E rnul, North Carolina. Sono le 14:30 del pomeriggio di martedì 22 gennaio 2019 quando alla polizia della contea di Craven giunge una telefonata: è una donna in forte apprensione che racconta di aver smarrito suo nipote, Casey Lynn Hathaway, di soli tre anni. Casey stava giocando in giardino con due cugini, ma non è rientrato in casa insieme agli altri e 45 minuti di ricerche nei boschi che circondano l’abitazione non hanno portato nessun risultato. Si è perso, e in più il meteo non è dei migliori: la temperatura di notte potrebbe scendere poco sotto lo zero e sono previste piogge abbondanti.
Centinaia di persone tra soccorritori e volontari si mobilitano per ritrovare il bambino, viene allertato anche l’FBI, ma dopo due giorni non c’è ancora nessuna traccia di Casey. Giovedì 24 gennaio le ricerche vengono sospese per qualche ora a causa di piogge e vento troppo intensi. Poi, finalmente, la sera Casey viene ritrovato tra i rovi a circa 400 metri dalla casa della nonna. Ha trascorso 55 ore da solo, al freddo, nel bosco ma sta bene. Agli agenti e ai familiari dice: “mi ha aiutato un amico-orso”. Per gli inquirenti rimarrà una fantasia del bambino, ma se fosse la verità, come i familiari credono, la vicenda di Casey non sarebbe un caso isolato.
Mito
Di enfants sauvages, bambini adottati da animali, ne è piena la mitologia e la letteratura: Mowgli di Kipling, cresciuto tra i lupi e con l’orso Baloo, la pantera Baghera e il pitone Kaa; Tarzan di Edgar Rice Burroughs allevato dalle scimmie; Romolo e Remo allattati dalla lupa. Quest’ultimo è di certo il mito più famoso, ma neonati adottati da lupe si trovano anche nelle leggende sulla fondazione del popolo Turco, di quello Persiano, e in un paio di poemi, uno slavo e uno tedesco. Non solo: dalle cronache del 1300 fino ai giornali di oggi, e negli studi di scienziati del passato, si registrano circa una sessantina di “ragazzi selvaggi”, bambini smarriti nella foresta o nella giungla, scampati alla morte e ritrovati persino dopo anni. Non sanno parlare e vivono con scimmie, capre, pecore, cani randagi e persino orsi o lupi. Le loro storie hanno da sempre suscitato l’interesse del pubblico, ma cosa c’è di vero?
Tra la fine del 1600 e la fine del 1700 diversi scienziati si occuparono di questi strani casi. Primo tra tutti Carlo Linneo, che nella sua minuziosa opera di catalogazione di tutti gli esseri viventi, inserì anche alcuni ragazzi “tetrapus, mutus, irsutus”, cioè dall’andamento quadrupede, incapaci di parlare nel linguaggio umano e pelosi. A pagina 20 della decima edizione del Systema Naturae pubblicata nel 1758, Linneo classificò come Homo sapiens ferus sette ragazzi selvaggi. Tra questi c’era un ragazzo-lupo ritrovato ad Assia, in Germania, nel 1344 (Juvenis lupinus hessensis); un ragazzo-pecora irlandese (Juvenis ovinus hibernus) scoperto a metà del 1600; un ragazzo detto “hannoveriano” (Juvenis hannoverianus) perché recuperato nei boschi di Hannover nel 1725 e anche un ragazzo-orso (Juvenis ursinus lithuanus) trovato in Lituania nel 1661. Questa è l’unica testimonianza giunta fino a oggi, insieme a un’altra ugualmente dubbia risalente alla metà del 1700.
Dalle cronache del 1300 fino ai giornali di oggi, e negli studi di scienziati del passato, si registrano circa una sessantina di ragazzi selvaggi.
Dunque è davvero possibile che Casey sia stato “adottato”, per un paio di giorni, da un orso? In realtà non possiamo escludere del tutto che il bambino abbia incontrato un orso, ma che questo si sia preso cura di lui è un altro paio di maniche. Qualora Casey avesse incontrato un plantigrado si sarebbe trattato di un orso nero (Ursus americanus), il solo presente nel North Carolina orientale, grande all’incirca come un orso marsicano e quindi molto più piccolo dei più famosi orsi bruni americani: il grizzly e il kodiak. Un orso nero “in libera uscita” a gennaio non è cosa rara in North Carolina: qui, come nel resto del loro areale meridionale, giovani, maschi adulti e femmine non incinte di questa specie non vanno in letargo. Mentre, proprio in questo periodo, le femmine gravide partoriscono i cuccioli.
