L’
origine del tormentato rapporto tra uomo e serpente – “la bestia più astuta fatta dal Signore Dio”, Genesi 3,1-13 – si perde nella notte dei tempi. Molti considerano la fobia per i serpenti come una caratteristica innata della specie umana, un tratto selezionato dall’evoluzione per metterci in guardia dal fatto che molti di questi animali sono velenosi. Gli autori di uno studio pubblicato qualche anno fa sul Journal of Experimental Child Psychology, sostengono che non si tratti esattamente di una paura innata: da neonati abbiamo una forma di “attenzione” maggiore nei confronti dei serpenti, che si trasforma in paura solo successivamente, a causa di condizionamenti culturali.
Balaji Mundkur, biologo e storico dell’arte, autore di The Cult of the Serpent: An Interdisciplinary Survey of Its Manifestations and Origins, nel 1983 scriveva che “il fascino e il terrore del serpente non nascono solo dalla paura razionale del veleno, ma anche da stimoli psichici meno comprensibili, radicati nell’evoluzione biologica dei primati […] e dovuti alla mera vista dei suoi movimenti sinuosi”. D’altra parte la paura è una delle caratteristiche più importanti in chiave evolutiva, è quella che permette agli animali di reagire rapidamente al cospetto di un pericolo e necessita quindi anche di una componente irrazionale, istintiva. Secondo Mundkur sarebbe proprio questa paura primitiva e viscerale ad aver determinato l’affermazione del serpente come uno dei più antichi e diffusi simboli di culto in quasi tutte le civiltà e religioni.
La nostra paura primitiva e viscerale ha determinato l’affermazione del serpente come uno dei più antichi e diffusi simboli di culto.
In un testo sacro di 5.000 anni fa, Enmerkar e il signore di aratta, gli antichi Sumeri narravano di un tempo in cui “Non c’erano serpenti, non c’erano scorpioni […] nessuna paura, nessun terrore”. E avvicinandoci ai giorni nostri esistono decine di altri esempi: il serpente-totem degli aborigeni Australiani; il Quetzacoatl, dio serpente piumato diffuso nelle civiltà precolombiane; il Nehustan, serpente di bronzo forgiato da Mosè (dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina) per salvare gli israeliti dal veleno dei serpenti inviati da Dio come punizione; i serpenti-drago delle culture cinesi e giapponesi e molti altri ancora.
I serpenti fanno parte dell’iconografia religiosa da millenni, in molti casi nel ruolo di protagonisti di riti sacrificali o più raramente in cerimonie “a lieto fine” come quelle dei Moki (o Hopi), un popolo di nativi americani che praticava la danza con i serpenti vivi. L’antropologo Aby Warburg, nel libro Il rituale del Serpente (in Italia per Adelphi, traduzione di Gianni Carchia e Flavio Cuniberto), racconta di una cerimonia non violenta che si protraeva per giorni nei villaggi di Walpi e Oraibi (nell’attuale Arizona), durante la quale i serpenti, circa un centinaio di diverse specie tra cui crotali e altri velenosi, erano trattati con grande rispetto. Al culmine della cerimonia i danzatori Moki afferravano i serpenti con la bocca e dopo circa mezz’ora scendevano in pianura per liberarli e inviarli come messaggeri di buon auspicio e portatori di pioggia.
I rituali dei Moki, descritti da Warburg quasi un secolo fa, appaiono come qualcosa di lontano nel tempo, testimonianze arcaiche di un approccio magico alla natura ormai abbandonato. Eppure ancora oggi, nel 2019, esistono delle cerimonie religiose che prevedono l’utilizzo dei serpenti vivi. L’esempio probabilmente più incredibile è quello dello snake handling, un rito praticato da alcune chiese protestanti delle comunità rurali degli Stati Uniti.
Snake handling
In una chiesetta di campagna in Kentucky, un pastore predica mentre una band suona dal vivo. Alcuni serpenti velenosi vengono passati di mano in mano e si uniscono, loro malgrado, alla danza delirante dei fedeli. È il rito settimanale dei seguaci della Full Gospel Tabernacle in Jesus’ Name church, una piccola comunità religiosa di matrice protestante che pratica lo snake handling: la manipolazione di serpenti velenosi durante le cerimonie. Cody Coots, figura controversa, che è stato per 4 anni pastore della comunità, mi racconta l’esperienza così: “non è questione di coraggio ma soltanto di fede e religione, è tutto scritto nella Bibbia (Marco 16:18) altrimenti non lo farei. A volte provo paura, ma bisogna saper riconoscere il momento giusto per farlo e lasciare in pace i serpenti. Devi aspettare che sia Dio a dirtelo, se aspetti la sua voce andrà tutto bene secondo la sua volontà, altrimenti c’è la possibilità di essere morsi.”
