C ampi di riso allagati e banane: anche questo vedeva l’esercito di Alessandro, mentre si spingeva verso l’Indo. Era lontano dal Mediterraneo e ai confini del mondo conosciuto dai greci: cosa vedevano e come, e cosa cercavano? È difficile immaginarlo per noi che possiamo avere la mappa del mondo intero sotto gli occhi – e potenzialmente in frigorifero. E se dobbiamo pensare istintivamente a un periodo in cui quella mappa ha preso forma, allora pensiamo a Colombo e gli altri, al Cinquecento. Ma ben prima, in età antica, gli esploratori allargavano i confini del mondo conosciuto, riportando materie, storie, esperienze e aprendo rotte. Quel mondo era più complesso di quanto immaginiamo, un mondo in cui lo stesso Alessandro Magno leggeva probabilmente il testo sull’India, Indikà di Ctesia. E, forse non lo sapeva, ma Silace di Carianda, città di marinai e pirati, era già arrivato alla foce dell’Indo due secoli prima. Lo storico Raimund Schulz, che insegna storia antica all’Università di Bielefeld in Germania, ha ricostruito minuziosamente molte di queste rotte, attraversando il tempo dall’Età del Bronzo al tardo Impero romano e raccogliendo una vastità di fonti storiche e letterarie. Il suo testo si intitola Avventurieri in terre lontane, edito da Keller.
Ne emerge una trama intricata: il mondo antico mediterraneo è ben più esteso e in movimento di quanto pensassimo. Pullula di storie avvincenti, costellate di isole e luoghi dai nomi esotici, e travasate in racconti spesso immaginifici con creature bizzarre. È un’esperienza dei luoghi di certo diversa e fatta di durate. Ed è il rischio dell’ignoto, rischio che non conosciamo: navigare è necessario, vivere no, disse Pompeo ai suoi marinai secondo quanto riportato da Plutarco. Ma aldilà della fascinazione per l’avventura e l’esotismo, oltre i sogni dei marinai antichi, Raimund Schulz ricostruisce le ragioni politiche ed economiche di quei viaggi.
Ben prima del Cinquecento, in età antica, gli esploratori allargavano i confini del mondo conosciuto, riportando materie, storie, esperienze e aprendo rotte.
Era una rete di commerci che faceva circolare materie prime, come i metalli pregiati dalla Sardegna e dal sud della Spagna o l’ambra lungo vie, mediate dai Celti, che si arrampicavano a nord. Era una forma di globalizzazione antica entro cui queste imprese avevano scopi precisi e finanziatori, élite. Ai nodi di questa rete ci sono altrettante occasioni di scambio o scontro. Erodoto scrive che a Olbia pontica, quando i greci e gli sciti festeggiavano, i greci portavano il vino e gli sciti semi di cannabis da gettare sulle braci e sniffare. Seneca si lamentava delle vesti di seta – dalla Cina – che spopolavano a Roma tra le ragazze, e che “niente nascondono del corpo e delle parti intime”. Al mercato di Tassila, oggi in Pakistan, i macedoni incontrano sapienti indiani, alcuni dai capelli lunghi, altri dalla testa rasata: comincerà lì una stagione straordinaria di scambio, l’ellenismo.
Questi viaggi riportavano anche nuove conoscenze botaniche, cosmogonie e geografie, dando forma a nuovi modi di comprendere il mondo, con Plinio, Eratostene, Strabone. La storia concreta, la storia immaginaria e la storia delle idee: la ricerca delle fonti mitiche del Nilo e Alessandro che in vetta all’Hindukush stringe gli occhi e crede di vedere l’Okeanos, il limite del mondo. Questa storia globale di scoperte ci serve per comprendere meglio l’antichità: ne parlo con Raimund Schulz.
Il compito degli storici è di incollare assieme tutti questi frammenti per ricostruire le esplorazioni antiche e collocarle nel loro contesto politico e storico.