Dunque nel caso l’incontro sia davvero avvenuto, è probabile che l’orso o l’orsa non abbiano avuto reazioni aggressive proprio perché si trattava di un bambino, e al massimo lo abbiano evitato. La spiegazione a tale “tolleranza” la diede Konrad Lorenz quasi un secolo fa: tutti i cuccioli di mammiferi presentano certe caratteristiche proporzioni e movenze, dette “segnali infantili” o “caratteri neotenici”, che ce li fanno immediatamente riconoscere come tali. Il loro aspetto, in modo innato, evoca tenerezza, placa l’aggressività, stimola le cure parentali nei genitori e in generale negli adulti, anche di altre specie, soprattutto quelle sociali. E potrebbero essere state così le sembianze del bambino-umano ad averlo fatto riconoscere come cucciolo-animale, preservando la sua incolumità.
Marie-Angelique
Ogni caso di ragazzo selvaggio è a sé e non è detto che si tratti sempre di adozione, né di “inselvatichimento” dei bambini. Ci sono poi molti falsi storici tra gli enfants sauvages e quasi sempre le loro vicende sono, in realtà, molto poco poetiche e piene di sofferenza. I primi ragazzi selvaggi le cui storie sono ben documentate risalgono agli esempi riportati da Linneo, che nella dodicesima e nella tredicesima edizione del suo Systema Naturae ai vecchi casi di cui era venuto a conoscenza ne aggiunse di nuovi, tra cui una Puella campanica, una “ragazza di campagna”. Questa ragazza suscitò le attenzioni anche del naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, che la inserì nella sua Histoire naturelle e del filosofo scozzese James Burnett, che la incontrò nel 1765 e la definì “la persona più straordinaria di quel tempo”.
La puella in questione si chiamava Marie-Angélique-Memmie le Blanc: l’unico caso di vero enfant sauvage che sia mai riuscito a imparare una lingua: a parlare, leggere e scrivere correttamente. Marie-Angelique era nata nel 1712 in America, in quello che oggi è il Wisconsin, sicuramente con un altro nome: era una figlia della tribù Fox, che però pochi anni dopo si ritrovò a fronteggiare le armate francesi in una guerra durata vent’anni per il dominio sui fiumi. Così Marie-Angelique, insieme a molti altri bambini di età compresa tra i 5 e i 7 anni, fu venduta come serva e venne scelta da una donna canadese che pare la trattasse come una figlia.
Dopo poco tempo però, a causa di nuove guerre, la famiglia in cui Marie serviva decise di trasferirsi in Francia. Era il 1721 e all’età di 9 anni la bambina sbarcò nel nuovo paese tormentato dalla peste e dopo varie vicissitudini, tra cui uno stupro, fuggì rifugiandosi nei boschi della Provenza. Verrà ritrovata vicino il villaggio di Songy solo nel 1731, dieci anni più tardi. Era sopravvissuta nutrendosi di bacche, radici e di prede che riusciva a cacciare da sola e che consumava crude. Aveva unghie diventate artigli, non portava indumenti e non parlava. Riportata nella civiltà, Marie-Angelique entrò in un convento di suore agostiniane, divenne una protetta della regina di Francia e imparò a parlare fluentemente, leggere e scrivere il francese. Continuò a vivere nel convento fino alla sua morte, avvenuta in circostanze mai chiarite del tutto il 15 dicembre 1775 a Parigi: aveva 63 anni. La sua incredibile vita è stata ricostruita e pubblicata nel 1940, grazie a oltre 400 documenti, dal chirurgo francese Serge Aroles e più recentemente da molti altri autori tra cui la linguista e storica Julia Douthwaite.