Nel 2018 qualcosa dev’essere andato storto, e durante una cerimonia Cody è stato morso all’orecchio da un serpente a sonagli. In un primo momento ha continuato la celebrazione come se niente fosse, con la camicia insanguinata e il serpente in mano. La situazione però è peggiorata velocemente e Cody ha seriamente rischiato di morire; si è ripreso solo dopo una lunga riabilitazione. “È stato un errore mio, era una di quelle volte in cui la voce non mi aveva detto di manipolare i serpenti e invece io ho preso l’iniziativa. Quando è successo ho pensato che stavo per morire e poi ho ringraziato Dio di non essere morto, è stata una grande lezione”.
Continua: “Solitamente ti arriva addosso una sensazione che non ti fa più avere paura di nulla, senti una voce che ti guida e molto spesso ti dice anche quanti e quali serpenti maneggiare. Diverse volte ho lasciato un serpente dentro la teca perché la voce mi ha detto che avrebbe potuto mordermi. Lui ti dà sempre delle istruzioni che devi seguire secondo la Sua volontà.”
Lo snake handling viene praticato oggi in più di 125 chiese in tutta l’America del Nord.
Questa volontà non sembra però facilmente intellegibile, e di incidenti simili a quello di Cody ce ne sono a centinaia, compreso quello che nel 2014 è costato la vita a suo padre, Jamie Coots, morto in seguito al morso di un serpente a sonagli durante una celebrazione.
“È stato un momento difficile, ma questa era la Sua volontà e va bene così. Quando mio padre è morto sono stato costretto a diventare pastore, ma quello è un lavoro per il quale deve essere Dio a chiamarti, non gli uomini. Oggi non sono più un pastore, il mio posto l’ha preso mio nonno, che con l’aiuto di Dio ha fatto davvero un ottimo lavoro. Avrebbe dovuto sostituirmi fin dall’inizio, alla morte di mio padre. Comunque pratico ancora lo snake handling, solo due volte al mese anziché tre volte a settimana.”
Quella legata allo snake handling è una devozione che supera evidentemente i limiti della razionalità e dell’istinto di sopravvivenza, forte di una storia centenaria e sostenuta da numerosi seguaci concentrati principalmente nel sud-est degli Stati Uniti. Il movimento nacque nel 1909 nella regione degli Appalachi, grazie al pastore George Went Hensley, che adottò un’interpretazione letterale di alcuni passi della bibbia: “…prenderanno in mano dei serpenti…”(Marco 16:17-20); “Ecco, io v’ho dato la potestà di calcar serpenti e scorpioni, e tutta la potenza del nemico; e nulla potrà farvi del male.” (Luca 10:19-29).
Convinti da queste parole, nei decenni successivi i fedeli di numerose sette appartenenti a diversi rami della religione protestante cominciarono a maneggiare serpenti velenosissimi (principalmente serpenti a sonagli, testa di rame e mocassini acquatici) durante le cerimonie.
Come raccontavano il pastore Liston Pack e il suo seguace Clyde Ricker in un’intervista al New York Times del 1976, il serpente rappresenta il diavolo incarnato e il fedele che riesce a maneggiarlo diventa uno strumento di Dio per combattere il demonio. Il rituale diventa quindi un atto di devozione e una dimostrazione di quanto sia forte e ineluttabile la volontà di Dio che renderebbe i fedeli immuni al veleno dei serpenti. Non solo, in alcuni casi oltre a maneggiare i serpenti vengono messi in scena anche altri comportamenti pericolosi, come ingerire stricnina.
Finora lo snake handling è costato la vita ad almeno novanta persone, tra cui il suo fondatore, morto a sua volta nel 1955 per il morso di un serpente a sonagli. In molti casi le vittime non sono nemmeno state portate in ospedale, nel rispetto di quel fatalismo radicale che sta alla base del rituale. Nonostante questo, e nonostante in diversi stati siano presenti da decenni leggi che lo proibiscano, lo snake handling viene praticato in più di 125 chiese in tutta l’America del Nord.
Pur condividendone alcuni tratti, in confronto al rituale dei Moki lo snake handling sembra essere meno rispettoso nei confronti dell’animale (che difatti viene visto come simbolo del male), i pastori prelevano i serpenti in natura e li detengono in piccole teche in maniera più o meno permanente. Manca quell’aspetto di contatto con la natura che era ben presente nelle danze coi serpenti e che si può invece ancora rintracciare in un rituale oggi molto conosciuto, praticato in Italia: la processione di San Domenico a Cocullo.
La processione con i serpenti di Cocullo
Le immagini della statua di San Domenico che ogni primo maggio ciondola adornata di serpenti in processione per le vie di Cocullo sono ormai arcinote. Le radici di questa cerimonia sono pagane, e risalgono a oltre duemila anni fa, quando il popolo dei Marsi presidiava quei territori. Successivamente, con l’avvento del cristianesimo, il rito si è trasformato in una manifestazione di devozione paesana e oggi è diventato a tutti gli effetti un evento folkloristico, religioso e turistico di massa.
