S ono solo quarant’anni che abbiamo il Servizio sanitario nazionale. Quarant’anni significa che quattro italiani su dieci sono nati quando la salute non era un diritto definito per legge. C’era, sì, la Costituzione del 1948, che con l’articolo 32 diceva che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, ma non c’era una legge che dicesse esattamente come. Quella legge arrivò nel dicembre del 1978.
Prima di ripercorrere questa storia, vale la pena ricordare che di fondo c’è un’idea che forse diamo per scontata e che invece scontata non è. La salute è un diritto dell’individuo: non un privilegio né una merce, ma un diritto umano di cui la società deve farsi carico e da cui la società non ha che da trarre vantaggi. Un diritto del singolo e insieme un bene della collettività: un’idea enorme.
La salute come diritto venne messa nero su bianco, per la prima volta nella storia dell’umanità, nel preambolo della Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità firmata a New York il 22 luglio del 1946 ed entrata in vigore il 7 aprile del 1948. È la carta che definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, e non solo assenza di malattia, e che dice che la sanità dei popoli è “condizione fondamentale per la pace del mondo”. È lì che si legge che “il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano”.
Sempre nel 1948, il 10 dicembre, lo ribadì la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. E nel 1966 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, scrisse che la realizzazione di questo diritto è compito degli Stati.
Il modello britannico
Ma se la salute è un diritto come si fa a realizzare il diritto alla salute? Germania, Austria, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera seguono (mutatis mutandis) il modello Bismarck, fondato sulle assicurazioni sociali obbligatorie come stabilito per la prima volta in Germania nel 1883. Obbligatorie – mentre nei sistemi liberisti sono volontarie – significa comunque riconoscere che il perseguimento del benessere del singolo e i suoi stati di bisogno non sono solo fatti suoi ma dell’intera società.
In Italia invece abbiamo seguito il modello britannico, cioè il modello Beveridge, con una storia cominciata, appunto, nel 1948 e conclusa nel 1978, storia che ogni dieci anni ha conosciuto una tappa importante. In Europa si sono comportati come noi, anche se in momenti diversi della storia, i paesi del Sud (Spagna, Portogallo e Grecia) e quelli della Scandinavia.
È dal Rapporto Beveridge che discenderà l’istituzione del servizio sanitario inglese, aperto a tutti, cioè universale, e finanziato attraverso la fiscalità generale.
Il modello britannico nasce nel dicembre del 1942, con la pubblicazione, in Gran Bretagna, del Rapporto Beveridge voluto dal governo di Winston Churchill. Diventa subito uno dei testi di maggior diffusione degli anni della guerra: lo ha scritto Sir William Beveridge, economista di area liberale, già rettore dello University College di Oxford, ma contiene il germe di una rivoluzione.
Il Rapporto Beveridge parla di sanità pubblica, più in generale di quello che oggi chiamiamo Welfare State, e ne definisce le caratteristiche principali. È dal Rapporto Beveridge che discenderà l’istituzione del servizio sanitario inglese, aperto a tutti, cioè universale, e (a differenza dei sistemi Bismarck) finanziato attraverso la fiscalità generale. L’NHS, cioè il National Health Service, diventerà operativo nel 1948, primo in Europa (e secondo al mondo dopo la Nuova Zelanda). Ma il Rapporto Beveridge non rimane confinato in Gran Bretagna: le truppe inglesi se lo sono portato dietro per distribuirlo agli altri europei come propaganda per la democrazia. E a noi italiani arriva in versione riassunta e illustrata (116 pagine) con l’Ottava armata, sbarcata in Sicilia nell’estate nel 1943. Dopodiché si tratta di uscire dalla guerra, rimettere insieme il paese, e provare a definirne le leggi.
In Italia
Quattro tappe, una ogni dieci anni, dicevamo. La Costituzione del 1948 è la prima. La seconda arriva il 13 marzo del 1958 ed è l’istituzione del Ministero della Salute: il presidente del Consiglio è Amintore Fanfani ed è lui a nominare Ministro della Sanità il professor Vincenzo Monaldi, insigne tisiologo democristiano.
