L a prima volta che mi è stato detto “non c’è più niente da fare” era il 2012. Nei mesi precedenti D., una persona a me cara, aveva sviluppato un tumore al polmone che aveva ormai metastatizzato lungo tutta la spina dorsale. Nonostante lo stadio avanzato della malattia, D. fu operata per rimuovere la massa tumorale primaria. Fuori dalla sala operatoria il medico disse: “Non è stato facile, aveva già attaccato la colonna vertebrale”. Parlavamo tutti del tumore – noi familiari e i medici – come di un qualcosa di alieno che aveva attaccato il suo corpo, se ne era impossessato, e adesso si stava espandendo, succhiando via la vita dall’organismo che aveva aggredito.
D’altra parte, immaginare il tumore come un’entità aliena è normale. Che sia un alieno che invade il corpo è l’idea al centro del discorso pubblico sul tumore. Nel gergo usato non solo dal paziente e dai familiari, ma soprattutto dai medici quando devono relazionarsi con loro, c’è la tendenza a parlare della malattia come di un conquistatore esterno contro cui bisogna attivamente combattere. Ma è sbagliato.
Gli organismi pluricellulari si sono evoluti circa 2 miliardi di anni fa grazie alla compresenza di cinque dispositivi fondamentali che sono alla base della nostra natura pluricellulare: il controllo della proliferazione (quanto spesso le cellule si dividono); la regolazione della morte cellulare programmata (quando una cellula è così danneggiata da dover essere eliminata); la divisione del lavoro (quali cellule si occupano di cosa); il trasporto e l’utilizzo delle risorse energetiche (come procacciarsi energia sotto forma di ATP); il mantenimento in buono stato del microambiente extracellulare (come evitare che le cellule migrino). Il corretto funzionamento di questi dispositivi impone un’attiva cooperazione tra le cellule del nostro organismo.
Il cancro è un problema trasversale a tutte le forme di vita pluricellulare: dalle piante, agli animali, all’uomo, e inesorabilmente collegato alla loro natura cooperativa.
Questi dispositivi però non sono perfetti. Possono sfuggire ai regolari sistemi di controllo, non seguire più le norme di convivenza pluricellulare. Quando ciò avviene, alcune singole cellule usurpano le risorse e la forza della cooperazione del gruppo, col fine ultimo di proliferare. A livello macroscopico, questa proliferazione sistematica delle cellule si espande come le zampe di un crostaceo – e proprio così la chiamiamo: cancro.
Il cancro è un problema trasversale a tutte le forme di vita pluricellulare: dalle piante, agli animali, all’uomo. È inesorabilmente collegato alla natura cooperativa degli esseri pluricellulari, che normalmente consente a intere popolazioni di cellule di compiere obiettivi comuni che sarebbero impossibili se operassero individualmente. Ma, mentre la pluricellularità è votata al benessere dell’intero organismo e non della singola cellula, le cellule tumorali consumano le risorse energetiche per sé stesse, innescando un circolo vizioso che porta infine alla morte dell’organismo vivente. Considerando che il corpo umano è costituito da circa trentamila miliardi di cellule che continuamente cooperano e si coordinano, il cancro non è nient’altro che uno dei possibili esiti dei processi evolutivi che avvengono nel corpo durante la vita di un individuo.
Come spiega su Aeon Athena Aktipis, associate professor al dipartimento di psicologia dell’Università dell’Arizona, il cancro è parte dell’organismo e non una minaccia esterna. Lo possiamo capire guardando dei cactus. I cactus crestati presentano delle fasciazioni alle loro estremità, mostruose e maestose al contempo, che li rendono spettacolari. Queste escrescenze, o creste, sono tumori. Tumori che li indeboliscono, ma con cui sorprendentemente sono in grado di convivere. Scrive Aktipis:
La lezione più profonda e incoraggiante che i cactus crestati ci possono insegnare è che, in quanto forme di vita pluricellulari, possiamo convivere con il cancro. La vita pluricellulare ha a che fare col cancro fin dagli albori della sua esistenza e si è evoluta in modo da tenerlo sotto controllo. Osservando come i cactus crestati convivono col cancro, si possono scoprire modi nuovi e più efficaci di prevenire e trattare questa malattia.
In altre parole, cambiare la concezione che abbiamo del tumore può aiutarci a capire come curarlo. Questo cambio di prospettiva è già in corso, e sta trovando la sua applicazione in approcci sempre più studiati eppure ancora non ampiamente conosciuti: la terapia adattiva, l’immunoterapia, e la tecnologia a mRNA.
