F ine ottobre, Milano. La colonnina di mercurio segna 29°C. Fino a pochi anni fa sembrava difficile raccogliere anche in Italia evidenze empiriche, dirette, del riscaldamento globale. Ma il 2018 è stato uno degli anni più caldi di sempre. A luglio le temperature della Scandinavia superavano i 33°C. Ad aprile e maggio, l’Osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, ha rilevato una concentrazione media di biossido di carbonio atmosferico, il principale gas serra, superiore a 410 parti per milione (ppm): la media mensile più alta mai registrata; secondo i paleoclimatologi, il valore più elevato degli ultimi 800.000 anni. Non si vorrebbe fare allarmismo, eppure i dati sono angoscianti.
A partire da oggi, e fino al 14 dicembre, le nazioni del pianeta si incontrano a Katowice, nel cuore industriale e carbonifero della Polonia, per la COP24, la ventiquattresima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite. L’obiettivo è dare corpo all’accordo di Parigi, il più importante accordo sul clima, firmato nel 2015 in chiusura della COP21. Bisognerà, in breve, definire i meccanismi attuativi per poter partire – come previsto a Parigi – nel 2020, con un nuovo regime di sviluppo: riduzione delle emissioni di CO2 e strategie di adattamento alle già avvenute mutazioni climatiche.
I paesi in via di sviluppo vogliono certezze sulle risorse economiche, con un sistema di rendicontazione e controllo, ma chiedono di non avere misure quantificabili della mitigazione delle emissioni. I paesi sviluppati sono pronti a mettere i soldi ma vogliono dire la loro su quanto e come rendicontarli. Secondo l’accordo di Parigi, i paesi ricchi dovrebbero erogare 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 per aiutare i paesi meno sviluppati a mitigare le emissioni e adattarsi al cambiamento climatico. Sembrano questioni puramente tecniche, ma fallire nella definizione dei meccanismi attuativi potrebbe portare a un nuovo letale stallo.
I negoziati di questo tipo vivono di una diplomazia complessa, fatta di lunghe ed estenuanti trattative, di acronimi e locuzioni oscure, di meccanismi tortuosi e difficili da capire. Per sapere cosa succederà a Katowice, e comprendere il peso reale di questo incontro, bisogna fare alcuni passi indietro e cercare di dare uno sguardo al quadro generale.
La realtà dei cambiamenti climatici
“I cambiamenti climatici si stanno muovendo più velocemente di noi. Se non invertiamo rotta entro il 2020, rischiamo che il cambiamento climatico diventi incontrollabile, con conseguenze disastrose per le persone e tutti i sistemi naturali che ci sostengono”, ha detto il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres.
Il 97,8% dei ricercatori che si occupano di clima è concorde sull’origine antropica del climate change, così come sulla necessità di mantenersi al di sotto di aumenti medi di temperatura di 1,5°C su scala globale. Al di sopra di quella soglia perderemo qualsiasi possibilità di gestire il cambiamento. Secondo le proiezioni andiamo incontro a un riscaldamento medio di 3,8°C se manteniamo il nostro attuale modello di sviluppo, secondo cioè uno scenario business-as-usual.
L’accordo di Parigi aveva come obiettivo quello di fermare il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, lasciando aperta però la possibilità di poter arrivare anche sotto il grado e mezzo. Qualche mese fa si è parlato molto del nuovo report dell’IPCC (il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico) che è servito a sottolineare le differenze tra i due scenari.
Secondo il report, basato su oltre 6.000 ricerche peer-review, raggiungeremo un aumento medio delle temperature globali di 1,5°C già tra il 2030 e il 2052. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai 2°C ridurrebbe molti impatti gravi sugli ecosistemi e sulla salute umana, scrive nel report Priyardarshi Shukla, co-presidente del gruppo di lavoro dell’IPCC. Ciò significherebbe meno carestie, meno povertà, meno migrazioni di massa, meno mortalità infantile, meno rischi per la salute. Arrivare a 2°C ci esporrebbe a troppi rischi, costringendoci poi a soluzioni radicali come la rimozione della CO2 dall’atmosfera – una tecnologia che però è ancora sperimentale e poco efficace.
Non illudiamoci: impatti ambientali e sociali decisivi avverranno anche con un aumento di 1,5°C, e colpiranno soprattutto i paesi in via di sviluppo, gli ecosistemi artici, le regioni aride, e le isole. Oramai è troppo tardi, ci dicono i dati: siamo dentro al climate change e queste sono le conseguenze. Possiamo però contenere il mezzo grado addizionale, agendo con maggiore rapidità, per “ridurre il numero di persone esposte ai rischi legati al clima e suscettibili alla povertà fino a diverse centinaia di milioni entro il 2050”. In altre parole siamo ancora quantomeno in tempo per salvare decine di milioni di vite. Solo in termini di impatti diretti, dice il report, “c’è estrema certezza che il riscaldamento a due gradi aumenterà significativamente la mortalità umana, in particolare legata alle ondate di calore. Malattie come malaria e dengue aumenteranno significativamente, raggiungendo nuove aree geografiche”.