Da studente mi sono sempre interessato ai margini del mondo antico, soprattutto perché negli studi di storia antica tedeschi – ma così anche in quelli italiani – il centro dell’attenzione è stato piuttosto su Roma, sui greci, sulla politica interna, sulle grandi guerre. Uno sguardo più ravvicinato alle fonti rivela che il mondo greco e quello romano comprendevano anche quei territori ai margini con cui erano in contatto: ben oltre il Mediterraneo c’erano per esempio il mar Nero e il Sahara. Credo perciò che per comprendere meglio l’intera antichità dobbiamo considerare questi cosiddetti margini. Se infatti ti restringi a guardare soltanto al centro, perdi di vista linee di sviluppo politiche, religiose, economiche, militari e sociali che sono parte fondamentale della storia antica. Osservando i margini, la storia dell’antichità non diventa più solo quella dei greci e dei romani, ma anche dei celti, dei persiani, degli indiani, e persino degli imperi cinesi – specialmente nell’ultima parte della tarda antichità –, di tutti questi popoli connessi. Così possiamo capire la cosiddetta storia antica dell’Eurasia, che assume ancor più significato nel quadro della globalizzazione nell’antichità, di cui oggi sempre più storici parlano. Un’altra ragione per cui l’antichità è importante per l’intera storia del mondo.Lei scrive che la storia delle esplorazioni è una storia ai margini. A scuola studiamo cosa succede per così dire al centro della storia, al centro degli imperi del mondo antico, a Roma o ad Atene. Cosa succede invece ai margini e perché lei ha deciso di dirigersi lì?
In questo lavoro di ricostruzione del passato, come raccoglie le fonti? Questa è la sfida di ogni storico che lavori sulle esplorazioni nell’antichità. A differenza della modernità, infatti, non è sopravvissuto un solo resoconto autentico di una spedizione antica. Non il diario di un capitano, non quello di un capo carovana. In generale dobbiamo immaginare che i capitani e i mercanti amassero piuttosto scambiare le proprie conoscenze coi colleghi nelle osterie, nei porti e nei mercati, lungo tradizioni orali che si muovevano da una generazione all’altra. Questi racconti lasciavano una traccia scritta in circostanze molto specifiche: nell’epica e nelle storie fantastiche, prendendo forma letteraria e perciò non aderente alla realtà storica. Eppure i resoconti esistevano e lo sappiamo dagli storici greci e dai geografi di età ellenistica. Probabilmente questi resoconti, commissionati dalle città o dai re, erano conservati nei grandi archivi di Cartagine, Persepoli, Alessandria, archivi poi distrutti o saccheggiati. Ci sono i periploi, che nascevano da quei resoconti che a volte venivano rielaborati per un pubblico più vasto. Tuttavia, purtroppo, fino al I secolo a.C. non ne contiamo di originali e completi. Abbiamo solo pochi frammenti o testimonianze (tramite Erodoto) oppure presunte copie, come quella del Periplo di Annone il cartaginese, che sono però di enorme importanza perché chiariscono i motivi e le mete, così come l’influenza dei committenti statali. Inoltre i periploi venivano poi ripresi dagli studiosi di geografia e così senza la Geografia di Tolomeo non avremmo saputo di molti luoghi e spedizioni, ad esempio, verso la Cina o lungo la costa orientale dell’Africa fino a Zanzibar. Poi anche l’archeologia ci è d’aiuto. Investigando i naufragi e le antiche strutture portuali, l’archeologia nautica ci dà informazioni importanti sulla tecnica e la logistica, così come sui contesti economici di queste spedizioni, mentre l’archeologia classica e la geografia fisica possono spiegare la struttura dei territori e le condizioni di esplorazione. A proposito di questo, ci è anche utile rileggere i resoconti delle esplorazioni del XIX secolo, come ha fatto lo storico Mario Liverani con le vie del Sahara descritte da Erodoto. Attraverso i racconti Ottocenteschi dell’esploratore di Gustav Nachtigal in Asia o di altri avventurieri nel Sahara, possiamo farci un’idea delle sfide che anche gli esploratori antichi dovevano aver affrontato. Il compito degli storici è di incollare assieme tutti questi frammenti per ricostruire le esplorazioni antiche e collocarle nel loro contesto politico e storico e assieme tentare di comprendere le condizioni geografiche, marittime, ecologiche delle aree esplorate.