Il 1958 è anche un anno turbolento durante il quale in Italia si registreranno 8.000 casi di poliomielite, si dovrà decidere quale vaccino adottare (ce ne sono due, il Salk e il Sabin), come distribuirlo, a chi, in via obbligatoria o meno. Il problema è evidente fin da subito: il neonato Ministero della Salute ha competenze vaghe e budget bassi, tanto che c’è chi, come il deputato Ludovico Angelini (comunista, medico) lo definisce “il Ministero dei Salvo”, nel senso di “salvo che…”, perché non può fare molto di quello che dovrebbe.
Terza tappa: la riforma ospedaliera del 1968, detta anche Legge Mariotti dal nome dell’allora ministro Luigi Mariotti. Gli ospedali diventano gli ospedali come li conosciamo oggi: non più enti caritatevoli dove si va a morire, a farsi accogliere se si è poveri o dove si abbandonano i neonati (insomma niente di quello che ci verrebbe in mente di fare oggi in un ospedale). Ma enti pubblici: centri nodali del sistema di cura del paese. Da adesso gli ospedali pubblici forniscono assistenza gratuita a chiunque ne abbia bisogno. Si cerca anche di distribuirne in maniera equa i posti letto in tutte le regioni d’Italia, ma questo si dimostrerà difficile.
Quarta tappa, a trent’anni dalla Costituzione: la legge 833 del 23 dicembre del 1978. Questa è preceduta, a maggio, dalla legge 180 detta anche legge Basaglia, che si occupa della salute mentale. La legge 180 sarà poi inglobata nella 833 quindi di fatto avrà vita breve. La ragione per cui la materia psichiatrica viene discussa a parte è la volontà (condivisa da quasi tutte le forze politiche) di evitare un referendum estivo in cui si sarebbe chiesto agli italiani di esprimersi sulla chiusura dei manicomi. Perché gli italiani chi lo sa se avrebbero detto di sì, negli anni del terrorismo, e la politica li ha preceduti.
Quando la legge viene finalmente, faticosamente, approvata gli italiani sul momento a malapena se ne accorgono. Eppure è una rivoluzione.
Nel 1978 si arriva finalmente alla legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale, ma è un percorso lungo, sofferto, al termine di decenni di istituzione di commissioni, scrittura di disegni di legge e di definizione di piani che vengono bocciati, accorpati, discussi e ridiscussi. Non che non ci si voglia arrivare, ma gli interessi in gioco sono tanti e le questioni da discutere ancora di più. E anche quando la legge viene finalmente, faticosamente, approvata gli italiani sul momento a malapena se ne accorgono. Per dire: la Repubblica, neonato quotidiano di sinistra, ne parla a pagina 24. Eppure è una rivoluzione, tanto più che avviene in un periodo storico in cui in tutto il mondo si sta andando verso modelli sempre più liberali in cui lo Stato interviene sempre meno, come sta succedendo in quegli anni persino lì, nella Gran Bretagna che fu culla della sanità pubblica.
In Italia siamo in un periodo di crisi economica e sociale: sono finiti gli anni del boom economico e sono arrivati quelli del terrorismo. Siamo ancora un paese afflitto dalle malattie della povertà, ma siamo già un paese che vive le malattie della ricchezza, disastri ambientali inclusi. Nonostante tutto, in questi anni avviene quello che Stefano Rodotà definirà “il disgelo della Costituzione”, cioè le riforme che ci renderanno un paese moderno. Tra queste, quella della Sanità. Il ministro è Tina Anselmi.
Un nuovo sistema
Gli italiani sul momento a malapena se ne accorgono e in fondo non deve stupire: la legge 833 è una legge quadro, cioè ha bisogno di altre norme e regolamenti per poter essere del tutto definita. E questi arrivano in ritardo o non arriveranno mai. Per esempio: il primo Piano sanitario nazionale italiano, previsto da quella legge come strumento fondamentale di governo della salute pubblica, è del 1994, cioè arriva quando la legge ha già sedici anni e molte cose sono cambiate.
