D a diversi anni Mario De Caro si occupa di ripensare alcune delle categorie fondamentali della filosofia contemporanea: realismo e naturalismo. Le questioni di fondo di queste ricerche sono: perché dobbiamo difendere l’idea di “realtà” in filosofia e come bisogna intenderla? Qual è il contributo che la filosofia e le scienze possono dare per far progredire la nostra conoscenza della realtà, e in che modo possono collaborare? In che senso la conoscenza scientifica deve restare un punto di riferimento imprescindibile della filosofia, ma al tempo stesso non può esaurire i metodi e i concetti con qui conosciamo la realtà?
De Caro ha esaminato questi temi concentrandosi sul problema classico del libero arbitrio e sulla teoria dell’azione, pubblicando diversi volumi tra cui Il libero arbitrio. Un’introduzione (prima ediz. 2004), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (con Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori, prima ediz. 2010) e Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (con Maurizio Ferraris, 2012). Riguardo al rapporto tra scienze e filosofia ha elaborato, insieme a David Macarthur, la teoria del “Liberal naturalism”, attraverso diverse pubblicazioni tra cui Naturalism in Question (2004) e Normativity and Naturalism (2010).
In questa conversazione attraversiamo questi temi, a partire dal suo ultimo libro Realtà (Bollati Boringhieri, 2020).
REALTÀ, SCIENZA E REALISMI
Qualche anno fa hai curato, con Maurizio Ferraris, una miscellanea intitolata Bentornata realtà, in cui erano raccolti gli studi di diversi filosofi accomunati dalla difesa dell’idea di realtà in filosofia. Nel tuo ultimo libro difendi l’idea di “una realtà, internamente strutturata già prima che la mente la concettualizzi, che pone vincoli ineludibili alla correttezza dei nostri giudizi sul mondo esterno”. Come si è arrivati a preoccuparci di difendere questo presupposto della conoscenza?
Al centro della trattazione di Realtà c’è una dicotomia tra realismo ordinario e realismo scientifico. Come spieghi nel libro, il realismo ordinario “attribuisce realtà esclusivamente alle cose di cui possiamo avere esperienza” mentre il realismo scientifico afferma che “il mondo contiene soltanto le entità e gli eventi” – anche inosservabili – “che le scienze naturali possono descrivere e spiegare”. Tu poni l’origine di questa frattura nel conflitto tra
l’aristotelismo e il platonismo matematico di Galilei: il problema dei due realismi può essere fatto risalire quindi alla rivoluzione scientifica, che avrebbe prodotto una rottura ancora non assorbita tra sensi e realtà?
Nel libro esamini pregi e difetti dei due realismi. Entrambi sembrano capaci di cogliere un aspetto difficilmente sopprimibile della nostra esperienza. Il realismo scientifico ha dalla sua il forte sostegno dell’efficacia delle teorie scientifiche. Ma per stabilire una misura comune dei nostri giudizi sulla realtà, deve affrontare quello che chiami “problema della collocazione”, che concerne fenomeni costitutivi della concezione ordinaria del mondo come il libero arbitrio, le proprietà morali, la coscienza, che sembrano appunto non avere posto nel mondo descritto dalla scienza.
REALISMO LIBERALIZZATO E LIBERO ARBITRIO
La soluzione che proponi alla dicotomia tra i due realismi è il realismo liberalizzato, secondo cui possiamo ammettere che esistano metodi e oggetti diversi da quelli delle scienze naturali, ma dobbiamo costruire la nostra immagine del mondo sempre in accordo con i risultati delle migliori teorie scientifiche del presente. Come procede la “conciliazione” tra scienza e filosofia secondo questa concezione?
Un caso esemplare, di cui ti sei occupato a lungo, è il problema del libero arbitrio. Si tratta di un problema filosofico scientifico antico, che di nuovo ha avuto importanti sviluppi in base all’interazione con le scienze della natura, per esempio con il meccanicismo moderno e, nel Ventesimo secolo, con la meccanica quantistica. Prima di tutto ti chiederei di riassumere le principali opzioni in campo, che sono rilevanti per la discussione del libro, introducendo i termini determinismo, libertarismo e compatibilismo.
