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o un farmaco razzista non lo prendo, chiaro?” protesta un paziente afro-americano con il Dr.House, nel terzo episodio della seconda stagione della serie. “E sarebbe razzista perché aiuta più i neri che i bianchi?” ribatte il medico. “Stia a sentire”, obietta il paziente, “il mio cuore è rosso come il suo, e non ha alcun senso darmi una medicina differente”.
Si può essere “razzisti” a fin di bene? Gli sceneggiatori di Dr.House hanno riassunto così le polemiche che si scatenarono contro la Food and Drug Administration, l’agenzia regolatoria statunitense, quando nel 2005 approvò per la prima volta un medicinale in base a un criterio di “razza”. Il BiDil era costituito dall’associazione in dose fissa di due farmaci generici – per i quali cioè era già singolarmente scaduto il brevetto- e registrato solo per pazienti con scompenso cardiaco che si autoidentificassero come “neri”.
Dopo il rifiuto della stessa agenzia di approvare il prodotto per la popolazione generale, la decisione di accettarlo solo per le persone di colore era stata presa sulla base di un controverso studio clinico condotto soltanto su afro-americani e senza nessun riferimento a caratteristiche genetiche specifiche, ma solamente in base all’aspetto esteriore e al senso di appartenenza etnica. Naturale quindi lo scetticismo dei pazienti a cui veniva consigliato, e ovvio che scatenasse una disputa nel mondo scientifico: al di là del caso specifico, un’indicazione basata sulla “razza”, all’interno della specie umana, può avere fondamento scientifico?
Semplicemente, le razze umane non esistono
Per i biologi, gli antropologi, i genetisti e gli evoluzionisti, la questione è risolta da decenni, come hanno dimostrato a più riprese, tra gli altri, Richard Lewontin e Luca Cavalli-Sforza. Sulla base degli studi antropometrici, ma soprattutto quelli di genetica e di popolazione, semplicemente non si riescono a definire razze precise all’interno della specie umana, specie che mostra invece un gradiente continuo di diversità, proporzionale alla distanza geografica, ma senza limiti netti (il fatto poi che nessun “teorico delle razze” riesca a stabilire un numero preciso di razze umane – che vanno da 3 a oltre 100 a seconda di chi si ascolta – può essere presa come valida controprova).
Homo sapiens si è selezionato troppo recentemente e, a parte forse qualche eccezione in condizioni estreme, estinta o quasi, non ci sono sottogruppi umani rimasti isolati geograficamente dagli altri per un tempo sufficiente a consolidare una diversità abbastanza netta da poter essere definita come una “razza” a sé. Di fatto siamo tutti africani.
L’esperienza quotidiana, però, ci porta istintivamente a contraddire questa affermazione. Siamo convinti che le differenze nell’aspetto esteriore siano così evidenti da poter essere utili, per esempio, nell’identificazione di un individuo nel corso di un’indagine di polizia o nella medicina forense. È stato dimostrato da più di un secolo che siamo tutti vittime di un “effetto razza” per cui riconosciamo le differenze tra le persone più simili a noi e fatichiamo a distinguere tra loro le persone che ci somigliano di meno. Se siamo europei, asiatici o africani ci sembreranno tutti simili, rischiamo di pensare che un cinese sia vietnamita, o di scambiare un sudamericano per un filippino. E gli stereotipi socioeconomici e culturali fanno la parte del leone nel portarci fuori strada.
Il punto fondamentale è che le differenze fisiche all’interno di quelle che noi siamo portati a considerare “razze” più o meno omogenee, o addirittura tra due connazionali, possono essere maggiori di quelle che possiamo ritrovare tra due individui di “razze” diverse, nel senso che la variabilità genetica entro una popolazione è molto superiore a quella esistente se si considerassero le popolazioni come distinte in entità biologiche. Anche dal punto di vista antropometrico, ci potrebbero essere molte più differenze tra un somalo e un senegalese, uno scandinavo e un sardo che tra un masai e un norvegese. Se poi scendiamo a livello genetico, la conferma di questo dato di fatto diventa incontrovertibile: nella grande variabilità che rappresenta la ricchezza della specie umana, ci possono essere più differenze tra individui che empiricamente raggruppiamo all’interno della stessa razza, che tra individui di origine diversa.
Per i biologi, gli antropologi, i genetisti, gli evoluzionisti, la questione è risolta da decenni: semplicemente, non si riescono a definire razze precise all’interno della specie umana.
