle ripetizioni dei medesimi simboli ed episodi, Santillana e Dechend tentavano di ricostruire i tratti fondamentali della cosmologia arcaica, tramandata in vertiginose procedure brahmaniche, nei calcoli ossessivi dei maya, in racconti sciamanici di voli celesti di cacciatori e fiere, nei segreti dei sacerdoti egizi che i Greci desideravano ascoltare.
Eccone un esempio: nel Libro dei Giudici viene detto che Sansone uccise mille Filistei “con una mascella d’asino”. Un’iperbole o un gioco di parole, come timidamente propongono i filologi? Santillana e Dechend ricordano piuttosto un mito babilonese in cui il dio-eroe Marduk usa l’ammasso stellare delle Iadi, non lontano dal Toro, come boomerang – in Babilonia infatti l’ammasso era chiamato “la Mascella del Toro”. Non è però la solita storia degli Israeliti che rubano le storie ai carcerieri, perché nelle Americhe lo stesso ammasso era associato al dio maya Hunrakán, protagonista di simili imprese, e per i Greci aveva a che fare con il non lontano Orione il Cacciatore. In Cambogia, Orione prendeva la forma di una trappola per tigri, in Polinesia, invece, per uccelli, tanto che il Cacciatore Maui sconfigge l’Uccello-Sole con – di nuovo – una mascella. E che dire del fatto che Orione e Sansone vengono entrambi feriti, uno al tallone, l’altro agli occhi, come anche Kṛṣṇa e Óðinn? Tutte queste sarebbero, secondo gli autori del Mulino di Amleto, versioni tarde di un’unica storia originaria di contenuto essenzialmente astronomico.
L’ipotesi di Santillana è quella di un’antichissima civiltà, centro d’irradiazione di una cultura veramente ‘mondiale’.
Al contrario dell’evemerismo (la riduzione del mito alla storia, per cui gli “dèi” erano esseri umani “divinizzati”) e della storiografia, che assicura che i nomi dei pianeti sarebbero stati presi in prestito dalle divinità antiche in epoca tarda, per Santillana e Dechend fin dal principio gli dèi del mito sarebbero stati eventi cosmici e pianeti antropomorfizzati a scopi mnemonici, ipostasi narrative degli “dèi visibili”. Così è descritto il funzionamento di questa prodigiosa mnemotecnica (dal prologo a Le origini del pensiero scientifico):
L’astronomia protostorica, arcaica, fissava la sua attenzione sui periodi di congiunzione dei pianeti. Essi servivano a determinare i vari tipi dei “grandi anni” di ricorrenza cosmica, tutti riferiti a un dato tempo zero. […] La localizzazione di un pianeta non implicava semplicemente la sua posizione nello zodiaco e rispetto al sole […] [ma] doveva essere inequivocabilmente determinata in riferimento a un complesso sistema di proporzioni temporali, stabilendo le posizioni e “l’età” degli altri pianeti. Il che significava dover tessere intorno agli eroi trame di drammi tali da permettere di coprire spazi di tempo relativamente lunghi sotto forma di molte “generazioni” […]. Più [i personaggi] erano, meglio era, perché questo riduceva al massimo il margine di incertezza. La varietà dei nomi dati a ogni pianeta e la molteplicità di motivi mitici concomitanti furono rese necessarie dalla quasi incalcolabile complessità delle relazioni da esprimere. Tutto ciò doveva essere determinato senza coordinate, probabilmente senza l’aiuto della scrittura, in un’unica versione sinottica, e narrato a memoria sotto forma di leggende.
Assurdo e inverosimile? Eppure, continua Santillana, i popoli della Polinesia, gli “argonauti del Pacifico Occidentale” di Malinowski, si orientavano nel vasto oceano grazie a cantari lunghi migliaia di versi, tramandati nei secoli senza variazioni proprio perché infallibile repositorio di conoscenze astronomiche fondamentali per arrivare a destinazione. Al confronto, l’astrazione matematica introdotta in Babilonia nel VI secolo a.C. fu un alleggerimento decisivo.
L’ordine del mondo
Dall’osservazione della sconcertante regolarità dei moti celesti, i progenitori avrebbero dedotto che, dietro il disordine con cui le cose sulla terra appaiono e scompaiono, vi fossero costanti, “gli invarianti impersonali” ossia gli dèi, garanti di stabilità. Quindi, dalla regolarità dei cicli degli astri, venne estrapolata l’idea di un principio che rendeva il mondo un kósmos e non un cháos, fatto di proporzioni, armonie e intimi legami per cui dal corso prevedibile dei viandanti celesti si derivava l’ordinamento analogo e corrispondente delle cose sulla terra, secondo la legge – rimasta cardine dell’ermetismo – per cui “come sopra, così sotto”. Era un sistema di misure e corrispondenze esatte che tutto comprendeva, dall’alchimia agli scacchi, dalle orbite celesti alla musica, dalla geometria ai quadrati magici, e in cui ogni cosa trovava il proprio posto.