Un punto molto interessante è l’analisi degli esperimenti neuroscientifici come quelli di Benjamin Libet che proverebbero l’inesistenza del libero arbitrio. In questi esperimenti viene misurata una preparazione cerebrale di movimenti come la pressione di un pulsante che precede largamente la coscienza di prendere la decisione. In che misura questi esperimenti hanno influenzato la discussione filosofica sul libero arbitrio?
Nel più celebre dei suoi esperimenti, Libet chiese al soggetto sperimentale di compiere un semplice movimento come la flessione di un dito; questo movimento doveva essere compiuto spontaneamente, quando il soggetto abbia avvertito l’impulso a compierlo. Allo stesso tempo, il soggetto doveva controllare, usando uno speciale orologio, il momento esatto in cui avvertiva l’impulso a flettere il dito; nel frattempo, un’apparecchiatura misurava l’attività elettrica del suo cervello. Sulla base di centinaia di ripetizioni dell’esperimento, Libet osservò che i soggetti avvertivano l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima dell’azione. Il dato più interessante, tuttavia, è che 550 millisecondi prima del compimento di quest’azione (e dunque 250 millisecondi prima che il soggetto sia consapevole dell’impulso a flettere il dito) nel cervello dei soggetti si verificava un rilevante incremento dell’attività elettrica (Readiness Potential, ovvero “potenziale di prontezza”) che l’analisi statistica mostrava essere causalmente correlato all’esecuzione dell’azione.
Tutto ciò dovebbe indurci a concludere, secondo Libet, che l’atto volizionale in realtà ha una causa inconscia e dunque non si può essere definito libero nel senso che la tradizione filosofica ha dato a questo termine. Al soggetto resta però, secondo Libet, una sorta di “libertà di veto”, nel senso che nei 200 millisecondi che separano la consapevolezza dell’impulso a piegare il dito e l’effettivo compimento di quest’azione l’agente può decidere di interrompere la catena causale che porterebbe a tale azione. Molti interpreti, tuttavia, sono stati più radicali di Libet e hanno concluso che i suoi esperimenti dimostrano, o almeno suggeriscono l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero agire nel suo complesso. In realtà varie ragioni dovrebbero portarci a ritenere che gli esperimenti di Libet, per quanto interessanti e certo degni di analisi, non hanno conseguenze tanto ovvie per quanto riguarda la vexata quaestio del libero arbitrio. In primo luogo, bisogna considerare che un imponente filone della filosofia occidentale (il filone del cosiddetto “compatibilismo” che, in ambito teologico, include Agostino e Tommaso, e in età moderna Locke, Leibniz, Hume, Mill e molti contemporanei) ha sostenuto che la libertà è perfettamente compatibile con la determinazione e, anzi, secondo molti, addirittura la richiede. L’argomento è, nella sostanza, semplice: ciò che veramente conta nella nostra intuizione della libertà è che il soggetto possa fare quanto vuole fare; e, in questo senso, è irrilevante che la sua volontà possa essere predeterminata (come, secondo molti, gli esperimenti di Libet dimostrerebbero).
Contro il compatibilismo sono state mosse rilevanti obiezioni: ciò non significa però che lo si possa placidamente ignorare, come fanno invece quanti sulla base degli esperimenti di Libet concludono immediatamente che la libertà umana non esiste. Un analogo discorso si può fare per la famiglia di concezioni del libero arbitrio che si richiamano a Kant: secondo questo punto di vista, il discorso sulla libertà non va collocato al livello fenomenico ma su un piano puramente razionale, quello noumenico e, a questo livello, la libertà si dimostra condizione di possibilità della responsabilità morale e dell’imperativo categorico, dunque la sua realtà non può in alcun modo essere posta in dubbio. In tempi recenti sono stati sviluppati autorevoli tentativi di riprendere questa concezione in una direzione naturalistica lato sensu (per esempio da parte di Peter Strawson e John McDowell), e anche queste proposte non possono essere ignorate da chi voglia sostenere che gli esperimenti di Libet dimostrano l’illusorietà del libero arbitrio.