Alla base dell’equivoco sulle razze ci sono sicuramente ragioni culturali, storiche e politiche, ma anche il peso che diamo a caratteristiche immediatamente visibili, come il colore della pelle e dei capelli, rispetto ad altre meno evidenti, ma che possono essere più rilevanti in medicina e che non necessariamente vanno di pari passo.
Il colore scuro della pelle, per esempio, si è selezionato in tutte le zone tropicali ed equatoriali del globo come difesa dai raggi ultravioletti, a partire da mutazioni genetiche differenti, e non è in alcun modo legato all’essere proveniente dall’Africa. Può essere in parte protettivo dai tumori della pelle, ma rischia di far dimenticare che anche gli individui più scuri possono sviluppare un melanoma, che diventa anzi nel loro caso più difficile da individuare precocemente. In questo, come in molti altri casi, attribuire a un fattore razziale un minor rischio si può tramutare in uno svantaggio nell’attenzione che il medico, in tutta buona fede, presta a determinati gruppi di pazienti.
Medicina di razza
Eppure i medici, per quelle che credono essere ragioni pratiche, anche quando sono consapevoli di queste possibili trappole, tendono a essere meno categorici degli scienziati: molti pensano che, in maniera magari approssimativa, nella pratica clinica, riconoscere l’appartenenza a una popolazione con caratteristiche diverse da un’altra consenta di adattare i criteri diagnostici e gli approcci terapeutici. In molti si convicono che si possa parlare di “razza” senza essere razzisti, cioè riconoscendo una differenza che non implica alcun giudizio di valore, ma che è finalizzata a offrire a tutti le cure migliori in relazione alle proprie caratteristiche individuali. Un primo passo verso la medicina personalizzata di cui oggi si parla tanto, insomma.
Nella letteratura scientifica biomedica è comune usare il criterio della razza definito come tale, o come etnia, accanto all’età e al sesso, nella descrizione demografica e nella stratificazione dei pazienti sottoposti agli studi clinici. Anzi, come già accaduto con la medicina di genere, che ha preteso l’inserimento delle donne nei trial clinici, e l’analisi separata dei dati a loro riferiti, si richiede che siano sempre più coinvolti nelle ricerche individui di tutte le origini geografiche, per garantire che non si generalizzino i risultati ottenuti solo su uomini bianchi adulti.
Spesso in medicina si usa l’espressione “caucasico”, rifacendosi ancora alla classificazione di Homo sapiens in 5 razze compilata da Johann Friederich Blumenbach nel 1865 o “di origine europea”, contrapponendola a quella africana. Ma tutti gli altri? In molti lavori scientifici si distinguono addirittura pazienti “bianchi” e “non-bianchi”, mettendo in un’unica categoria giapponesi, africani, popolazioni indigene delle isole del Pacifico o del continente americano. Una classificazione chiaramente priva di qualunque significato scientifico, frutto di una visione eurocentrica del mondo, e di una ricerca biomedica ancora dominata dai centri europei e statunitensi. D’altra parte gli stessi afro-americani rappresentano una popolazione frutto di moltissimi incroci con persone di origine europea: se solo il carattere scuro della pelle e dei capelli non fosse dominante rispetto al chiaro, il numero di individui che oggi possono autoidentificarsi come “neri” sarebbe molto inferiore. La madre di Barack Obama, bianca, ha contribuito quanto il padre di origine africana al patrimonio genetico del figlio, ma nessuno ha mai messo in dubbio che il 44° presidente degli Stati Uniti sia stato il primo presidente “nero”.
Nella letteratura scientifica biomedica è comune usare il criterio della razza definito come tale, o come etnia, accanto all’età e al sesso, nella descrizione demografica dei pazienti sottoposti agli studi clinici.
La popolazione afro-americana su cui sono stati condotti la maggior parte degli studi clinici che comprendono persone “non bianche” è poi a sua volta un sottogruppo molto selezionato rispetto agli abitanti dell’intero continente africano: si tratta per lo più dei discendenti di persone provenienti da aree specifiche adiacenti alla costa occidentale del continente. Questi antenati sono inoltre stati sottoposti a un durissimo fattore di selezione durante la deportazione nelle navi negriere, in cui, per mancanza di acqua, mal di mare e infezioni gastrointestinali dovute all’affollamento, sarebbero sopravvissuti con maggiore facilità i soggetti geneticamente predisposti a trattenere liquidi e sali minerali. Da qui deriverebbe, secondo alcune teorie, la maggior predisposizione degli afroamericani a sviluppare ipertensione arteriosa. Niente a che vedere con geni comuni ad altre popolazioni di pelle scura, a cui quindi non si adatterebbe lo stesso trattamento.