Nell’epica, che lei ha citato, si racconta di mari invalicabili, come in Gilgamesh, o di viaggi stremanti come quello di Giasone o di Odisseo. Qual era il ruolo di queste storie nell’Antichità, storie che noi oggi leggiamo solo come letteratura? Al tempo quello era l’unico medium disponibile per narrare le storie di esplorazione e di scoperta, così come per trattenere la conoscenza di terre lontane: in prosa i riferimenti a terre lontane cominciano ad apparire soltanto all’inizio del periodo classico, nei testi di medicina e di filosofia naturale. Ma nel periodo arcaico ancora non esistevano. Nell’Odissea, nelle storie sugli Arimaspi e i favolosi monti Rifei verso quella che oggi Russia, nel poema l’Arimaspeia di Aristea di Proconneso, ci sono elementi di fantasia cui ovviamente oggi non possiamo credere. Per gli antichi tutto accadeva in uno spazio e in un tempo definito e da qualche parte lo si poteva immaginare: non si trattava di fantasy, della Terra di Mezzo del Signore degli anelli. Erano racconti esotici di eventi magici, di creature per metà umane e di divinità benevole, situate però in un contesto reale. Era per loro l’unico modo di parlare di queste terre straniere e sconosciute. Le storie inoltre avevano anche una seconda funzione, didattica: tra il pubblico che ascoltava c’erano giovani che potevano imparare come avere a che fare con il mare e come fronteggiare luoghi lontani e potenzialmente pericolosi. Era una conoscenza tecnica condensata, importante per l’ascoltatore che voleva prendere il largo. Un classico esempio è ovviamente quello di Odisseo che approda in terre diverse e affronta vari pericoli. L’epica degli Arimaspi, ambientata nel nord, aveva lo stesso valore per chiunque volesse viaggiare via terra in quella direzione. Noi dobbiamo perciò mettere alla prova queste narrazioni per capire fino a che punto contengano informazioni empiriche, riplasmate nell’epica.
La storia di Odisseo è anche una storia di molteplici isole. Gilgamesh raggiunge il saggio Utanapishtim su un’isola. Il funzionario egizio Unamon, nella saga Il racconto del naufrago, finisce su un’isola paradisiaca. È da loro che abbiamo ereditato una fascinazione per le isole? Lei scrive: “le isole sono l’apice dell’esperienza primordiale nautica”. Le isole hanno la stessa funzione delle oasi nel deserto: questo è un aspetto molto importante dell’esplorazione antica, che ritroviamo nell’epica greca, mesopotamica ed egizia. Sono posti dove i marinai possono mettersi al riparo, fuggire o trovare l’ultima salvezza dai pericoli del mare aperto. Perciò sono spesso descritte come verdi e fertili, popolate di piante esotiche, sorgenti, e spesso ricche d’oro: lì i marinai avrebbero trovato cibo, acqua dolce e tutto quello di cui avevano bisogno. I marinai insomma proiettavano i sogni della loro immaginazione su queste isole. Ma un altro fatto rende le isole allettanti. Sono extraterritoriali, al salvo dai vincoli degli imperi terrestri. Non si può attaccare facilmente un’isola e questa è la ragione per cui, durante la colonizzazione greca e in quella fenicia, i colonizzatori dapprima si stabilivano su isole o penisole, al sicuro dalle potenze dell’entroterra. Ciò si connette all’ultima ragione principale: queste isole, proprio perché al di fuori dei controlli imperiali, sono il luogo ideale d’incontro per mercanti, capitani e produttori. La maggior parte dei luoghi di scambio nel Mediterraneo era su isole, come Gades (Cadice), o nel mare del Nord Helgoland lungo la via dell’ambra e nel golfo Persico Dilmun. E in tutte le storie ci sono sempre delle dee dell’isola che la proteggono, proteggono i marinai e i loro scambi. Ecco perché l’idea dell’isola è così preminente nell’immaginazione antica.