Per Santillana il cielo che guardavano gli antichi e meticolosamente misuravano era retto da “una Necessità assoluta di natura matematica” (Riflessioni sul Fato): “nulla esiste, nel senso ontologico, se non quell’ordine che non è tanto volontà degli dèi quanto la loro natura stessa, impassibile e inesorabile, portatrice di ogni bene e di ogni male, inaccessibile alle preghiere”. Plotino parla degli astri come dèi proprio perché “si muovono regolarmente e ruotano tutt’attorno all’universo” conferendogli ordine e scandendo i cicli del tempo. E l’essere umano vi soggiace, sottomesso dal giogo di Ananke che tutto preordina sulla sua vita.
Prima di farsi slogan e motore dei tempi moderni, dall’industria alla politica fino alla pubblicità, l’idea di rivoluzione era eminentemente astronomica: non la “fuga in avanti” irreversibile che sarebbe diventata, ma il ritorno al punto di partenza, la palingenesi, il ciclo che, chiudendosi, inaugura quello successivo. Il passaggio dall’astronomia alla metafisica è breve; come annota Mircea Eliade ne Il sacro e il profano, “il Tempo sacro è reversibile per natura, nel senso cioè […] che esso è un Tempo mitico primordiale divenuto presente” con la riattualizzazione di un principio ordinatore. Nel rito il tempo profano si riallinea a quello sacro, o meglio, si esce dal tempo profano e si rientra in quello sacro, “creato e santificato dagli dèi dall’epoca delle loro gesta, che sono infatti riattualizzate dalla festa”. Se s’intendono, con Santillana, gli dèi come gli astri in cielo, è più chiara l’importanza vitale che gli antichi davano alla precisione dei loro calendari. Era un modo per guardare il mondo dal punto di vista del dio. Come si legge in Riflessioni sul Fato, “chi vive in ciò che è fuori dal tempo non è soggetto al tempo”.
Il cielo che guardavano gli antichi e meticolosamente mappavano era retto da ‘una Necessità assoluta di natura matematica’.
Così, per esempio, le vite dei Dogon dell’Africa occidentale, paleolitici e prealfabeti, erano “completamente irretite in un pensiero cosmologico dalla complicazione senza fondo”, scrive Santillana. Marcel Griaule, fra i primi a studiarli, aveva chiesto loro di indicargli i limiti del mondo abitato per “esplorare il loro orizzonte geografico”:
Ma dopo un momento li vedeva tornare a puntare in alto, e a indicargli i confini del cielo. E capì che l’idea di “terra abitata” si riferisce per loro alla zona celeste compresa fra i tropici: una banda di 47 gradi nel cielo, disposta ai due lati dell’equatore. È la zona entro cui si muovono il sole, la luna e i pianeti lungo lo zodiaco. Sono quelli i veri, i soli “abitanti”. In linguaggio aristotelico sono essi le vere sostanze, in quanto hanno un’azione. L’uomo non è perché non ha decisioni da prendere. È passivo, è in un certo modo un riflesso. Partecipa dell’essere, in quanto celebra i miti ed esegue i riti.
E il rito su cui ogni altro si fonda è quello dell’Anno Nuovo, tramite cui, ricordando e ripetendo come il mondo fu creato, il mondo e il tempo rinascono, rigenerati e sacralizzati perché reinseriti nella storia divina in accordo ai ritmi del cosmo. Ogni rivoluzione (l’Anno Nuovo) riattualizza la cosmogonia: le cose, fatte nuove, ricominciano dal principio. Certo, anche il mondo nuovo dorme sul letto di ciò che c’era prima, come Viṣṇu, che fra uno yuga e l’altro sonnecchia sul serpente Śeṣa, il Residuo. Così, il Crepuscolo degli Dèi non è la fine del mondo, ma di un mondo. Mondi che si calcolano in ere, che sorgono dal residuo del precedente e giungono poi al termine per far spazio a tempi nuovi. I Greci ne contavano tre, in India se ne ricordavano molte di più. Il mondo antico faceva la massima attenzione a non farsi trovare impreparato a un simile appuntamento con il Fato.