Peter il selvaggio
Pochi anni prima di Marie-Angelique, nei boschi di Hannover fu trovato un altro ragazzo, Peter il selvaggio o Peter di Hannover: quel Juvenis hannoverianus annotato da Linneo. La prima testimonianza scritta del suo ritrovamento risale all’11 dicembre 1725, grazie alla penna di Daniel Defoe. In uno dei suoi pamphlet, intitolato Mere nature delineated, Defoe annota:
Hannover, 11 dic. 1725. L’intendente della casa di correzione di Celle (città tedesca della Bassa Sassonia ndr.) ha condotto qui un ragazzo che dovrebbe avere 15 anni, catturato tempo fa in una foresta o in un bosco presso Hamelin, dove camminava carponi, si arrampicava sugli alberi con la naturalezza di uno scoiattolo, e si nutriva d’erba e del muschio degli alberi. Per quale strano destino sia capitato nel bosco non si sa, poiché non sa parlare. È stato presentato a Sua Maestà
ovvero a Giorgio I, re di Gran Bretagna e Irlanda, principe di Hannover ed elettore del Sacro Romano Impero. Così nell’aprile 1726 Peter venne mandato a Londra, consegnato come dono alla principessa del Galles Carolina da parte di Giorgio I.
In Inghilterra la curiosità per questo ragazzo diventò quasi morbosa, era considerato uno strano scherzo della natura e si andavano moltiplicando miti e leggende sul suo conto, sulle circostanze del ritrovamento, sul suo aspetto e la sua età. C’era chi era pronto a giurare che non dormisse nei letti o che il maltempo lo rendesse irascibile e inquieto, che in certi periodi dell’anno sentisse una sorta di “richiamo del bosco”. Allo stesso tempo lo strano caso di Peter suscitava l’interesse di alcune delle personalità britanniche più in vista. Oltre a Defoe, il caso di questo ragazzo selvaggio attirò l’attenzione anche di un altro scrittore, Jonathan Swift, che proprio in quell’anno pubblicava il romanzo che lo avrebbe reso celebre: I viaggi di Gulliver. Ed è solo grazie al dibattito culturale scatenatosi su Peter, che di lui ci è giunto un ritratto: il ragazzino venne infatti dipinto tra i membri della corte in un affresco di William Kent, conservato sul lato est dello Scalone Reale di Kensington Palace.
Nel frattempo la principessa Carolina ebbe il buon cuore di affidare Peter a un precettore, John Arbuthnot, che però dopo un anno gettò la spugna: Peter non aveva compiuto nessun miglioramento significativo. La principessa Carolina così decise di affidarlo a dei contadini e da questo momento in poi, l’attenzione su questo ragazzino andò scemando sempre più. Peter dal canto suo continuò a essere “strano” agli occhi degli altri e a non parlare. Sappiamo però che nel giugno del 1782 il magistrato scozzese James Burnett, Lord Monboddo, fece visita a Peter. E questa è l’unica testimonianza, insieme al dipinto, che abbiamo dell’aspetto di Peter. Burnett lo descrive di bassa statura, dall’espressione “sensibile e sagace”, incapace di parlare ma non di capire ciò che gli veniva detto “sui semplici fatti della vita”, gradualmente aveva imparato le buone maniere e anche qualche parola con cui rispondeva a monosillabi. Così, fino alla fine dei suoi giorni, Peter di Hannover beneficiò di una pensione reale di trenta sterline e morì il 22 febbraio 1785, a oltre 70 anni.
Prima però di capire chi sia stato realmente Peter, dobbiamo raccontare una storia molto simile: quella di Victor dell’Aveyron, un ragazzo selvaggio che aveva vissuto l’infanzia in solitudine nei boschi del Massiccio centrale in Francia, e le cui origini non furono mai rintracciate, ma la cui vita è stata poi documentata nel dettaglio – ed è stata raccontata anche al cinema, da François Truffaut, in un film del 1970: Il ragazzo selvaggio, appunto.
Victor dell’Aveyron
Victor venne preso i primi giorni del gennaio 1800 nei pressi di Saint-Sernin-sur-Rance, dopo vari tentativi in cui era riuscito a scappare, e portato all’ospedale di Rodez. Dimostrava circa dodici anni, non sapeva parlare, né sembrava in grado di comprendere qualsiasi cosa gli si dicesse, non comunicava neanche a gesti e accettava da mangiare solo patate cotte sul fuoco, noci e castagne crude.
Ben presto fu trasferito a Parigi e venne affidato alle cure della signora Guérin e del medico e pedagogista Jean Itard, che gli diede il nome. Nel suo Rapports et mémoires sur le sauvage de l’Aveyron, l’idiotie et la surdi-mutité, Itard scrisse che il ragazzo reagiva quando sentiva un’esclamazione tipo “oh”. E per questo gli diede nome Victor, in modo da destare il suo interesse chiamandolo. Al contrario di altri, Itard non riteneva Victor uno sciocco, nè un ragazzo affetto da una forma di ritardo mentale ed era certo che sarebbe riuscito a istruirlo.