Ancora prima dell’antichità i popoli erano già in contatto. Mi faccia immaginare il Mediterraneo nell’età del Bronzo? Oggi sospettiamo che i micenei già conoscessero il mar Nero e vi navigassero. Potrebbero anche aver raggiunto la penisola iberica, abbracciando dunque l’intero Mediterraneo. Allo stesso tempo l’Asia minore e occidentale e l’India erano già interconnesse attraverso il commercio sull’Oceano Indiano. Insomma, nell’età del Bronzo avevano già preso forma dei contesti internazionali, per così dire, ed esisteva già una sola grande zona di commercio che andava dall’Atlantico all’India: diversi specialisti si riferiscono a una prima globalizzazione già nell’età del Bronzo. L’intero processo era spinto dalle corti reali degli ittiti, degli egizi, degli assiri, dei babilonesi, ma anche dei micenei su scala inferiore, dalle culture palaziali. Questo perché i grossi imperi erano i soli ad avere i materiali e i mezzi economici per organizzare spedizioni del genere, facendo uso delle comunità costiere e dei porti che avevano raccolto esperienza marittima e che erano poste al servizio di questi re. A differenza di epoche successive, infatti, capitani e mercanti erano al servizio dei re. I dominatori avevano sempre bisogno di materie prime per sostenere il loro potere ma anche di beni di lusso come argento, stagno, incenso, ambra, materiali che non si trovavano in Asia minore, in Egitto o in Mesopotamia. Perciò spedivano i loro capitani per esempio nella penisola iberica, l’Eldorado dell’antichità, la terra che più contava minerali. Alla fine dell’età del bronzo molti di questi contesti e contatti si chiusero ma nel periodo Arcaico riemersero un’altra volta, costruendosi su esperienze passate, su qualcosa che già c’era.
Veniamo allora al mondo Antico. Siamo nel Mediterraneo e vogliamo spingerci ai confini del mondo conosciuto, procedendo banalmente per punti cardinali. Cosa c’è a nord? Dalla prospettiva greca il nord è l’area dei nomadi che allevano cavalli, gli sciti, per i quali hanno un mix di rispetto e paura. Erano in contatto con i loro re perché sulle coste nord del mar Nero nel VII secolo a.C esistevano giò colonie greche – la più famosa è Olbia pontica. Da lì prendono le mosse le spedizioni fluviali greche nell’interno, fino agli Urali. Ma c’è anche la possibilità che i greci si siano mossi più a est, dove avrebbero toccato la parte nord della via della seta che giungeva dalla Cina. La miglior fonte per questi viaggi, per quanto frammentaria, è l’epica di Aristea di Proconneso che racconta del popolo degli Arimaspi, con un occhio solo. Ci racconta della scoperta di nuovi popoli e di nuove terre lungo questa rotta, ma riflette anche l’arrivo di nuove idee religiose dal nord: lo sciamanesimo e il modello dei viaggi extracorporei dell’anima, che poi ha avuto particolare successo nella Magna Grecia. Dunque l’intero nord era visto come un mondo magico da cui arrivavano nuove idee religiose, ma sempre più conosciuto perché battuto via via da mercanti, agenti religiosi e filosofi. Poi c’è il Nord Atlantico, verso cui muovono due gruppi di attori: i fenici da Tyros e i Massali. I fenici fondano colonie oltre la via di Gibilterra e si dedicano al commercio dello stagno fino alla Britannia. Spesso in concorrenza, da Massalia (l’odierna Marsiglia) i Massali cercano rotte via mare per lo stagno e l’ambra alternative rispetto alle vie di terra lungo il Rodano. Tra loro, il viaggiatore Pitea da Massalia, spronato anche dallo spirito di ricerca della geografia e dell’astronomia elleniche, raggiunge così almeno le isole Shetland a nord della Britannia e una misteriosa isola di nome Thule: si suppone sia l’Islanda oppure una costa della Norvegia. Alla ricerca dell’ambra raggiunge presumibilmente anche l’arcipelago di Helgoland nel mare del Nord e si avventura addirittura sul Mar Baltico. Poi arrivano i Romani che cercano di frenare queste spinte esplorative: se inviano flotte nel mare del Nord e nel Mar Baltico – come a partire da Cesare e ancor di più sotto Augusto e Tiberio – è solo per preparare e aiutare le operazioni di terra delle legioni. Solo la Britannia restò il paese più a Nord che valesse la pena conquistare e trasformare in provincia. Perciò le spedizioni via terra lungo la costa baltica diventarono imprese per commercianti privati, in viaggio a proprie spese.
