Q uesto è il bosone di Higgs delle neuroscienze!» Così, narrano le cronache, David Nutt ha commentato le immagini della risonanza magnetica appena prodotte dal suo giovane collaboratore, Robin Carhart-Harris. Era la metà del 2015, e quelle immagini sarebbero state poi pubblicate su PNAS nell’aprile successivo. Non sappiamo se in quel momento Nutt stesse pensando all’espressione con cui viene chiamato il bosone di Higgs, la “particella di Dio”, per analogia con l’aura mistica che da sempre hanno le sostanze cui ha dedicato la sua intera vita di studioso.
Ma di sicuro le sue parole esprimono qualcosa di più del semplice entusiasmo per un esperimento riuscito. Riflettono la felicità nata dalla certezza di essere giunto a un punto di svolta, quello oltre il quale nessuno avrebbe più potuto dirgli: panzane da fricchettoni di ritorno.
Le immagini di quel cervello che sotto lo stimolo dell’Lsd sembrava prendere fuoco, mostrando spegnimenti, attivazioni e connessioni del tutto inedite, rappresentavano una prova biologica clamorosa: non solo evidenziavano effetti così sovversivi da apparire persino inimmaginabili, ma costituivano anche una buona base di partenza per spiegarne i meccanismi. Di più: lasciavano presagire l’aprirsi di un capitolo inedito nella storia delle neuroscienze e della neurofarmacologia.
David Nutt, del resto, è tutto tranne che un attempato figlio dei fiori con nostalgie acide: è uno scienziato, uno psichiatra e un neurologo dell’Imperial College di Londra, nonché uno dei più grandi esperti al mondo di Lsd e sostanze psicoattive. Per decenni ha portato avanti studi rigorosi in una specie di clandestinità prima tollerata e poi apertamente osteggiata, ma si è sempre esposto in prima persona sull’opportunità di proseguire le ricerche, assumendo coraggiosamente il ruolo di riferimento culturale e scientifico per tutti i testardi come lui. Ha fondato associazioni, animato siti, tenuto interventi pubblici: insomma, ha fatto tutto ciò che riteneva utile e opportuno per accelerare un cambiamento culturale che gli desse la possibilità di condurre esperimenti e studi. Sembrerebbe scontato, eppure per molto tempo non lo è stato affatto, perlomeno quando si parlava di sostanze psichedeliche. Né in Inghilterra né praticamente in nessun altro paese del mondo. Fino al 2016. Fino al bosone di Carhart-Harris.
Da quel momento è diventato sempre più difficile sostenere, come si era fatto per almeno sessant’anni, che si trattasse solo di un maldestro tentativo di spacciare per scienza la propaganda a favore di droghe pericolose. Ed è diventato più complicato affermare che non valeva la pena di approfondire, di capire, di lasciare che i ricercatori facessero il loro mestiere e quantomeno indagassero su quello stranissimo incendio cerebrale.
Poi, all’inizio del 2017, un’altra svolta. Merito di un ricercatore cocciuto quanto Nutt: Bryan Roth, chimico e distinguished professor di Protein Therapeutics e Translational Proteomics dell’Università del North Carolina, a Chapel Hill. Roth, che da almeno vent’anni inseguiva con ogni mezzo l’obiettivo, ha descritto e mostrato per la prima volta sulla rivista Cell il modo in cui l’Lsd si lega al recettore della serotonina, suo bersaglio naturale. E lo ha fatto sorprendendo tutti, perché si tratta di un modo originale, atipico e diverso da quello in cui la serotonina stessa si lega a quel recettore. Roth ha mostrato insomma un’ulteriore fotografia, inedita e inattaccabile perché cristallografica; un’immagine tridimensionale che nei prossimi anni consentirà non solo di spiegare cosa davvero succede, ma anche di capire come ottenere sostanze simili all’Lsd che siano però totalmente sicure e con effetti più controllabili. Un’altra scoperta fondamentale.
Accanto a questi dati sperimentali, solidi e chiari, negli ultimi anni – con una macroscopica accelerazione a cominciare dalla seconda metà del 2016 – sono andati accumulandosi da una parte numerosi studi clinici su diverse patologie e sindromi psichiatriche e dall’altra molte testimonianze, aneddotiche ma sorprendentemente simili, che stanno costituendo un quadro generale omogeneo: l’Lsd e la psilocibina (principio attivo dei funghi, strutturalmente molto simile all’Lsd) sono in grado di azzerare molti tipi di dipendenze, di combattere le emicranie gravi, di intervenire sulle depressioni resistenti ai farmaci o non trattabili (come quelle dei malati terminali) e probabilmente di fare molte altre cose. Il tutto a dosi bassissime e con somministrazioni singole o comunque circoscritte, i cui effetti sembrano durare anni senza dare alcuna forma di dipendenza, ed essendo del tutto reversibili nelle manifestazioni più immediate e bizzarre di alterazione della coscienza.