È arduo per noi, disse Santillana ai cardiologi, “immaginare un tempo in cui misure così precise, affidate alla memoria lungo periodi di tempo così estesi, occupavano una così vasta area della coscienza da essere ritenute normative per la società intera”. Dove la norma era la misura esatta, la precisione e la perfezione del gesto rituale in un aureo canone – ciò che in Egitto si chiamava maat e in India ṛta, da una radice indoeuropea che ha prodotto anche il latino rectus (dunque il diritto e la retta) e l’inglese right. La più antica idea di giustizia è la correttezza della forma, la proporzione armonizzata, il percorso senza storture. Il male, ossia il disordine, era una questione geometrica.
La colpa è degli dèi
La cosmologia antica ricostruita da Santillana sostanziava l’osservazione astronomica con la speculazione metafisica e viceversa. La domanda fondamentale attorno a cui tutto girava era il problema dell’origine del male, l’azione deleteria e apparentemente irreversibile della morte sulla terra che nega la ciclicità perfetta: l’idea che “la natura, quale la conosciamo, è crudele ed iniqua mentre non dovrebbe esser tale”. Ma ben prima di attribuire la responsabilità della cacciata dal paradiso terrestre all’essere umano, il dito era stato puntato contro il cielo.
C’era una prova celeste inconfutabile della stortura che aveva introdotto il disordine nel cosmo: l’obliquità dell’eclittica rispetto all’equatore e la precessione degli equinozi, risultato del movimento della terra che lentamente muta l’orientamento del proprio asse di rotazione rispetto alle stelle fisse come un giroscopio. C’è un punto in cui equatore ed eclittica s’incrociano (detto punto vernale), che è dove il sole sorge all’equinozio di primavera. Questo punto tuttavia va spostandosi di un grado da ovest verso est ogni 72 anni circa, quindi di 30 gradi in circa 2147 anni, e compie una circonferenza completa lungo tutto lo zodiaco ogni quasi 26.000 anni. Così, a seguito di un moto lento ma costante, il 20 marzo il sole sorgeva in una costellazione zodiacale diversa rispetto a quella in cui ci si aspettava che dovesse sorgere. Fu Ipparco a renderlo noto nel 127 a.C., dopo generazioni di osservatori certosini. Mancavano le conoscenze per comprendere il meccanismo, ma si poteva descrivere il fenomeno, con sgomento. Santillana, tuttavia, sostiene che la precessione degli equinozi fosse già conosciuta – e temuta – da millenni.
Quella che oggi è solo una complicazione tutta terrestre per i calcoli, per gli antichi doveva assumere un’importanza epocale in senso proprio: il fatto era che la fascia zodiacale, dove si trovavano le stelle fisse, dettava i tempi per ogni altro movimento; che anch’essa si muovesse, dando a ciascuna èra un diverso patrono zodiacale, doveva sembrare all’occhio antico il disegno che il Fato mostrava di se stesso – la lancetta delle ore sul quadrante dell’orologio divino.
Se s’intendono, con Santillana, gli dèi come gli astri in cielo, è più chiara l’importanza vitale che gli antichi davano alla precisione dei loro calendari.
Attualmente, e da circa 2000 anni, il sole a primavera sorge in Pesci. Nel simbolismo cristologico dell’ichtýs Santillana vede una spia della percezione che si era entrati in una nuova èra (ma anche il fatto che Gesù sia l’Agnello sacrificale che abroga l’epoca segnata dall’Ariete). Il passaggio precedente, continua, troverebbe una corrispondenza nell’episodio della discesa di Mosè dal Sinai con corna d’ariete, mentre il popolo idolatra venerava stoltamente un vitello d’oro, benché l’età del Toro fosse finita.
E la prossima èra? L’astronomo Jean Meeus calcolava l’ingresso del sole in Pesci nel 68 d.C. e prevedeva il prossimo passaggio, in Acquario, nel 2597: piuttosto in là, per chi sperava di vedere la fine del Kali Yuga. Ma Meeus si serviva dei confini delle costellazioni stabiliti all’inizio degli anni Trenta dall’Unione Astronomica Internazionale, secondo cui gli spazi assegnati a ciascuna costellazione zodiacale non sono identici, mentre nell’antichità erano presumibilmente divisi in case da 30 gradi ciascuna lungo l’eclittica. A seconda di dove si fa iniziare una costellazione, i calcoli differiscono significativamente. Così, l’inizio della famosa età dell’Acquario per qualcuno è avvenuto alla fine del XV secolo, per qualcun altro bisognerà aspettare il 3500, per altri è stato nel 2012. Divergenze eclatanti che vanificano qualsiasi pretesa di puntualità all’appuntamento col destino.