Come convincentemente argomentato da Maxwell Bennett e Peter Hacker (2003), l’esperimento di Libet si incentra sul momento in cui nel soggetto insorge la consapevolezza dell’impulso a piegare il proprio dito: in realtà, tuttavia, il darsi di tale impulso non è né condizione necessaria né condizione sufficiente di un’azione volontaria. Non è condizione necessaria (e dunque possono esserci azioni volontarie senza l’impulso a compierle) perché spesso quando compiamo volontariamente un’azione non avvertiamo alcun impulso a compierla: si pensi a quando, guidando, sterziamo per curvare o a quando, mangiando portiamo una posata verso la bocca o, ancora, a quando pronunciamo intenzionalmente una frase durante una normale conversazione. D’altra parte, la presenza dell’impulso ad agire non è nemmeno sufficiente per agire volontariamente: spesso, infatti, un tale impulso precede azioni non volontarie, come quando ci viene da starnutire o quando sbadigliamo di fronte a un interlocutore poco brillante. Inoltre, chi interpreta gli esperimenti di Libet come se dimostrassero che le nostre azioni apparentemente volontarie discendono in realtà da cause inconsce dimentica che in realtà prima dell’attivazione del “potenziale di prontezza” si dà un altro momento causalmente molto rilevante ai fini del compimento dell’azione: ovvero il momento in cui il soggetto sperimentale accetta di seguire le indicazioni dello sperimentatore. Può darsi che anche tale momento abbia dei determinanti inconsci, ma nulla nell’esperimento di Libet prova che le cose stiano così; dunque, sino a quando non verranno portate prove in questo senso, i fautori del libero arbitrio saranno autorizzati a sostenere che, nella situazione sperimentale libetiana, una decisione volontaria del soggetto sperimentale inizia la catena causale che lo porta a piegare il dito (in questo senso si può persino ipotizzare che sia quella decisione a causare l’insorgere del “potenziale di prontezza”). In ogni caso, diversi studi hanno messo in dubbio che gli esperimenti di Libet (e altri esperimenti simili condotti successivamente) siano in genere pertinenti per la questione del libero arbitrio.
Nel libro sostieni che, come ha suggerito Hilary Putnam, per risolvere la questione del libero arbitrio, bisogna prima di tutto imparare che ci sono tanti modi di rispondere alla domanda “perché?”. Puoi spiegarci di che si tratta?
Se, per esempio, la ragione dell’infarto viene chiesta a un fisiologo, la risposta si baserà sulla ricostruzione dei processi causali che hanno portato all’occlusione di un’arteria dell’infartuato; se a spiegare l’accaduto fosse invece il medico curante del poveretto, la causa dell’infarto potrebbe essere individuata, per esempio, nel fatto che il paziente non è stato diligente nell’assunzione dei farmaci che gli erano stati prescritti; uno studioso di statistica medica potrebbe fare riferimento ai fattori ereditari di rischio nella storia familiare dell’infartuato; un familiare potrebbe invece addossarsi la responsabilità dell’evento per non essere stato abbastanza convincente nello spiegare all’infartuato quali comportamenti avrebbe dovuto evitare; e così via. Tutte queste spiegazioni hanno carattere causale, ma sono molto diverse tra loro. E nessuna è la spiegazione corretta: tutte, prese nel giusto contesto, possono esserlo. Sono dunque i contesti in cui si cerca di spiegare un determinato evento a indicare quale tipo di spiegazione causale può essere, di volta in volta, adeguato allora scopo. In questo modo la nozione di causalità e quella di spiegazione sono intrecciate, ma nessuna delle due ha prevalenza sull’altra.