In più costano pochissimo, anche se questo non è un vantaggio dal punto di vista della ricerca, perché la maggior parte delle sostanze oggetto di studio non è coperta da brevetto, e nessuna azienda ha interesse a investire su farmaci che non rendono e che per di più potrebbero essere efficaci con una sola somministrazione. Ma Nutt e tutti gli altri ricercatori ostinati ed eretici come lui non se ne curano, anzi stanno vivendo quello che è già stato ribattezzato Psychedelic Renaissance, “Rinascimento psichedelico”, espressione probabilmente mutuata da uno dei manifesti della Summer of Love del 1967. Questa rivoluzione negli studi potrebbe non solo introdurre nuove terapie per malattie gravi e invalidanti, ma anche fornire una visione del tutto innovativa del funzionamento del cervello e della coscienza. Il che, visti i progressi dell’intelligenza artificiale e le prospettive future ancora tutte da definire, rappresenta una possibilità che sarebbe bene non trascurare di esplorare.
Ma il Rinascimento attuale non è nato una decina di anni fa per un guizzo creativo di ricercatori come David Nutt: è invece la declinazione moderna di una storia iniziata nel 1943, con la scoperta da parte di Albert Hofmann delle curiose caratteristiche della dietilammide-25 dell’acido lisergico.
Nei tre eroici decenni successivi, l’Lsd è stato studiato a fondo, prima come uno dei tanti psicofarmaci che si stavano affacciando nel panorama della nascente psichiatria farmacologica, poi come potente facilitatore del dialogo tipico della psicoanalisi, quindi come straordinario moltiplicatore di esperienze creative, mistiche e artistiche, e infine come possibile terapia per situazioni specifiche come quella dei malati terminali o degli alcolisti. In quegli anni pionieristici, in diversi luoghi molti hanno assunto, studiato e sperimentato con entusiasmo l’Lsd e altri composti simili, quali la psilocibina. Ma lo hanno fatto secondo i canoni dell’epoca, raccontando i casi di singoli pazienti in riviste scientifiche scritte nelle rispettive lingue e lette solo da pochi colleghi, e tralasciando i pi. elementari controlli. Si usava così, allora. Ma questo modo di procedere ha reso tutto quell’immenso lavoro – bloccato ovunque di colpo tra il 1967 e il 1971 prima che se ne potessero trarre conclusioni affidabili – poco più che carta straccia.
L’Lsd ha inoltre scontato, e ancora sconta, il fatto di essere arrivato in un momento complicato della storia del Novecento, ovvero pochi anni dopo la seconda guerra mondiale, e di aver conosciuto la sua massima diffusione durante un’altra guerra devastante, quella del Vietnam, nei confronti della quale probabilmente la fuga verso uno stato alterato di coscienza è sembrata a migliaia di ragazzi la via più immediata per rimuovere, almeno per qualche ora, la realtà. A diversi governi è invece parsa una via da chiudere per sempre, a ogni costo e con ogni mezzo: non solo cancellando qualunque programma di ricerca, ma anche incarcerando chi osava continuare a studiare quelle sostanze sovversive. Il messaggio doveva arrivare forte e chiaro a tutti.
Gli inutilizzabili dati raccolti allora, però, hanno costituito una straordinaria fonte di ispirazione per chi non ha mai smesso di credere nelle potenzialità degli psichedelici e per chi ha imparato a conoscerli solo di recente. È stato ripartendo da lì che si è arrivati alle odierne ricerche. Le quali, in una nemesi forse tardiva ma comunque fruttuosa, stanno riconfermando praticamente tutte le intuizioni dei pionieri.
In sintesi, ciò che sta emergendo è che esistono sostanze – tra le quali soprattutto l’Lsd e la psilocibina – capaci di innescare una profonda riorganizzazione delle connessioni tra cellule nervose; queste cellule, superato lo shock, sembrano tornare a un livello simile a quello del cervello del neonato (secondo una delle spiegazioni fornite da Carhart-Harris), per poi ripartire da un substrato diverso e ripristinare il funzionamento classico con declinazioni inedite.
Ciò che determinano è insomma una Ego dissolution, come l’ha chiamata per primo Albert Hofmann: una dissoluzione dell’Io sofferente seguita da una rinascita che, ben lungi dall’essere solo la continuazione della psicoanalisi con altri mezzi (ma è anche quello, tra l’altro), potrebbe fornire nuovi strumenti terapeutici e scardinare diverse certezze della neurologia e delle neuroscienze.
Le possibilità e le prospettive che si stanno aprendo sono enormi. A patto che lo stigma culturale ancora vitalissimo, per quanto ormai ridicolmente vetusto, non renda il Rinascimento impossibile, chiudendo ancora una volta le porte della percezione e facendo ripiombare questi studi nel più oscuro Medioevo.
Estratto da Lsd. Da Albert Hofmann a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente di Agnese Codignola (UTET, 2018).