N egli ultimi anni si è assistito a un’esplosione di saggi e romanzi a tema scientifico. I saloni del libro sono stati invasi da ricercatori e divulgatori. Festival e conferenze su fisica e astrofisica hanno fatto registrare una partecipazione pressoché costante. Gli studi di frontiera e i racconti laterali che la ricerca produce suscitano insomma sempre più interesse e curiosità, almeno in un certo tipo di pubblico. Eppure, in Italia, la scienza occupa ancora un ruolo marginale nel dibattito culturale.
Abbiamo deciso di chiederci cosa voglia dire fare comunicazione scientifica, oggi, coinvolgendo alcuni protagonisti di questo mondo: Guido Tonelli, che al CERN di Ginevra ha partecipato alla scoperta del Bosone di Higgs, e che ha raccontato i turbamenti e le emozioni della sua generazione di scienziati in La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016), Amedeo Balbi, astrofisico, ricercatore all’università di Roma Tor Vergata e scrittore di scienza (il suo ultimo libro è Dove sono tutti quanti?, Rizzoli, 2016), e Eugenio Coccia, rettore del Gran Sasso Science Institute dell’Aquila, che ha da poco pubblicato per Castelvecchi il suo primo saggio divulgativo, Stelle, galassie, e altri misteri cosmici.
Per aiutarci ad allargare lo sguardo e fare qualche confronto tra come vengono vissute – nel dibattito pubblico – la divulgazione e la scienza in Italia e all’estero, abbiamo chiesto una mano anche a João Magueijo, cosmologo portoghese e divulgatore che da anni lavora nel Regno Unito, a Nadia Drake, giornalista scientifica e collaboratrice di National Geographic (dove ha anche un blog, No Place Like Home), e a David Quammen, anche lui scrittore di successo e collaboratore di National Geographic (il suo ultimo libro, Spillover, è tradotto in Italia da Adelphi).
Questo è quanto emerso dalle nostre conversazioni.
Come si fa a scrivere di astrofisica, di fisica, di scienza di frontiera per il grande pubblico?
DRAKE
Dico spesso a chi vuole scrivere di scienza che non c’è nessun motivo per cui uno scrittore scientifico talentuoso non possa affrontare qualsiasi argomento. Spesso si dà per scontato che si dovrebbe (o si deve) scrivere solo di quello che si è studiato a scuola, ma non è necessariamente così.
Ho un dottorato in genetica, ma nel mio primo vero lavoro come giornalista scientifico scrivevo di astronomia per Science News, a Washington, DC. Ho iniziato uno stage appena dopo che il loro reporter di astronomia, dopo 20 anni di lavoro, se n’è andato. Quindi i miei editor mi hanno buttato a scrivere di astronomia, e ogni articolo è stato come frequentare un corso intensivo di qualsiasi materia si trattasse: le esplorazioni sulla luna, i quasar, le supernove di tipo Ia, i pennacchi di Encelado. Ho imparato sul campo, leggendo pubblicazioni e parlando con gli scienziati: soprattutto, potevo facilmente affrontare qualsiasi articolo dalla prospettiva di un lettore perché non avevo una formazione accademica in astronomia.
C’è una linea sottile tra lo spiegare concetti complessi in un modo comprensibile e semplificarli al punto di introdurre delle imprecisioni. Non sopporto le imprecisioni negli articoli scientifici. Tendo a fidarmi dei miei lettori e ad affrontare la complessità di un argomento, piuttosto che evitarla, perché è proprio lì che la scienza – e il processo scientifico – possono essere più affascinanti. Cerco anche di scrivere ogni articolo come se fosse una storia vera e propria, con un filo narrativo che inserisca la scoperta nel suo contesto. L’uomo ha raccontato storie per migliaia di anni: è il modo in cui impara e ricorda, e non c’è nessun motivo per cui gli articoli scientifici non debbano fare lo stesso.
BALBI
Nel mio caso non penso che ci sia una regola generale. Dipende un po’ dal soggetto che vuoi raccontare e dall’idea di pubblico che hai in mente. Nel mio ultimo libro raccontavo una storia corale, di scienziati e di fisici, e quindi doveva essere una storia a più voci. I toni possono essere completamente diversi a seconda dei modi che si scelgono.