Secondo Santillana, il fatto che l’eclittica e dunque lo zodiaco fossero inclinati rispetto all’equatore doveva suggerire che fosse accaduto qualcosa che aveva modificato la posizione originaria, dando avvio alle stagioni, al decadimento, dunque al male. Un cataclisma cosmico (letteralmente un disastro) che aveva dissestato i cieli, eccetto per quel giorno di primavera in cui il sole tornava, come all’inizio, sull’equatore e “si congiungevano tempo ed eternità”; non per nulla Dante inizia il viaggio oltremondano all’equinozio. La precessione in senso opposto rispetto al moto del sole dava poi l’idea che le ere discendessero dal meglio al peggio, dall’oro all’oscurità.
Il mondo antico faceva la massima attenzione a non farsi trovare impreparato a un simile appuntamento con il Fato.
Com’era potuto accadere che tempo ed eternità si separassero? Nel racconto, prendeva la forma di una guerra celeste, dopo la quale gli dèi non avevano più potuto riparare al danno. Attribuire la responsabilità all’essere umano è il prerequisito per sganciarlo dalle stelle e dalla Necessità: la libertà di fare il bene e il male è incompatibile con il determinismo. Incolpare gli dèi significava invece ammettere che anch’essi soggiacevano all’Ananke senza volto.
C’era salvezza per l’essere umano? Sì, risponde Santillana. Il cosmo nella visione arcaica era una macchina troppo perfetta per lasciar spazio a miracoli e misericordie, e tuttavia all’anima era permesso di far ritorno alle stelle a condizione che si fosse praticata una certa “esattezza” rituale nella puntualità con il destino – il kairós dei Greci. Una sottomissione alla Necessità, certo, che però dava pace, senso, sicurezza. La soteriologia arcaica non prometteva uscite dal mondo o l’azione salvifica della grazia, e tuttavia riconciliava con il Fato. A differenza dell’odierna cosmologia, nella quale per l’essere umano non c’è spazio (“se non nella schizofrenia”, commenta Santillana nel Mulino di Amleto), “era un mondo non immemore dell’uomo, […] dove ogni cosa trovava, di diritto e non solo statisticamente, il suo posto riconosciuto”. L’idea era arrivata fino a Newton – “ultimo dei maghi, dei Babilonesi e dei Sumeri”, come lo definì Keynes. L’ultimo, cioè, a vedere il mondo come un crittogramma da interpretare attraverso i segni disseminati da un artefice divino.
Il “mito” del Progresso
Com’è ovvio, la tesi di Santillana lasciò perplessi i lettori. Le recensioni del Mulino, specie se accademiche, furono perlopiù feroci stroncature. Fra le altre cose, come la troppa libertà interpretativa, gli venivano rimproverati l’eccesso di fede nei testi antichi e lo scetticismo per gli studi contemporanei, preferendo sempre l’autorità di figure considerate obsolete e marginali, come il classicista del XVIII secolo Charles-François Dupuis, che aveva anticipato la tesi di Santillana ma, avendo tentato di interpretare i geroglifici egizi prima che Champollion li decifrasse, era stato dimenticato dalla storia del sapere. Santillana stesso sembra aver fatto una fine simile: non si direbbe che il suo nome goda di chissà che riconoscimento a cinquant’anni dalla morte. “Il timore del biasimo dei moderni”, come scrisse, “è tale da far tremare anche i più forti”.
Forse, suggeriva, bisognerebbe innanzitutto liberarsi dall’idea evoluzionistica della cultura, il pregiudizio illuminista per cui la Storia va accumulando saperi partendo dallo zero delle origini, l’uomo primitivo ignorante e non scientifico, verso il Progresso. La sua idea è del tutto opposta: come scrive nel prologo a Le origini del pensiero scientifico, “quelle che ci appaiono condizioni ‘primitive’ sono, con pochissime eccezioni […], solo ciò che è rimasto di antiche civiltà altamente sviluppate; quello che sembrava essere uno stadio di superstizione universale e costante da cui si sarebbe sviluppato il pensiero non è altro che il comune denominatore nel quale versano le civiltà in decadenza”.