REALISMO, SOCIETÀ E POLITICA
Vorrei proporti due riflessioni sul significato della questione del realismo nell’attuale contesto sociale e politico. A un certo punto sottolinei un importante collegamento tra esercizio del libero arbitrio e istruzione. Mi sembra un punto in comune con la tradizione razionalistica, rappresentata per esempio da Spinoza e Leibniz, in cui si insiste sul fatto che maggiore conoscenza corrisponde a maggiore libertà. Puoi spiegarci come la pensi e perché si tratta di una questione attuale?
Pensi che la questione abbia un nesso con quello delle due culture, scientifica e umanistica, e con l’esigenza di avvicinarle nella formazione scolastica e universitaria?
A proposito del nesso tra scienza e realtà, sembra che la questione del realismo abbia un rilievo sociale e politico. Di recente si discute molto sul fatto che la rappresentazione del mondo sia condizionata dal meccanismo delle “bolle” sui social network, in cui ciascun individuo tende a trovare una conferma delle proprie concezioni, indipendente dalla rispettiva evidenza su cui queste si possono fondare. Secondo Shoshana Zuboff, il meccanismo dei social metterebbe a repentaglio la stessa libertà e autodeterminazione degli individui. D’altra parte proliferano teorie alternative a quelle scientifiche, accusate o sospettate di essere il frutto di interessi di “poteri occulti”, e questo finisce col produrre diffusi e radicali conflitti di opinione che hanno importanti conseguenze politiche. Secondo alcuni osservatori, a cui è data voce per esempio nel recente documentario The Social Dilemma, questa situazione favorirebbe una polarizzazione lacerante nella società e metterebbe a repentaglio la democrazia. È una situazione che ricorda quella che un secolo fa ispirò la nascita della “filosofia scientifica”, promossa da filosofi come Rudolf Carnap che miravano appunto a difendere uno spazio di ragioni universali e comuni in un’epoca di forti polarizzazioni ideologiche, irrazionalismo filosofico e crisi della democrazia. Pensi che il realismo filosofico possa o debba giocare un ruolo politico nel mondo di oggi?
Nel mondo ipercomunicativo dei social media tutti parlano di tutto, sempre. Il risultato è una cacofonia terribile, in cui il parere degli esperti è equiparato a quello dei neofiti e le discussioni degenerano spesso in risse da angiporto. Aristocraticamente, Umberto Eco scriveva che i social media “danno diritto di parola a legioni di imbecilli” (attirandosi così l’ira dei legionari). Insomma, chi deve tacere e quando? Chi deve rimanere in silenzio mentre gli altri parlano? La risposta è semplice: dipende dalle situazioni. Per ognuno di noi ci sono casi in cui dovremmo rimanere in silenzio – o, al massimo, dovremmo parlare con grande prudenza, rispettando l’opinione di chi ne sa più di noi. Le cose non vanno però affatto così. E la ragione è che nessuno di noi – nessuno! – sa veramente quale sono i propri limiti conoscitivi. Pochi anni fa, due psicologi, David Dunning e Justin Kruger, hanno individuato sperimentalmente una comunissima (anzi universale) distorsione cognitiva che si chiama, appunto “effetto Dunning-Kruger”. Detto in breve: più un individuo è incompetente in un determinato campo, meno se ne rende conto. E ciò spiega perché ci sono milioni di epidemiologi, di commissari tecnici, di esperti di scienze dell’ambiente, di critici d’arte e di politologi. In tutti questi campi chi dovrebbe tacere e ascoltare i veri esperti (o, almeno, dovrebbe interloquire con grande rispetto), spesso straparla, pretendendo che la propria opinione sia considerata tanto rispettabile quanto quella dei veri esperti.
Quindi bisogna semplicemente contenersi e affidarsi agli esperti?
Risultato: Umberto Eco aveva ragione. Internet dà la parola a legioni di imbecilli, che starnazzano invece di ascoltare chi ne sa di più. Solo che, a seconda dei casi, ognuno di noi può essere il legionario di turno.