Sud: lei discute l’ipotesi per cui i fenici abbiano circumnavigato l’Africa e i cartaginesi siano approdati in Senegal, come racconta l’esploratore Annone nel suo Periplo. Il sud è molto diverso dal nord e dall’est per le condizioni climatiche ed ecologiche e perché c’erano meno porti buoni e più strade difficili da percorrere. Meno esploratori vi si avventuravano. I cartaginesi però dal fiume Guadalquivir in Andalusia, che avevano raggiunto per primi per commerciare minerali, estendono il loro raggio d’azione alle acque pescose dell’ovest dell’Africa. Così avanzano verso sud e verso il fiume Senegal. Il Senegal è per loro attraente perché sospettavano ci fosse molto oro a monte del fiume. E, cosa ben più importante, ritenevano che il Senegal fosse connesso al Nilo: risalendo il Senegal saresti potuto arrivare in Egitto! Sarebbe stato un vantaggio enorme per i mercanti e per le imprese commerciali, ma offriva anche un vantaggio strategico. Più tardi i cartaginesi tentarono anche di circumnavigare il continente africano ma riuscirono ad arrivare soltanto al golfo di Guinea dove compresero che la costa che taglia verso sud continuava ancora e ancora e non c’era modo di dire quanto lungo ancora sarebbe stato il viaggio. Questione ancora aperta e controversa è invece se, come sostiene Erodoto, i fenici ci fossero già riusciti secoli prima, cosa non impossibile. La circumnavigazione era un’impresa davvero promettente perché secondo loro avrebbe permesso l’apertura di una via più rapida dall’Egitto all’Iberia, all’argento e all’oro di Tartesso. Non a caso la spedizione era finanziata dai faraoni egizi. Ma ovviamente i fenici non conoscevano la reale estensione dell’Africa, vero ostacolo per un viaggio simile. In generale, comunque, c’era un certo interesse nell’Africa e nelle spedizioni africane. E c’erano anche ulteriori spedizioni via terra, come quelle che i cartaginesi organizzavano verso e attraverso il Sahara, partendo da Cartagine o Tripoli. Tuttavia queste non scalzarono le rotte marittime e non avevano un impatto significativo perché le difficoltà da affrontare erano insormontabili. L’Africa restava un’area per i tentativi di qualche mercante, senza raggiungere l’importanza di altre zone.
Muoviamo a est, verso cui punta anche Alessandro Magno. Cosa cercava? L’est era generalmente visto dai mediterranei come l’approdo finale dei sogni, il soddisfacimento dei desideri, perché era connesso con l’idea di fertilità e ricchezza, di paesaggi esotici, animali e piante. L’India e la valle dell’Indo erano già connesse da tempo con l’Asia minore ed erano già conosciute dai capitani greci, non come Alessandro e i suoi storici vogliono farci credere. Già Scilace di Carianda, duecento anni prima, aveva visitato l’India al servizio di Dario I di Persia. Alessandro è il classico esempio di un generale che rivendica di aver aperto la via verso nuove terre che però non erano così nuove alle orecchie del suo popolo. Comunque, la prima ragione politica per cui Alessandro muoveva verso l’India è che la valle dell’Indo era sotto l’autorità dei re persiani. Alessandro doveva dimostrare la stessa abilità dei sovrani locali e soggiogare quei territori: il controllo di quell’area avrebbe legittimato la sua successione sul trono di Persia. Ma la ragione ideologica è che Alessandro voleva raggiungere i confini dell’Ecumene, il mondo conosciuto, di cui l’India era la terra estrema: si trattava di un esito necessario della sua campagna. I greci credevano infatti che l’India fosse lambita dall’Okeanos, il grande mare esterno. Dalla vetta dei monti dell’Indo puoi vedere l’Oceano Indiano e Alessandro ovviamente credeva di vedere l’Okeanos. Perciò invia Nearco, suo capitano cretese, per veleggiare lungo il sistema fluviale dell’Indo, attraverso l’Idaspe, l’Acesines (oggi Jhelum e Chenab) e l’Indo fino alla foce e riuscire a completare l’esplorazione.