Più che nel tentativo di decifrazione astronomica del mito antico (René Guénon sosteneva che vi si trovino, invece di una rappresentazione del moto celeste, “figure ispirate a esso e destinate a esprimere analogicamente qualsiasi altra cosa, perché le leggi di quel movimento traducono fisicamente i princìpi metafisici da cui dipendono”), il merito principale dell’opera di Santillana sta forse nell’aver misurato la distanza che separa il moderno dall’idea del Fato antico, mostrando quali significati venissero derivati dall’osservazione del cielo prima che l’umanità si emancipasse dagli astri, per sostituire alle loro leggi tentativi spesso goffi di moralizzazione.
La più antica idea di giustizia è la correttezza della forma, la proporzione armonizzata, il percorso senza storture.
Cicerone ricorda un episodio in cui l’oracolo aveva ammonito Cesare contro una partenza prima del solstizio d’inverno, ma Cesare partì lo stesso e trionfò. Il De divinatione inanella storie come questa per dimostrare che, se tutto avviene per decreto del Fato, allora qualunque cosa debba accadere è scritta in partenza e non si può mutare; se invece il futuro non è ancora determinato, il Fato non esiste e a nulla serve l’oracolo. Diceva Marco Aurelio che o ci sono gli dèi e la Necessità, e allora tutto è bene perché niente potrebbe essere diverso da com’è, o non ci sono e allora dobbiamo fare del nostro meglio. Da allora, la seconda ipotesi ha finito per prevalere.
Ma più che il buddhismo o il cristianesimo, entrambi tentativi di slacciare l’uomo dalle maglie del Fato antico, ciò che davvero ha operato una cesura è stata la modernità, che coincide, per Santillana, con l’epoca delle rivoluzioni storiche (industriale, americana e francese). Le quali, in modo diverso ma consonante, pretendevano di rendere l’umanità padrona delle proprie sorti, forte di strumenti nuovi per emanciparsi da un destino che non si sopportava più. Da quel momento in poi, eccetto qualche illusoria parentesi di stasi, vige l’idea che la Storia possa solo andare avanti.
Certo, qualche nuovo “mito” anche la modernità l’ha prodotto, in conseguenza o in reazione, ma più che rigurgiti del Fato antico per Santillana sono le sue parodie (se non “una deliberata menzogna sulla condizione umana”): così, il socialismo che cerca di leggere l’ineluttabilità della rivoluzione in una necessità della Storia stessa; o il darwinismo che riporta l’uomo all’origine, sì, ma come bestia; o ancora il pessimismo tragico di Freud, che riposiziona la vita individuale sotto le costellazioni, ma questa volta quelle della famiglia borghese e degli organi genitali, dove sarebbe fuori luogo qualsiasi pretesa di amor fati.
Il merito principale dell’opera di Santillana sta forse nell’aver misurato la distanza che separa il moderno dall’idea del Fato antico.
Il Progresso – termine insostituibile perché perfetto, che unisce in sé “speranze ingenue e lo spavento leopardiano” – ha assunto le fattezze del Fato: se ne può solo prendere atto e acconsentirvi, dichiarando con atto di realismo che è meglio di qualunque cosa che vi fosse prima o che ancora non ne sia stata inglobata del tutto. Nel frattempo, è sorta una nuova Ananke a determinare il corso della Storia: la Macchina. E non è neppure chiaro quali miti dovrebbero riconciliarci con la sua necessità. Così Santillana (Riflessioni sul fato) descrive l’idolo d’oggi:
Con l’imporre mutazione ininterrotta a un ritmo sempre più veloce, questa Necessità ha fatto del tempo una continua catastrofe che non consente riti, ha reso quasi impossibile la libertà interiore e il prender distanza […]. Essa dispensa grazia, questo sì, più d’ogni altra divinità, più d’ogni altra ci astringe alla via giusta, poiché non v’è altra via; è adorata ecumenicamente, a Oriente come a Occidente, e i suoi sacerdoti insegnano che è immune da ogni ombra di colpa, dismisura o deviazione, da ogni iniquità originale, poiché è la Ragione stessa in atto.
Rispetto agli antichi, continua, “siamo noi moderni, in fondo, più vicini alla tradizionale magia”. Antichi che non sappiamo più leggere – e che per noi, malsofferenti di residui e rovine, iniziano appena qualche generazione fa. È forse davvero il tempo di un nuovo medioevo, e qualcuno ha addirittura la presunzione che le cose non siano mai state migliori. L’unica consolazione che rimane, la sola riconciliazione col destino universale, per Santillana e Dechend, è che sempre vi saranno coloro “le cui menti troveranno rifugio nella poesia, nell’arte e nella santa tradizione che sole liberano l’uomo dalla morte e lo volgono all’eternità, fintanto che le stelle continueranno a brillare su di un mondo ridotto per sempre al silenzio”.