Dopo sei anni di insegnamenti, però, nel 1806, Itard si arrese: Victor non aveva compiuto che progressi molto limitati, restava un individuo asociale, comunicava con qualche gesto e pronunciava a stento qualche parola tra cui “oh Dieu!” e “lait” (“oh Dio” e “latte”) senza realmente comprenderne il significato. Venne così lasciato da Itard con la signora Guérin, in una casa privata nei pressi dell’Istituto per sordomuti di Parigi, con una pensione statale e morì completamente dimenticato dalla società nel 1828. Itard non seppe mai individuare se la causa del mutismo di Victor fosse una cicatrice che aveva sul collo, all’altezza della glottide. Quella cicatrice era stata descritta dall’abate Bonnaterre quando Victor era ancora all’ospedale di Rodez: nonostante tutto il tempo trascorso nei boschi, quella cicatrice alla gola era l’unico segno sul corpo del ragazzo che faceva pensare a una ferita grave, inferta probabilmente da una lama. Qualcuno aveva cercato di uccidere Victor?
La risposta è molto probabilmente sì. Sia Victor che Peter non erano fuggiti spontaneamente come Marie-Angelique, né si erano persi come Casey. Erano stati abbandonati di proposito dai loro genitori nei boschi. Il motivo? Erano bambini problematici, di cui la famiglia preferiva disfarsi. Probabilmente Victor dell’Aveyron non era altro che un bambino affetto da qualche forma di ritardo mentale o da autismo e, al manifestarsi della malattia, i genitori avrebbero prima tentato di ucciderlo, abbandonandolo poi nei boschi.
Anche Peter di Hannover potrebbe essere stato un ragazzo autistico, anche se proprio quel ritratto di Peter che ancora si trova a Kensigton Palace, insieme alle informazioni sulle abitudini e sulle caratteristiche fisiche del ragazzo, ha portato il genetista Philip Beales ad avanzare una nuova tesi nel 2011. Per Beales, Peter sarebbe nato con la sindrome di Pitt-Hopkins. Due secoli fa questi disturbi non erano riconosciuti, né si avevano mezzi per affrontare la malattia e dare una vita degna ai bambini. Così, complici credenze e superstizioni, i piccoli venivano spesso abbandonati, qualcuno riusciva a sopravvivere e veniva trovato dopo pochi giorni, come è stato in realtà per Peter, o dopo brevi periodi come Victor. Marie-Angelique sembra essere stata l’unica ragazza capace di sopravvivere anni nei boschi, ma non dobbiamo scordare che lo stile di vita dei nativi americani era ben diverso da quello degli europei.
Moderni sauvages
Gli enfants sauvages, però, non sono un fenomeno confinato al passato, e la dinamica anche oggi è sempre la stessa: storie di abbandoni e persino truffe. La vicenda più recente è quella della cosiddetta bambina-Mowgli, una ragazzina di otto anni trovata ad aprile del 2017 nell’Uttar Predesh, nelle vicinanze di un gruppo di scimmie. Reagiva in maniera violenta, non parlava e non era abituata a usare i servizi igienici, così si è saltati subito alle conclusioni errate e fiabesche: una ragazza persa nella foresta e adottata dalle scimmie. La verità, invece, è molto più semplice e cruda. I medici che hanno visitato la bambina si sono resi conto che aveva diversi problemi fisici e mentali, è emerso che è stata trovata nei pressi di una strada e non nel folto della foresta, e non stava interagendo con le scimmie.
Altre volte, invece, le storie di enfants sauvages possono essere delle vere e proprie truffe, come il caso di Amala e Kamala. La storia vuole che nel 1920 in India il reverendo Joseph Singh trovò due bambine di 8 e 12 anni, cresciute in una famiglia di lupi e le portò al suo orfanotrofio. Le bambine continuavano a correre a quattro zampe, ringhiavano, mangiavano solo carne cruda, ululavano di notte. Un anno dopo Amala morì per un’infezione renale e Kamala fu l’unica a imparare qualche parola e ad assumere una posizione eretta, anche se pure lei morì nel 1929. In realtà la vicenda che fece il giro del mondo, si scoprì essere una bufala: una truffa montata ad arte dal reverendo Singh per ottenere più fondi per il suo orfanotrofio, facendo leva sulla pietà della gente.