Dalla chemioterapia alla terapia adattiva
I chemioterapici tradizionali, su cui ancora oggi si basano le terapie antitumorali standard, sono farmaci citotossici usati alla massima dose tollerabile dal paziente. Hanno l’obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di cellule tumorali in modo da estirpare il tumore. Solo che è difficilissimo discernere tra cellule sane e cellule cancerose, e i chemioterapici portano alla morte di entrambe con danni spesso irreversibili per il paziente. Inoltre, nonostante il trattamento, alcune cellule sopravvivono alla terapia e, per quanto indebolite, riescono a replicarsi. Avremo così selezionato cellule tumorali resistenti al farmaco. Le nuove generazioni, derivanti dalle sopravvissute, saranno quindi cellule in grado di resistere al trattamento.
Si viene a creare un paradosso: più alta è la dose del chemioterapico, più forte sarà la pressione selettiva che favorirà la resistenza delle cellule alla terapia. Quindi, pure se il paziente guarisce, c’è comunque il rischio che possa incorrere in recidiva, ammalandosi nuovamente e di un tumore in grado di resistere alle cure.
La terapia adattiva è una nuova strategia per il trattamento del tumore che tenta di aggirare questi problemi. Il principio fondamentale è quello di tenere il tumore sotto controllo anziché estirparlo. Il metodo, introdotto dieci anni fa da R. A. Gatenby, oncologo e biologo evoluzionista, si fonda su un’osservazione inattesa: le cellule tumorali resistenti al trattamento – le stesse cellule che sono in grado di sopravvivere allo stress della terapia – sono però indebolite e si moltiplicano lentamente. Più precisamente, quando il chemioterapico viene somministrato, nella massa tumorale si vengono a creare due popolazioni cellulari principali: una formata da cellule sensibili al farmaco e una formata da cellule resistenti. La resistenza al chemioterapico ha però un costo: tutte le risorse energetiche che le cellule hanno a disposizione le spendono per essere resistenti. Utilizzano energia per pompare fuori il farmaco e la usano per adattarsi a un ambiente esterno ostile. In particolare, le cellule resistenti finiscono per avere un tasso di proliferazione più basso rispetto a quelle sensibili.
Quindi, l’idea chiave della terapia adattiva è di sfruttare il costo della resistenza. E di mantenere la massa tumorale entro certi limiti dimensionali (definiti da un algoritmo che tiene in considerazione diversi parametri a seconda del caso), maneggevole, in cui le cellule tumorali sensibili ai farmaci prevalgano sulle resistenti. Il tumore così non diventa più una cosa da estirpare ma un problema da gestire.
L’immunoterapia
Il cancro non è un alieno. È viceversa parte imprescindibile del nostro essere pluricellulari. Vedere il cancro come parte della nostra natura può apparire disturbante, ma suggerisce che potremmo già possedere gli strumenti per tenerlo sotto controllo. Perché, se è vero che per milioni di anni il cancro è andato di pari passo con l’evoluzione degli organismi pluricellulari, è altrettanto vero che l’evoluzione ha sviluppato nello stesso smisurato arco di tempo un raffinato sistema di controllo per arginarlo. È quindi possibile che il trattamento del tumore non debba essere un agente esogeno – uno xenobiotico – citotossico con cui bombardare il tumore. Ma piuttosto che la terapia si debba concentrare sul coadiuvare quei dispositivi di cui l’organismo già dispone. Queste sono le premesse rivoluzionarie su cui si fonda l’immunoterapia.
Già alla fine del Diciannovesimo secolo, il lavoro pionieristico di William Coley aveva mostrato che il sistema immunitario può contrastare alcuni tipi specifici di sarcoma. Nell’ultimo secolo la comprensione del funzionamento e le potenzialità del nostro sistema immunitario si è espansa enormemente. James P. Allison e Tasuku Honjo, immunologi e premi Nobel per la medicina nel 2018, hanno definitivamente mostrato che le cellule del sistema immunitario sono naturalmente in grado di eliminare il tumore, senza dover ricorrere a una terapia esogena che tenti di avvelenarlo e estirparlo.
Vedere il cancro come parte della nostra natura può apparire disturbante, ma suggerisce che potremmo già possedere gli strumenti per tenerlo sotto controllo.
Il primo tentativo del team di Allison, alla metà degli anni Settanta, consisteva nell’iniettare (in topo) proteine derivanti da cellule tumorali in modo da stimolare il sistema immunitario. Questo approccio si scontrò con un gran numero di problemi tecnici. Solo dopo decenni di ricerca l’immunoterapia ha potuto svilupparsi nella forma che conosciamo oggi. Si è capito che alcune cellule del sistema immunitario, chiamate linfociti T, possono essere accese o spente. E che inoltre esistono due proteine cosiddette di checkpoint (CTLA-4 e PD-1) che fanno entrambe da interruttore a questi linfociti.