Per di più dopo Tina Anselmi il ministro della sanità fu Renato Altissimo, liberale, appartenente cioè all’unico partito che aveva votato contro la legge. L’avvio tiepido della riforma deve stupire ancora meno. C’è un problema non secondario: un servizio sanitario nazionale costa, e costa parecchio, e i fondi arrivano dalle nostre tasse. C’è ancora chi dice che è cominciato così il nostro deficit nazionale e che forse non ne valeva la pena. Ma in tutta Europa, tra il 1960 e il 1980 c’è un aumento della spesa pubblica per i servizi di welfare, che si somma ai problemi economici mondiali (l’inflazione che si impenna per via della crisi petrolifera e così via). Per i detrattori del servizio sanitario nazionale è un pretesto per criticarlo.
Per molti, però, non solo questo è assai opinabile, ma comunque sono soldi ben spesi. Perché finalmente abbiamo un sistema sanitario basato sui principi di universalità – cioè si garantiscono prestazioni sanitarie a tutti – e di uguaglianza, cioè le prestazioni sono uguali a parità di bisogno, chiunque uno sia. La salute diventa un diritto del cittadino, non è più un privilegio del lavoratore.
Oggi nonostante tutto abbiamo ancora uno dei migliori sistemi sanitari del mondo in termini di efficienza e di equità, e siamo tra i popoli più sani e meglio assistiti del pianeta.
Manca un elemento: che cosa c’era prima? Quattro italiani su dieci (più il quinto e il sesto, che prima del 1978 erano troppo piccoli per capire) faranno fatica a immaginarselo, ma c’era, di fatto, un modello Bismarck di colossale inefficienza. C’erano le mutue: nate alla fine dell’Ottocento come rivendicazione operaia, quando la salute era un fatto privato o al limite questione di carità cristiana. Le casse di previdenza dei lavoratori erano diventate nel Novecento un determinante di diseguaglianza, perché l’assistenza che si riceveva in caso di malattia dipendeva dal tipo di lavoro che si svolgeva. E comunque non era detto che qualcuno si occupasse di prevenzione e riabilitazione: la completa “tutela della salute” di cui parlava l’articolo 32 della Costituzione era molto lontana. Nel 1943, poco prima della caduta del regime, il fascismo aveva provato a riordinare e centralizzare il sistema, ma non era esattamente il momento più sereno della nostra storia.
Per intuire perché le mutue fossero inefficienti, può valer la pena riguardarsi due film, Il medico della mutua e il seguito, Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, entrambi interpretati da Alberto Sordi. Qui l’avido medico della mutua fa di tutto per accaparrarsi i pazienti e indirizzarli verso esami e terapie che servono più al proprio portafogli che alla loro salute. Perché tanto le mutue rimborsano e lo Stato poi aggiusta i conti. Alla fine il sistema risulta inefficiente, anche economicamente. Sono parodie azzeccate: l’autore del romanzo da cui sono state tratte, Giuseppe D’Agata, scrittore, sceneggiatore, era anche medico e per una decina di anni aveva effettivamente esercitato la professione.
Subito dopo il 1978 cominciano le critiche. E cominciano prove e tentativi di riforma della riforma, che si compiono nel 1992, nel 1994 e soprattutto nel 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione che regionalizza quasi tutte le competenze. Da allora quelli che contano davvero sono i sistemi sanitari regionali.
Quarant’anni di questa storia ci hanno reso un paese sano, tanto sano da dare per scontata la propria salute. Perché oggi, nonostante tutto, abbiamo ancora uno dei migliori sistemi sanitari del mondo in termini di efficienza e di equità, e siamo tra i popoli più sani e meglio assistiti del pianeta. Spendiamo circa l’8% del Pil in sanità, cioè circa 3.400 euro all’anno a testa: è una delle spese più basse d’Europa a fronte di risultati in linea con i paesi migliori. In termini di efficienza della spesa, per l’Ocse siamo quarti al mondo, dopo Hong Kong, Singapore e (staccati di pochissimo) Spagna. E se la nostra speranza di vita alla nascita è oggi superiore agli ottanta anni, ottantacinque se siete bambine, non è grazie alla dieta mediterranea (qualsiasi cosa sia), al sole, al mare, tantomeno alla nostra genetica (in verità, molto bastarda). Ma al pediatra di libera scelta, al medico di medicina generale, e a più di centomila medici specialisti, dipendenti pubblici, al servizio della sanità pubblica e al nostro servizio 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, Natale incluso.