N el mondo antico Babilonia è sempre stata considerata un luogo oscuro: paradigmatica per la sua negatività sia nella prospettiva geometrico-politica con cui la inquadrava la cultura greca che in quella religioso-morale offerta dalla prospettiva giudaico-cristiana, la città principe della Mesopotamia era il prodotto concreto di un mito negativo. Prima capitale del proprio regno, per finire poi inglobata nell’Impero Persiano, agli occhi dei Greci Babilonia era la rappresentazione delle debolezze e delle lascivie dei popoli d’Oriente, di ciò che avviene quando le forme e i vizi si espandono senza un freno o una mediazione, dati dalla ragione. È Eschilo, il primo fra i tragediografi del Quinto secolo, a raccontarci di come le genti “frammiste” dei Persiani e la schiera ricchissima ma confusa dei Babilonesi nulla abbiano potuto contro la coesione greca che, sotto un unico grido di guerra, diede esito alla vittoria di Salamina.
L’immaginario greco genera così una dicotomia insanabile: quella che oppone unità a molteplicità, compattezza a incoerenza, logica a irrazionalità, forma chiusa a forma aperta. È infatti nel solco dell’aspra avversione che i Greci avevano per l’infinito che si inscrivono anche le considerazioni su Babilonia fatte da Erodoto e Aristotele, quando i due narrano di come, a causa dell’eccessiva grandezza della città assediata dai Persiani, i cittadini al centro di essa, ignari che i nemici avevano ormai varcato le mura da un lato e presto li avrebbero conquistati, seguitavano a ballare e divertirsi in onore di una festività in corso.
Per Aristotele, in particolare, questa immagine rimanda a come non sia semplice definire l’identità di chi abita un territorio rispetto all’agglomerato urbano in cui vive quando questo si amplia oltre misura. Non bastano delle mura, dei confini netti, continua Aristotele, per determinare l’identificazione di uno spazio ipertrofico: al suo interno, perdendo la propria posizione per così dire geografica, si perde se stessi e si perdono anche le proprie facoltà. E infatti per la civiltà della polis, saldamente ancorata all’idea di centro e di confine, l’orrida Babilonia non poteva che essere destinata a capitolare.
Proprio però quest’immagine babilonese di una formazione urbana della portata di una nazione più che di una città sembra essere la perfetta condensazione simbolica delle metropoli contemporanee o delle conurbazioni regionali. Passati infatti dal mondo della polis a quello della megalopolis troviamo oggi difficile realizzare quell’obiettivo di felicità e benessere, vagheggiato sempre da Aristotele, come fine ultimo della vita associata nella città, e mentre le crisi del nostro tempo divampano, appare sempre più chiaro come il transito verso un futuro equo e sostenibile passi attraverso una rivoluzione degli spazi urbani, del nostro modo di concepirli e di abitarli.
Appare sempre più chiaro come il transito verso un futuro equo e sostenibile passi attraverso una rivoluzione degli spazi urbani.
È stato Jean Gottmann nel 1961 a teorizzare il concetto di “megalopoli”, individuato a partire da una base quantitativa di abitanti, ma è nella definizione di “città globale” di Saskia Sassen che vanno rintracciati i nodi problematici della contemporaneità. Nel suo saggio Le città nell’economia globale (1997), Sassen supera e integra le definizioni di Gottmann sostenendo come non sia sufficiente un criterio quantitativo a individuare e connotare le megalopoli contemporanee, ma si renda necessario osservarne il peso di comando all’interno di una rete di intersezione tra fenomeni economici, politici e culturali. Alle suggestioni di Sassen seguiranno poi molti altri studi su queste “Babilonie” odierne – in particolar modo quelli del geografo Allen Scott e della formulazione del concetto di città-regione – al centro dei quali, però, resta un interrogativo: posto l’impatto energivoro insostenibile in termini ecologici e sociali di queste formazioni urbane, come è possibile, soprattutto per chi le amministra, gestire questi territori?