MAGUEIJO
Sarà sempre un gioco di analogie e di immagini. E proprio per questo, ovviamente, ci sarà sempre il rischio di errori. Ricordo qui che la parola “metafora” in greco significa trasportare – si vedono in Grecia tanti camion di “metafora” di pesce. Purtroppo in questi “trasporti” si perde sempre qualcosa di importante. Ma non c’è alternativa. L’alternativa è la matematica e non è la via giusta per comunicare con il grande pubblico.
COCCIA
Enrico Fermi diceva che quando lui voleva spiegare qualcosa – e si riferiva alle sue lezioni per gli studenti di Fisica – la prima cosa che faceva era cercare di dare l’idea generale, creare un collegamento con il suo pubblico, un’empatia per fare capire subito, anche solo per suggestioni, l’argomento. Solo dopo iniziava a complicare la questione, introducendo la complessità della materia, andando per gradi. Penso che la stessa cosa valga, a maggior ragione, per la divulgazione, dove è impossibile non usare le analogie, le metafore, le immagini prese dalla vita quotidiana che sono quasi sempre il gradino di partenza.
TONELLI
Non sono uno scrittore, posso parlare solo delle scelte che ho fatto per il mio libro. Mi è venuto spontaneo raccontare, più che la fisica, la storia di una generazione di fisici di cui faccio parte. Ovviamente il libro contiene anche concetti generali di fisica. Ho però cercato di inserire le spiegazioni come un’appendice accessoria, per raccontare e capire meglio le passioni, le paure, le angosce e gli entusiasmi di questa generazione di scienziati. Quindi lo scopo del mio libro, più che spiegare il bosone di Higgs, era spiegare il suo valore nella comunità scientifica, raccontare le emozioni della ricerca a partire dalla passione che ho vissuto io. Mi piaceva l’idea di provare a raccontare come si vive nei grandi gruppi di ricerca di cui facciamo parte.
QUAMMEN
Quando si scrivono saggi, e in particolare quando si scrivono saggi d’argomento scientifico, è molto importante non cadere nella trappola dell’invidia per i romanzi. Alcuni dei miei colleghi che scrivono saggi – e che scrivono saggi scientifici – creano storie basate sui fatti. Ma si vede che si prendono delle grandi libertà. Potrebbero aver inventato dei dialoghi, delle scene, e un insieme di personaggi per creare più coinvolgimento, per far scorrere il racconto. E quando si tratta di saggi, per me da lettore non è accettabile. E quindi è inaccettabile anche da scrittore. Se stai scrivendo non fiction, allora dovresti usare elementi che sono davvero reali e non semplicemente delle cose che potrebbero essere vere.
Ci sono delle differenze culturali tra come viene fatta divulgazione scientifica in Italia e nel resto del mondo?
COCCIA
Non so se esista davvero una via italiana alla divulgazione e alla comunicazione. Se c’è credo sia abbastanza rigorosa, tutto sommato. La nostra tradizione vuole che i divulgatori siano spesso gli stessi scienziati, che tengono conferenze a un livello più comprensibile. Credo che oggi con tutti i mezzi che esistono per pubblicare video, link, articoli e libri la cosa si è un po’ più diversificata. Certo un grande divulgatore è stato per esempio Piero Angela. Per molti anni solo lui faceva un certo tipo di divulgazione e la faceva bene, pur non essendo uno scienziato. La faceva da giornalista, e aveva un’attenzione sopraffina nel comunicare e tradurre le parole degli scienziati. Era una comunicazione mediata con consapevolezza. Solo dopo, negli ultimi anni, in televisione la buona divulgazione ha ceduto il passo a programmi dedicati alla ricerca e al culto delle cose un po’ alternative, a quei tentativi di affascinare con il mito e il mistero. Ma la scienza è talmente affascinante già di per sé, e la ricerca talmente piena di cosa incredibile e imperdibili, che mi sembra veramente una cosa deteriore cercare altri canali.
MAGUEIJO
In Italia la divulgazione è affrontata in modo troppo formale, però. Mi sembra che la modalità usata in Inghilterra, meno seriosa, funzioni meglio. Per esempio i musei all’estero sono cambiati molto negli ultimi anni, sono diventati più interattivi, più accessibili a tutti. Un po’ come l’approccio di Faraday, quando ha cominciato a fare le sue lezioni per il pubblico generale alla Royal Institution. Un po’ come sono diventati i musei moderni. Leggerezza e approfondimento non sono incompatibili.