Quello che succede dopo Alessandro è un esempio di quanto questi incontri ai margini del mondo generino nuove conoscenze, nuove idee del mondo: l’Ecumene prende nuova forma. Precisamente. Abbiamo trovato alcune steli funerarie di mercanti indiani in alfabeto greco, ritratti come eroi omerici. Allo stesso tempo c’erano ufficiali greci negli stati indiani che pregavano gli dei induisti. È una parte importante della narrazione dell’antica globalizzazione: già prima di Alessandro, ma in particolare dopo, l’India diventa parte integrante dell’area Mediterraneo-Asia minore. Non era più al di fuori di questa antichità ma era un membro integrante dell’Ecumene. E non c’è altro contesto di così grande contatto culturale tra greci e stranieri come quello del periodo ellenistico. Ciò era facilitato dal fatto che le lingue accademiche e religiose erano due, il sanscrito e il greco antico, e veicolavano idee religiose in dialogo: da un lato i filosofi greci che lavoravano sull’etica, dall’altro i pensatori buddhisti. Tutto ciò era inoltre promosso politicamente dal regno greco-battriano in Afghanistan e dai regni indo-greci nel nord dell’India. Questo scambio tra due culture millenarie è un capitolo davvero importante della storia del mondo antico, in particolare della globalizzazione antica e degli scambi globali.
Qualcuno dopo Alessandro, si spinge oltre? Certamente. Al tempo dei Seleucidi, tra il IV e il III secolo avanti Cristo, Megastene visita la corte Maurya a Pataliputra (oggi Patna) sul Gange, dove Alessandro non era mai arrivato, e lì resta per molti anni. Ma dovevano essere diversi altri gli emissari greci come lui. Poi c’erano marinai che da Alessandria e dai porti del Mar Rosso navigavano lungo le coste sudarabiche e con i venti monsonici raggiungevano la costa ovest dell’India, fino a Taprobane, lo Sri Lanka. Così attorno al 100 d.C. un marinaio di nome Alexandros naviga da lì e attraverso lo stretto di Malacca arriva al mar Cinese fino a una città che Tolomeo chiama Cattigara. Nello stesso periodo alcuni agenti di un mercante macedone, Maes, percorrono tutta la via della seta arrivando a una delle capitali Han, forse Luoyang. Sappiamo anche di altre ambascerie romane inviate via mare in quella direzione. Intanto, nella direzione opposta esploratori e ambasciatori ufficiali cinesi, come Zhang Qian e Ban Chao, arrivarono via mare fino alla Malesia, mentre via terra in Battriana e alla fine del primo secolo d.C. fino all’Eufrate: cercavano l’Impero romano.
Ma usavano mappe? C’è dibattito tra gli studiosi. La maggior parte, io compreso, ne dubita. Non c’è riferimento nelle fonti e certe “mappe del mondo” menzionate da Erodoto sono troppo astratte per essere utili a un esploratore. Forse potevano esserci rappresentazioni lineari di punti di costa e di porti. Ma non era la norma: normalmente gli antichi esploratori usavano appunto rapporti orali e informazioni che correvano tra le generazioni. Solo in contesti militari complicati – come nel caso di un grande attacco ad opera di tre legioni romane dal Reno al Danubio nel primo secolo d.C. – potrebbero essere esistite delle mappe con simboli astratti per elementi territoriali, foreste, strade e fiumi. Ma non abbiamo informazioni sicure.