Una risposta sembra giungere dall’Europa dove a Parigi, sotto l’amministrazione della sindaca Anne Hidalgo, la capitale francese ha conosciuto una stagione di inaspettata metamorfosi. Le ragioni di questi cambiamenti, sono da ricercare nelle teorie di Carlos Moreno, fondatore del Centro di ricerca per l’innovazione territoriale della Sorbona, e in particolar modo nell’idea della “città dei 15 minuti”, formulata a partire dal 2019 e confluita poi in un libro con lo stesso titolo, ora tradotto in italiano (add, 2024). Sulla scia delle teorie di Henri Lefebvre e del cosiddetto diritto alla città, ossia quel diritto trasversale dei cittadini ad una dignità abitativa, ma ispirandosi anche le teorie di Lewis Mumford e Jane Jacobs, precursori dell’idea di una “città vivente” che privilegi le relazioni tra abitanti e luoghi, Moreno articola una teoria incentrata al diritto di “vivere in città”, riformulando il modo in cui concepiamo, costruiamo, occupiamo e attraversiamo gli spazi urbani.
Moreno sottolinea infatti come la capacità di reinventare il mondo transiti obbligatoriamente dal fattore urbano e come sia fondamentale la facoltà di immaginare luoghi differenti in cui vivere. La centralità del discorso urbano come referente privilegiato di un cambiamento complessivo, oggi, deriva infatti dall’ampiezza di ambiti di cui esso partecipa. È assodato ormai che la maggior parte della popolazione mondiale vive all’interno di spazi urbanizzati e che questi appaiono sempre più vasti, al punto da trascendere le singole città per prodursi in città-regione: modello della città vasta è il Corridoio del Tokaido in Giappone, che in poco più di 1300 chilometri consta di 105 milioni di abitanti, l’80% della popolazione nazionale nel 6% di territorio. Ma c’è di più: la città oggi è sogno, aspirazione, immaginario, così come povertà, inquinamento e malessere. Come scrive l’architetto e urbanista Paulo Mendes da Rocha:
è qui che, oggigiorno, avvengono freneticamente i cambiamenti, l’affettività si risolve e si manifesta sotto dimensioni inaspettate, è qui che si fa lo spettacolo, qui hanno sede i giornali, le televisioni, le università, qui avvengono gli scambi di informazioni. Qui la cura di noi stessi, la comprensione del significato del lavoro, le politiche economiche, le ragioni della classe lavoratrice si sovrappongono ad uno scenario in cui la ricchezza è costruita per se stessa. Questo luogo è la città, la polis, il luogo politico, la tribuna della vita moderna.
Le città globali, le città-regione, le megalopoli non hanno più nulla in comune con l’idea di città da cui discendiamo, come in Occidente poteva essere tanto la polis quanto il comune medioevale: non sono limitate da confini certi, non rappresentano in alcun modo un singolo gruppo culturale, non sono più in relazione solamente al territorio su cui sorgono, ma colloquiano col mondo intero. Rilevando queste contraddizioni, Moreno osserva nel suo saggio come a partire soprattutto dagli anni Settanta sia stata la prospettiva della città come territorio di sviluppo e assorbimento dell’economia capitalista a diventare la causa delle espansioni territoriali di cui parliamo, esse stesse simbolo di un’ulteriore contraddizione. Infatti, a un gigantismo di ordine topografico che ci illustra una città in crescita iperbolica, corrisponde un’erosione sul piano funzionale della stessa, perché le sue classiche funzioni (coordinare, controllare, dirigere il territorio) sembrano assottigliarsi e concentrarsi sempre di più in un numero limitato di aree del globo.
Con l’idea di ‘città dei 15 minuti’ Moreno articola una teoria incentrata al diritto di vivere in città.
In questo movimento disarmonico tra estensione e concentrazione, Moreno intravede non solo l’essenza delle città postindustriali, ma anche il nodo su cui dover intervenire. Se infatti lo spazio urbanizzato delle città globali – seguendo le definizioni di Sassen – risulta connotato non solamente dalla continuità del tessuto edilizio, ma appare funzionalmente individuato da flussi di persone, denaro e merci, esso si configura primariamente come ciò che il geografo David Harvey ha chiamato “urbanizzazione del capitale”, rendendo evidente come nel momento storico di massimo slancio edilizio ed espansione fisica la città entri in crisi riguardo il suo compito originario: incarnare la prospettiva sul mondo di chi la abita e farsi strumento di conoscenza, rendendo i propri abitanti sempre più simili ai cittadini di Babilonia, ignari di tutto.