Spulciando fra gli archivi dell’Istituto Luce si scopre come già nella prima metà del Novecento la cerimonia fosse popolare. L’aspetto più bizzarro e interessante di questo rito (e più in generale del culto del serpente in quelle zone) è la confidenza dei locali nei confronti dei serpenti. Nei filmati d’archivio, ma anche in quelli recenti, si vedono uomini, donne e bambini maneggiare con grande scioltezza e rispetto serpenti anche di grandi dimensioni, almeno per gli standard del nostro paese.
Tuttavia questa familiarità con gli ofidi non deve ingannare: come testimonia l’antropologo Alfonso Maria di Nola, uno dei principali studiosi del culto di Cocullo, il serpente viene comunque considerato dai locali come un animale malvagio, che rappresenta la “natura ostile e matrigna”. Questo rapporto intimo con i serpenti è possibile solo grazie a una speciale protezione del Santo, a cui i Cocullesi tributano una dimostrazione di coraggio e di devozione, definita come “finzione rituale” dallo stesso antropologo.
Il serpente viene considerato come un animale malvagio, che rappresenta la natura ostile e matrigna.
Una figura fondamentale è quella dei serpari, uomini del paese che dalla fine di marzo battono le campagne alla ricerca dei serpenti da utilizzare in processione. Grazie a un permesso speciale concesso dalla Provincia, possono catturare e detenere temporaneamente i serpenti, cosa altrimenti vietata per le specie autoctone in Italia.
Daniele Risio è uno di loro, un serparo esperto che fin da quando era bambino ogni anno va a “caccia” di serpenti. “Io ho imparato da mio padre”, mi dice, “che con gli anni mi ha tramandato i suoi posti – e così hanno fatto gli altri genitori del luogo con i loro figli. Poi ho continuato da solo scoprendo anche nuovi posti di cattura, che non ho rivelato a nessuno”. In paese, da una certa età in poi, sono tutti dei serpari, quasi senza eccezioni. “Ogni abitante del paese che cattura un serpente per la prima volta, poi diventa un serparo. Fare il serparo non è un lavoro, anche se facciamo tanti chilometri sia a piedi che in auto, non ci sono ricompense. La nostra ricompensa è un cervone da mettere sulla statua il giorno della festa. Lo facciamo veramente per devozione al Santo”.
Una volta finita la festa, i serpari riportano i serpenti nel punto esatto in cui li avevano catturati, cercando di preservare il profondo rispetto che i cocullesi hanno nei confronti dei rettili. “Sono innocui e molto schivi, non attaccano e tendono a scappare. Da noi ci sono quasi tutte le specie presenti sul territorio nazionale, saettone, biacco, natrice, coronella austriaca, diverse specie di vipera e il cervone, appunto, che è veramente un rettile atipico, molto calmo. Purtroppo a causa di diversi fattori i cervoni, la specie più utilizzata in processione, sono diminuiti. Da un po’ di anni però abbiamo intrapreso un percorso di salvaguardia della specie con due erpetologi e un veterinario”.
Il rituale di Cocullo è l’unico sopravvissuto di una serie di pratiche basate sul culto del serpente che dal tardo medioevo avevano preso piede in tutto il centro-sud Italia, ma che in seguito allo spopolamento dei piccoli borghi appenninici e con la perdita di centralità della civiltà rurale sono andate scomparendo. Una traccia si può trovare nel piccolo borgo di San Vito, frazione del comune di Leonessa, in provincia di Rieti, in cui fino agli anni Settanta ogni 15 giugno si svolgeva una processione simile a quella di San Domenico, in cui, secondo la leggenda, erano i serpenti che si recavano da soli sopra la statua di San Vito.
I serpari derivano dai “ciaralli”, antichi guaritori che avevano un ruolo sacro, andato perduto. D’altra parte l’intero significato originario della processione oggi è indebolito dal fatto che i problemi della contemporaneità non sono più quelli di un tempo, legati ai raccolti, ai morsi dei serpenti e dei cani rabbiosi e al mal di denti (di cui San Domenico è protettore). In compenso il rituale ha mantenuto un valore simbolico di conciliazione con le forze del male e soprattutto una carica mistica e un fascino unici, motivo per cui è diventato un evento di enorme successo.
Al contrario dello snake handling, il rituale di Cocullo sembra insomma avere oggi soppresso quella paura radicata e irrazionale per i serpenti che nemmeno migliaia di anni di evoluzione sono riusciti ad eliminare. “Alle persone che vengono la prima volta, la nostra festa sembra una follia perché in tantissimi hanno ancora paura dei serpenti, ma dopo, alla fine, capiscono che la nostra visione è diversa, e non vedono l’ora di tornare”, mi dice Risio. “Non consideriamo il serpente come un essere malvagio, anzi… per noi è ormai il simbolo della nostra festa, tanto quanto San Domenico”.