Sulla base degli studi condotti negli Stati Uniti sulla popolazione afro-americana, per esempio, è consolidata in medicina l’idea che una classe di farmaci contro l’ipertensione, gli ACE-inibitori, siano meno efficaci nei “neri”, per cui ancora nel 2013 le linee guida per il trattamento dell’ipertensione dell’ottavo Joint National Committee statunitense (JNC 8) riportava una, per quanto moderata, raccomandazione, a tenere conto della “razza” nella scelta del trattamento. Se questa indicazione fosse però applicata a un paziente proveniente dal Corno d’Africa, lontanissimo da quelli su cui è stato studiato, solo perché ha la pelle nera, lo si priverebbe, per quanto involontariamente, di un farmaco che invece potrebbe fargli bene.
Differenze
Restano poi pregiudizi duri a morire. Uno studio pubblicato solo pochi anni fa dimostrava che tra studenti in medicina e specializzandi bianchi statunitensi persistono false credenze, come quella che gli afroamericani abbiano la pelle più spessa e una maggiore resistenza al dolore, il che li portava a prescrivere cure meno appropriate di coloro che invece erano in grado di riconoscere queste idee come miti inconsistenti.
Non c’è dubbio che alcune differenze esistano: gli studi epidemiologici ci mostrano per esempio una diversa frequenza di malattie nelle diverse parti del mondo o tra le diverse etnie di uno stesso Paese. A volte ci può essere una maggiore frequenza di portatori di alcune malattie genetiche all’interno di gruppi ristretti che tendono a sposarsi tra loro, come potevano essere certe comunità ebraiche. Ma è sempre più evidente che queste difformità dipendono molto più spesso da fattori socioeconomici e culturali che non genetici.
Lo dimostrano casi storici come lo studio del rischio cardiovascolare, basso in Giappone, ma elevato come per gli occidentali nelle stesse popolazioni di origine asiatica che vivono alle Hawaii o nei figli di coloro che si sono trasferiti negli Stati Uniti, adottandone i costumi e gli stili di vita. Più recentemente, uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association ha dimostrato che il maggior rischio di ipertensione arteriosa negli afroamericani rispetto ai bianchi è da attribuire agli stili di vita, e in particolare all’alimentazione tipica degli Stati del Sud, ricca di fritti e di sale. Cresce inoltre in tutta la letteratura scientifica la consapevolezza del peso delle disuguaglianze socioeconomiche e culturali sull’incidenza delle malattie e sull’aspettativa di vita: in altre parole, tornando all’esempio precedente, il colore della pelle di Malia e Sasha Obama, con ogni probabilità, non influirà sul loro rischio di malattia rispetto a quello di tutte le loro coetanee di origine europea. Ignorare le differenze, per quanto mediate da fattori socioculturali ed economici, non aiuterebbe a superare il gap che, per chi non è cresciuto alla Casa Bianca, ancora indubbiamente esiste.
Non c’è dubbio che alcune differenze esistano: ma è sempre più evidente che queste difformità dipendono molto più spesso da fattori socioeconomici e culturali, che non genetici.
Non bisogna avere tabù, o temere di usare una parola perché in passato ha avuto un uso discriminatorio. Il termine “razza” è richiamato dalla Costituzione e nel Codice deontologico dei medici, per mettere in guardia proprio da queste possibili implicazioni. La questione è un’altra: la ricerca condotta in questi decenni ci ha semplicemente dimostrato che il concetto di razza è scientificamente superato, scientificamente non sostenibile. Può essere sostituito, quando occorre, con il termine “etnia”, che comprende gli aspetti socio-culturali da cui dipendono innegabili differenze. E che va mantenuto, per valorizzare la diversità e mettere in guardia dal rischio sempre esistente di discriminazione. Occorre poi poter studiare le cause delle disuguaglianze che hanno un impatto sulle opportunità, la qualità di vita e la salute dei diversi gruppi di individui. Potremmo farlo senza una parola per definirli?
Per questo qualcuno ha recentemente proposto che il criterio dell’etnia rimanga negli studi scientifici, quando occorre, ma che in questi casi si spieghino sempre le ragioni per cui se ne tiene conto. In attesa di una medicina davvero personalizzata che davanti ai medici ci raggruppi sulla base dei geni che predispongono o proteggono dalle diverse malattie, che favoriscono o ostacolano la risposta a una cura. Indipendentemente dalle infinite sfumature nel colore della pelle o nell’aspetto dei capelli.