La megalopoli capitalista nasce da un progetto basato sul saccheggio e sulla speculazione che rimuove in primo luogo i suoi abitanti e la natura, in un’azione urbana volta al profitto più che al benessere di chi la vive. Se è vero infatti che la città è quel luogo che sintetizza la concretezza dell’edificato con il simbolico e l’esperienza di chi la compone, la contemporaneità sembra aver abbandonato questi ultimi aspetti in virtù solamente di un’espansione materiale. La città capitalista, oggi, è uno spazio che mira ad esistere senza cittadini, necessitando solo di consumatori – e si noti come a questa postura siano legate le trasformazioni territoriali di molte metropoli in materia di gentrificazione, turistificazione, foodificazione e così via, processi che hanno come ricaduta l’ampliarsi di una crepa tra amministrazione, territorio e popolazione, ledendo i diritti dei cittadini residenti.
In tale dimensione urbana di scollamento tra abitanti e centri di potere, di dilatazione fisica e rarefazione funzionale delle città, scrive Moreno, “i principi di territorialità e prossimità sfumano, lasciando il posto ai mezzi di trasporto di massa, la metropolitana, i treni urbani ed extraurbani o l’auto, simbolo di potere e di successo sociale e professionale”. La dimensione temporale della vita metropolitana prende insomma il sopravvento su quella spaziale, in un cambiamento di dinamiche nato con l’industrializzazione e tuttora in corso che vede il tempo come un bene di lusso. In questo stato di cose, i dubbi che restano sono molti e tutti particolarmente ardui da sciogliere: è possibile invertire, o quantomeno arginare, il corso di un simile processo? Possono le megalopoli, allo stato attuale, smettere di crescere? Possono rispondere a logiche urbane differenti dalla capitalizzazione senza controllo? Esistono proposte per trasformare questi spazi? E in che misura sono attuabili?
La megalopoli capitalista nasce da un progetto basato sul saccheggio e sulla speculazione.
In mezzo a questi interrogativi, si deve ammettere che Carlos Moreno, lavorando insieme alla sindaca Hidalgo di Parigi, ha fornito una strategia che si è dimostrata efficace nella gestione della metropoli francese, innestando un cambiamento reale a partire dalla pandemia. E la prospettiva di rinnovamento urbano promossa da Moreno si configura proprio a partire dalla riconsiderazione della dimensione temporale della città, prima ancora che di quella spaziale: ripensare il modo in cui la metropoli assorbe il tempo dei suoi abitanti per rimodellare lo spazio a partire da nuove coordinate. In accordo con le soluzioni di sostenibilità ed equità che permettano di affrontare la presente crisi ecologica, la quale non può essere ignorata in termini di città, Moreno torna a farsi una domanda semplice ma cruciale: in che città vogliamo vivere? A produrre questo interrogativo, però, è un’altra questione che pone l’autore: perché ci muoviamo all’interno di una città? Attraverso quali spazi e con quali mezzi lo facciamo? La risposta della “città dei 15 minuti”, nella sua apparente semplicità, tende non solo a fornire soluzioni a tali domande, ma anche a minare profondamente le coordinate dell’urbanesimo moderno che separa lo spazio residenziale dal lavoro, dal commercio, dal tempo libero.