Al di là delle bufale, però, e di ragazzini abbandonati poco prima del loro ritrovamento, ci sono altri casi di “adozione” di trovatelli da parte di animali. E sono anche casi recentissimi: Ivan Mishukov, per esempio, oggi ha 27 anni ed è arruolato nell’esercito russo, ma tra i 4 e i 6 anni di età ha vissuto con un branco di cani randagi conquistandosi la loro fiducia con del cibo e ottenendo in cambio protezione e calore di notte. Era scappato di casa per sfuggire agli abusi del compagno alcolizzato della madre. Così come l’ucraina Oxana Malaya, oggi trentacinquenne. Entrambi hanno vissuto la tenera età tra i cani randagi e quando sono stati ritrovati camminavano carponi, non parlavano e ringhiavano. Sono riusciti però a superare il passato e a imparare la lingua del loro paese, dimostrandosi individui perfettamente sani, che sono riusciti a integrarsi nella società. Tuttavia i cani non possono essere considerati animali selvatici, pure se randagi.
C’è però chi giura di aver vissuto anni tra le scimmie. Marina Chapman oggi è una signora sulla sessantina, con una famiglia e dei figli, nata in Colombia e trasferitasi poi in Inghilterra. Secondo i suoi racconti, non ha ricordi dei suoi familiari ed è certa di aver vissuto dall’età di quattro anni fino ai nove nella foresta pluviale colombiana aiutata da una famiglia di cebi cappuccini. Si sarebbe nutrita di bacche, radici e frutta, beveva nei fiumi e nelle pozze dove si dissetavano anche le scimmie, dormiva sugli alberi e camminava a quattro zampe.
Quando fu trovata da alcuni cacciatori, questi la vendettero a un bordello locale e solo dopo diversi anni Marina trovò una famiglia adottiva. La sua incredibile storia è diventata un libro e anche National Geographic ha prodotto un documentario su di lei, ma qual è la verità? Secondo molti primatologi una convivenza con le scimmie sarebbe stata possibile, ma per un breve periodo, non anni. Le condizioni della foresta pluviale sono proibitive e pure se Marina fosse stata tollerata dalle scimmie e avesse imparato a imitare i loro comportamenti per mangiare, sarebbe stato difficile per lei sopravvivere tutto quel tempo. Secondo alcuni psicologi, infatti, si tratterebbe di “falsi ricordi”: di immagini e sensazioni, sedimentate come ricordi, che avrebbe generato il subconscio di Marina per autoprotezione da una verità molto più devastante, di abusi e violenze.
C’è anche chi racconta di aver vissuto 12 anni con i lupi, tra i 7 e i 19 anni di età. È Marcos Rodríguez Pantoja, oggi settantaduenne, che della sua vita tra gli uomini lamenta l’eccessivo rumore e gli odori nauseabondi. Marcos, orfano di madre, fu venduto dal padre a un montanaro e alla morte di quest’ultimo rimase solo tra le montagne della Sierra Morena. I pochi segreti che aveva appreso dal montanaro però gli salvarono la vita: sapeva riconoscere erbe, bacche e funghi commestibili e costruire trappole per catturare la selvaggina. Inoltre in poco tempo riuscì a farsi accettare da un branco di lupi. Il suo racconto sulla vicenda è quantomeno fantasioso, ma in effetti ci sono foto e video che testimoniano il rapporto speciale di quest’uomo con dei lupi, richiamati attraverso una perfetta tecnica di wolf-howling. Del resto, stavolta, la storia non è difficile da credere: ci sono molti altri casi di ricercatori “adottati” da branchi di lupi. I più famosi sono forse lo zoologo tedesco Werner Freund, morto a 80 anni nel 2014, e l’inglese cinquantenne Shaun Ellis.
Per il resto, nonostante siano ammantate di mistero, o da una visione romantica di una natura accogliente e spesso condite da un lieto fine posticcio, le storie degli enfants sauvages sono soprattutto storie di sofferenze e abusi, nate da un abbandono e proseguite con una sopravvivenza stentata in natura e un’integrazione molto difficile.