Qual è, in tutto questo, lo stato dei gas climalteranti, i principali responsabili del cambiamento climatico? Nel 2017 le emissioni di CO2 sono tornate a salire. +1,7% l’aumento annuale, sostiene l’agenzia intergovernativa International Energy Agency (IEA), ben 32,5 gigatonnellate in più emesse nell’atmosfera in un solo anno. Un’impennata causata dalla crescita della domanda di energia, che arriva ancora in larga parte da fonte fossili. Dopo tre anni di stop, dovuti più che altro alla crisi del 2008-2016, appena l’economia ha ripreso respiro, i nostri polmoni sono tornati a riempirsi di anidride carbonica.
Secondo un report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) pubblicato solo una settimana fa, a Katowice le nazioni dovranno triplicare gli sforzi, rispetto ai piani previsti, per abbandonare i combustibili fossili e tenere il riscaldamento globale sotto 2 °C entro il 2030.
Le emissioni di gas serra derivano principalmente dai combustibili fossili e dalla deforestazione globale. Oggi consumiamo 150.000 Terawatt/ora di energia da fonti non rinnovabili, ne consumavamo 20 nel 1950. A livello globale invece ogni anno abbiamo perso, nell’ultimo decennio, 13 milioni di ettari di foreste l’anno, una superficie simile a quella del Portogallo.
Breve storia di un fallimento
Alla COP24 di Katowice, le nazioni si incontreranno per cercare di definire linee guida chiare per attuare l’accordo di Parigi e fermare le emissioni di gas climalteranti. Siamo a 21 anni dal protocollo di Kyoto (COP3), e la storia di queste conferenze è ancora più lunga di così.
Il rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future) fu uno dei primi testi internazionali a legare sviluppo economico, combustibili fossili e clima. Il documento, pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) introdusse per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile ed evidenziò i rischi del climate change a livello globale.
Il primo vero negoziato per cercare un accordo efficace contro il clima risale invece al 1992, con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il primo e principale trattato internazionale che ha puntato alla riduzione delle emissioni di gas serra. Venne stipulato al Vertice sulla Terra di Rio de Janeiro, con l’intenzione di avere un carattere non vincolante dal punto di vista legale, ovvero senza imporre limiti obbligatori alle emissioni di gas Serra alle singole nazioni firmatarie.
Nel 1997 il Protocollo di Kyoto diventa il primo documento internazionale che impone l’obbligo di riduzione delle emissioni ai Paesi più sviluppati: un -5% (sulla base delle emissioni rilevate nel 1990) nel primo periodo di adempimento compreso tra il 2008 e il 2012 , e un -8% per l’Unione Europea (UE). Il secondo periodo di adempimento del protocollo di Kyoto è iniziato nel 2013 e si concluderà nel 2020, in questo arco di tempo l’Europa dovrà ridurre del -20% le proprie emissioni (-18% per gli altri paesi), rispetto ai livelli del 1990 (obiettivo per altro raggiunto e superato).
Gli Stati Uniti non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto, il Canada si è ritirato prima della fine del primo periodo di adempimento, Russia, Giappone e Nuova Zelanda non hanno preso parte al secondo periodo. Al conteggio quindi risultano solo il 14% delle emissioni mondiali.
A partire dal 2014, per superare la distinzione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, si lavora a un nuovo accordo all’interno dell’UNFCCC affinché tutti facciano la loro parte, Cina, Usa e paesi in via di sviluppo inclusi. Si cerca di chiudere un accordo a Copenaghen nel 2009, ma fallisce l’intesa tra le parti. I meccanismi proposti non convincono. Si cerca un approccio più libero che lasci spazio alle economie emergenti e non danneggi troppo gli stati più industrializzati. La corsa al ribasso è impressionante e nemmeno Obama può farci nulla: la COP15 è la sua prima vera sconfitta politica, e si perdono così altri 7 anni per trovare una soluzione.
L’Accordo di Parigi, firmato nel 2015, è il più recente e omnicomprensivo di questi sforzi, e insieme a Kyoto uno dei pochi successi del consesso internazionale. Come detto, il suo obiettivo è contenere l’aumento delle temperature a fine secolo entro i 2°C, con l’ambizione di raggiungere la soglia di 1,5°C. Ma siamo politicamente attrezzati per agire rapidamente?