Per Moreno, la città va ripensata attorno alle esigenze dei suoi abitanti che devono essere in grado, scrive, di poter accedere alle sei funzioni sociali urbane fondamentali (vivere, lavorare, rifornirsi, curarsi, imparare, divertirsi) impiegando un tempo massimo di 15 minuti all’interno di un perimetro spaziale ridotto. Di certo una rivoluzione di complessità direttamente proporzionale alla vastità del territorio su cui si intende applicare, al punto che in materia di città-regione e territori più ampi il perimetro proposto da Moreno si amplia di altri 15 minuti arrivando alla mezz’ora. Inoltre, in tale discorso andrebbe rilevata la resistenza di determinati territori – ad alto tasso di povertà o ad alta determinazione culturale – a un processo di rimodellamento ambientale imposto dalle amministrazioni: le città sono tanto disposte alla metamorfosi quanto talvolta ostinate nel mutare le proprie forme. Tuttavia, a questi ostacoli Moreno oppone una fiducia nel dialogo politico attraverso un’idea di città in cui il potere non cala dall’alto le sue direttive, ma si apre a una collaborazione tra le parti e a una partecipazione alle scelte urbanistiche sempre più estesa ai cittadini.
La città in questo modo subisce ulteriori modifiche puntando alla de-mobilità e riconfigurandosi come spazio di prossimità.
La città in questo modo, secondo Moreno, potrebbe subire ulteriori modifiche puntando alla de-mobilità e riconfigurandosi come spazio di prossimità. Contro l’anonimato, l’angoscia, la solitudine e la corsa incessante del vivere in città, l’idea di prossimità permetterebbe di modellare spazi a misura d’uomo configurati come reticolari e de-centralizzati. È il modello della città policentrica che guarda allo spazio cittadino non più come monofunzionale (con un centro e diverse zone specializzate) ma a un’ibridazione complessa dei luoghi, sostenuta per Moreno da quattro aspetti fondamentali. Di questi i primi tre – vicinanza, densità e diversità – operano in maniera sinergica: l’idea di una città simile vede la vita svolgersi in spazi urbani condivisi, in cui l’effettiva densità si traduce in inclusione, presenza associativa, iper-vicinato. Tutto ciò a sua volta presuppone una partecipazione degli abitanti all’uso e alla progettazione degli spazi, che mirino a sostenere le categorie sociali più fragili, alla parità di genere e alla valorizzazione culturale. Da ultimo, Moreno non manca di rilevare il ruolo della tecnologia nel quarto aspetto che definisce “ubiquità”.
Nel ripensare gli spazi diventa fondamentale il ruolo della tecnologia – intesa come strumento al servizio del cambiamento e non più come alleato subdolo del capitalismo predatorio da piattaforma – in quanto mezzo per creare legami sociali, favorire la comunicazione e inventare nuovi modelli democratici. Moreno insiste particolarmente su quest’ultimo aspetto, rilevando come attraverso una regolamentazione locale, il digitale possa favorire il dialogo tra gli utenti di un territorio e i suoi amministratori anche in fase progettuale, offrire miglioramenti nell’accesso alle funzioni sociali indispensabili, diversificare gli usi delle infrastrutture esistenti. Quest’amalgama di fattori non solo potrebbe fare fronte alle dimensioni fuori controllo delle città, favorendone il policentrismo e la gestione amministrativa, ma risulterebbe in grado di generare una coscienza dell’abitare capace di svincolare progressivamente i luoghi dalle logiche del mercato e dell’urbanizzazione capitalista (ripensando le relazioni col settore privato, combattendo la mercificazione e salvaguardando l’interesse delle comunità), di difenderne il servizio pubblico, tornando a concepire la città come spazio di espressione di chi la vive.
Oltre la dicotomia produzione-consumo di massa che ha informato la costruzione delle città moderne, Moreno intende dare voce così a una territorialità alternativa che rimetta al centro il cittadino e il tempo di vita che esso investe. Nel solco di una città organica, cara ai principi del “New Urbanism”, questa strategia di ripensamento degli spazi prende nome di crono-urbanismo che fa della temporalità e della prossimità risorse utili alla qualità di vita e alla sostenibilità ambientale della città. È una strada lunga, chiosa Moreno, che ha bisogno di ricerca e analisi dei territori, esaminando e conoscendo le risorse di cui si può beneficiare, ma, alla prova dei fatti, la città dei 15 minuti è una strategia politica e sociale in grado di riportare il conflitto produttivo all’interno degli spazi urbani nel nome di una rivendicazione legittima a città più giuste e meno impattanti.