Alla fine, perché questi esploratori dell’età del bronzo, fenici, greci, cartaginesi, romani decidevano di partire? Da cosa erano mossi? Sono molte le ragioni e sono le stesse in tutta l’area eurasiatica, se guardiamo al Mediterraneo, all’India, alla Cina, ma due sono le principali. Anzitutto, la maggior parte di questi attori appartenevano alle élite. Avevano i soldi, l’esperienza, le connessioni personali e soprattutto il tempo ed erano addestrati per viaggiare di professione, come capitani o mercanti, ma anche come medici o produttori che viaggiavano di città in città per offrire i propri servizi. Mentre gli altri erano impegnati a lavorare per sopravvivere, solo loro potevano andare altrove. Questo secondariamente spiega perché quasi ogni spedizione aveva uno scopo concreto, di solito commerciale: scalzare i rivali per esempio, trovare nuove rotte mercantili o trovare specifici beni di lusso. Alle volte, abbiamo visto, erano mossi anche da interessi geografici, strategici e scientifici. Certo, c’era poi spesso l’inseguimento della gloria personale. Erano professionisti sempre pronti a partire e le imprese arricchivano la loro gloria e quella delle loro comunità. Tutte queste ragioni spiegano perché queste spedizioni erano intraprese e perché gli avventurieri antichi erano pronti a rischiare. Questo era il motore che faceva sì che il mondo eurasiatico andasse dal mar Baltico fino alla Cina, persino prima di Colombo.
Ecco, non abbiamo parlato dell’Ovest. Perché non hanno attraversato l’Atlantico? Non erano in grado di raggiungere le Americhe? No, anzi: sul piano navale, tecnico e logistico è del tutto possibile che antichi marinai dalla Spagna o dalle Canarie abbiano navigato verso ovest attraverso l’Atlantico e raggiunto le coste brasiliane o una delle isole caraibiche. Il viaggio è dal punto di vista navale ben più facile di quello attraverso l’Oceano Indiano e i suoi venti monsonici, tratto che gli antichi marinai padroneggiavano. Perciò, perché non l’Atlantico? Anzitutto, il vero problema non è andare verso ovest ma tornare, a causa delle correnti sfavorevoli. Qualche marinaio potrebbe avercela fatta, ma non ha completato il viaggio di ritorno e noi non abbiamo nessuna informazione. Soprattutto, finora, non abbiamo prove archeologiche. Certo, questo potrebbe essere solo un debole argomentum e silentio perché anche nel caso delle esplorazioni africane dei fenici e dei cartaginesi abbiamo scarse o nulle testimonianze archeologiche, anche se abbiamo fonti scritte. Comunque, penso che gli antichi potessero compiere quel viaggio e che molti scienziati e politici fossero certi che si potesse raggiungere l’India o un continente sconosciuto per quella via. Il fatto è che mancavano gli stimoli di tipo politico, religioso ed economico per farlo – diversamente che nell’Europa premoderna. Non c’erano motivi religiosi-missionari e non c’erano stimoli imperialistici: l’impero romano era orientato al Mediterraneo e alla vicina Europa. I romani mandavano sì flotte a nord ma a supporto delle operazioni militari di terra, non per conquistare l’Atlantico o raggiungere continenti sconosciuti. L’afflusso di oro e argento dalla Spagna e dalla Romania, come dal Sahara, era del tutto sufficiente. Il commercio con le Indie e l’Arabia procedeva a gonfie vele da quando l’Egitto era stato integrato nell’impero, e questo commercio portava in Italia abbondanti merci orientali, come il pepe. Non c’era proprio nessun motivo per inviare dei capitani oltreoceano.
L’autore ringrazia Julian Gieseke e a Maria Emanuela Tabaglio per l’aiuto con la traduzione dal tedesco.