L’Accordo entrerà in pieno vigore nel 2020. “Per il momento i segnali che arrivano dagli impegni nazionali volontari (INDC, Intended Nationally Determined Contributions) sono insoddisfacenti”, secondo Hanna Fekete, di Climate Action Tracker, un progetto di reporting sul clima sostenuto da tre enti di ricerca (New Climate, Ecofys, Climate Analytics).
Gli INDC sono le strategie che ogni stato deve approntare per tagliare le emissioni e far fronte al climate change e condividere con tutti gli stati firmatari di Parigi una sorta di metrica di progresso dell’accordo. Ogni cinque anni, gli stati sono obbligati a redigere obiettivi volontari da raggiungere con ambizione crescente: riduzione delle fonti fossili, maggiore efficienza energetica, mobilità sostenibile, lotta alla deforestazione, adattamento. Con gli INDC attuali al 2100 il mondo raggiungerà una temperatura di 3,2°C, troppo lontano dall’1,5. Ma anche le nazioni più verdi e virtuose temono che una transizione troppo veloce ad energie rinnovabili e trasporti sostenibili possa danneggiarle eccessivamente da un punto di vista economico.
Deboli spiragli
Donald Trump è noto per le sue posizioni scettiche sul cambiamento climatico. Eppure gli Stati Uniti in questi due anni hanno dimostrato come cittadini, imprese e amministratori locali possano fare da argine all’inazione governativa. Nel 2017, dopo l’annuncio USA di voler abbandonare l’accordo di Parigi , si è formata l’Alleanza per il clima degli Stati Uniti, una coalizione bipartisan di Stati e territori autonomi che si impegnano a sostenere gli obiettivi dell’accordo all’interno dei loro confini, riducendo le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025, e raggiungendo gli obiettivi del Piano federale per le energie rinnovabili. L’Alleanza ha costituito inoltre un forum per i suoi membri per sviluppare ulteriormente e rafforzare i piani di azione per il clima, attraverso la condivisione di informazioni e pratiche. L’alleanza costituisce attualmente il 40,66% della popolazione degli Stati Uniti e il 46,46% del PIL.
Non illudiamoci però: il negoziato ONU rimane fondamentale, specie per coinvolgere i paesi dove l’autoritarismo può minare l’azione dal basso. Ma per far veramente funzionare l’accordo di Parigi bisognerà anche aggiornare la complessa diplomazia del clima. Attualmente si teme che il negoziato non riesca a definire entro i tempi necessari, cioè entro il 2019, il “libro guida” per l’implementazione dell’accordo. In assenza di un libro guida che definisca come i meccanismi possano essere applicati, c’è il rischio che salti tutto.
E così i disfattisti oramai dicono che la catastrofe non è più rinviabile, e che per di più la sfida del riscaldamento globale era già persa fin dall’inizio. Gli ostacoli cognitivi che ci impediscono di interessarci ai cambiamenti climatici sono noti da anni. Il cambiamento climatico è un fenomeno complesso, sibillino, che si confonde con le “normali” catastrofi e con i cambiamenti meteorologici che sono sempre occorsi nella storia del pianeta. Nessuno si è accorto negli anni di mezzo grado di temperature medie a livello globale, nessuno ha notato la lenta ma inesorabile acidificazione degli oceani. L’allarme non è scattato. Certo le foto immortalano il progressivo scioglimento dei ghiacciai, come racconta il monumentale lavoro fotografico di Fabiano Ventura, Sulle tracce dei ghiacciai, ma non è bastata nemmeno la drammatica bellezza di questi lavori per renderci pienamente consapevoli di quello che stava succedendo.
Gli scienziati sono prolissi e complessi, e a volte non comunicano benissimo. I giornalisti sono spesso impreparati a scrivere di questo tema, e la gente è distratta. Se guardiamo così le cose, la sfida per agire sembra insuperabile, rimaniamo arresi e insensibili di fronte al clima impazzito, vittime del nostro stesso benessere e della nostra indulgenza. Ci dividiamo tra sfiduciati della politica, positivisti tecnofili e aedi del corporativismo salvifico.
Basta vedere l’agenda di chi è salito al potere in Brasile e di chi siede alla Casa Bianca, ripassare gli interessi della Russia, la difficoltà a decarbonizzarsi dell’Europa, la sovranità del carbone dell’India e la dipendenza da una crescita impossibile della Cina. Uno sguardo alla geopolitica attuale, intasata di populismi, nazionalisti e sinistre perse nell’autocompiacimento, fa immediatamente dire: non funzionerà. Altro che 1,5°C.
Qualche passo, però, lo abbiamo fatto: Rio, Kyoto, Parigi. Il lavoro di migliaia di attivisti e comunità, la passione di esperti e imprenditori illuminati, lo sforzo di giornalisti, intellettuali e artisti. Dobbiamo iniziare a considerarci umanità, un’unica umanità, conscia della sfida e della sconfitta già in atto, e forse avremmo una possibilità di salvarci.