Il limite principale del sistema immunitario nel contrastare il tumore è che la massa tumorale ha dimensioni più grandi rispetto ai patogeni contro cui normalmente agisce, e questo fa sì che i linfociti T non rimangano accesi abbastanza a lungo da poter portare a buon fine la risposta immunitaria.
Ma allora – ecco l’intuizione chiave dell’immunoterapia – non occorre focalizzarsi sul tumore (e su come avvelenarlo), ma piuttosto sui linfociti T, permettendogli di rimanere accesi per tutto il tempo che occorre in modo da ultimare la risposta immunitaria contro il tumore. In sintesi, la rivoluzione copernicana dell’immunoterapia è che per curare il tumore risulta più efficace avvalersi dei sistemi propri del nostro organismo, anziché intervenire dall’esterno.
La tecnologia a mRNA
La tecnologia a mRNA è un nuovo importante tassello nel ribaltamento concettuale del trattamento del cancro. Come ormai noto, questa tecnologia, ideata da Katalin Kariko già negli anni Ottanta, ha trovato il suo primo impiego su larga scala per la sintesi dei vaccini anti-COVID19.
Quello che rende affascinante questo tipo di approccio è che si fonda su un’idea elementare; come a volte si dice: “è scritto a pagina uno del libro di biochimica”. L’RNA messaggero (mRNA) è quella molecola che copia le istruzioni per la sintesi proteica dal DNA e le porta ai siti dove la sintesi avviene. Considerato quindi il ruolo biologico dell’RNA messaggero, risulta immediata l’idea di scrivere delle brevi sequenze di mRNA da far entrare dentro la cellula come pezzetti di codice per i ribosomi – gli organelli che fungono da siti per la sintesi proteica – che sintetizzeranno naturalmente quelle proteine di cui abbiamo bisogno.
In un certo senso questo tipo di trattamento è a metà strada tra terapie tradizionali e nuove. Perché viene somministrato qualcosa dall’esterno, ma questo qualcosa non è una molecola estranea al corpo ma sono delle istruzioni affinché la sintesi vera e propria avvenga all’interno del nostro organismo; possiamo dire noi cosa sintetizzare alle nostre cellule. Non stupisce quindi che l’utilizzo dell’mRNA possa avere dei risvolti colossali anche nella cura del cancro. Poter usare questa tecnologia al posto delle terapie tradizionali significherebbe, di nuovo, smettere di trattare il cancro come un invasore esterno da bombardare, ma insegnare al nostro organismo come contenerlo.
In tutti gli organismi pluricellulari si sono evoluti sistemi oncosoppressori: proteine che monitorano comportamenti strani delle cellule e li correggono inducendo la morte cellulare programmata prima che la cellula si replichi, sono i cosiddetti guardiani del genoma. Questi sistemi di controllo sono inibiti nel tumore. La tecnologia a mRNA potrebbe essere un modo per ricordare alla cellula di questi strumenti, instaurandoli di nuovo, aiutandola quindi a ripristinare l’equilibrio tra cellule sane e cellule difettose, portando al suicidio cellulare (apoptòsi) le cellule tumorali.
Il ribaltamento sarebbe talmente sostanziale da portare la ricerca di base a cercare quello che nel cancro è silenziato, inibito, invece che mirare a quello che la cellula tumorale produce in eccesso. Non si tratterebbe più di ostacolare o bloccare forzatamente, ma semplicemente di dare delle istruzioni alla cellula per fare quello che è già abituata a fare: utilizzare gli stessi meccanismi grazie ai quali ci siamo evoluti in quanto organismi pluricellulari.
Capire chi siamo
Quella del cancro è una sfida a cui sono stati sottoposti gli organismi pluricellulari sin dagli albori della vita sulla Terra. Quello che possiamo imparare – anche osservando i cactus crestati – è che noi siamo il risultato di una selezione naturale microscopica interna al nostro organismo, frutto non solo della cooperazione tra cellule ma anche dei complessi sistemi operativi di cui questa si avvale per tenere sotto controllo le cellule che tradiscono.
Per poter cambiare il modo di trattare il tumore occorre capire chi siamo. Considerare il tumore come parte della nostra storia biologica e ridimensionare noi stessi a uno dei rami dell’albero evolutivo. Dobbiamo abituarci a riconoscere l’uomo come uno dei tanti risvolti della pluricellularità quando è cominciata la vita sulla Terra. Il fatto che non siamo trasparenti a noi stessi deve spingerci a conoscerci meglio e studiare il funzionamento del nostro corpo in modo da comprendere appieno quali sono gli strumenti che possediamo. Quello che invece possiamo fare come esseri coscienti è dare le istruzioni alle nostre cellule su come agire quando altre ci tradiscono.