TONELLI
Ogni tanto mi chiedono cosa può fare la televisione per aumentare la popolarità della scienza. Io do spesso una risposta brutale: la televisione dovrebbe inserire nei propri programmi, nelle fiction ad esempio, qualche ricercatore. Penso che sarebbe una mossa utile per rendere popolare la ricerca scientifica, accanto a proposte di programmi e spazi specializzati dedicati alla divulgazione. Far diventare i ricercatori protagonisti di quelle trasmissioni generaliste, raccontare le loro storie. La scienza è troppo spesso avvertita come distante, i ragazzi e le ragazze la vedono come una cosa lontanissima e irraggiungibile. Può sembrare una proposta triviale, ma secondo me sarebbe decisiva per riuscire a espandere il territorio su cui poi fare divulgazione.
BALBI
A me piacerebbe, e sono d’accordo con Tonelli, che la scienza permeasse i vari aspetti della società e della cultura anche in maniera subliminale, indiretta, cioè non ex cathedra. L’aspetto umano e quello della passione sono gli elementi che davvero mi interessano nella ricerca. Se racconti gli scienziati in un certo modo fai anche capire che non sono delle persone così sganciate dalla realtà.
Detto questo, io conosco bene solo due realtà: quella italiana e quella anglosassone. Il filone anglosassone, quello che viene dalla Royal Society che parte dall’idea di raccontare le cose a un pubblico più vasto, come iniziò a fare Faraday con le sue conferenze per i ragazzi, abbraccia una visione un po’ più popolare della divulgazione che forse col passare degli anni da noi si è un po’ persa. L’aspetto più leggero che c’è nella divulgazione di stampo anglosassone da noi quasi non esiste, questo anche perché il mondo americano è un mondo molto più incentrato sullo spettacolo. Da noi non ci sono show televisivi come quello di Stephen Colbert dove vengono spesso ospitati scienziati che si prestano a farsi prendere un po’ in giro. No, abbiamo un approccio un po’ più serio e serioso. Penso però che quello che manca veramente da noi non sia la figura dello scienziato che divulga o del bravo divulgatore, ma un sistema complessivo culturale capace di capire queste cose e di metterle in circolo. È sempre tutto molto legato all’iniziativa personale, ma chi inizia a fare questo tipo di attività si trova un po’ perso nel vuoto. Non c’è quello che invece secondo me c’è negli Stati Uniti e in Inghilterra: ovvero un sistema capace di recepire queste cose e farle diventare dibattito culturale nei giornali e nei mezzi di informazione. Eppure non è stato sempre così, nella nostra cultura. In Italia abbiamo avuto il primo grande – grandissimo – divulgatore: Galileo. Galileo quando scrive il dialogo sui massimi sistemi fa una grandissima opera di divulgazione, tanto che Calvino secoli dopo disse che Galileo è stato il più grande scrittore di lingua italiana. Era un’opera sia culturale che di divulgazione.
DRAKE
Beh direi che ci sono però molti aspetti importanti in cui anche i media statunitensi sbagliano quando parlano di scienza. C’è una tendenza a rendere la scienza glamour. Leggendo i titoli di notizie scientifiche tutti i giorni, sei portato a pensare che gli scienziati facciano scoperte rivoluzionarie, stupefacenti, continuamente. Questo ovviamente non è vero, e credo che queste pubblicazioni non facciano un favore a nessuno esagerando e gonfiando l’importanza di uno studio. La scienza, per forza di cose, procede passo per passo e anche questi risultati progressivi possono essere affascinanti. Non ha senso far credere ai lettori che la scienza sia qualcosa che non è – in questo modo, quando la “scienza” così com’è descritta non riesce a comunicare, perdono tutti.
E nonostante tutto, penso che neanche negli Stati Uniti ci sia abbastanza scienza nei media. I giornalisti in generale tendono a considerare la scienza come un argomento di nicchia, quando, in realtà, è proprio la scienza che ci parla del mondo intorno a noi. Ci sono dei modi per introdurla in praticamente ogni storia o notizia, che si tratti di politica, sport, economia, qualsiasi cosa. Sono i fatti, e il processo scientifico, che ci insegnano cose del pianeta in cui viviamo, che danno risposte a domande assillanti, che hanno il potenziale di risolvere alcuni grandi problemi. Il fatto che molti giornalisti non-scientifici ignorino regolarmente il potere della scienza nell’informare i loro lettori è un grandissimo fallimento, secondo me.
TONELLI
C’è però una tradizione anglosassone di divulgazione, strutturata e articolata, che attraversa tutti i terreni, dai tabloid alle trasmissioni televisive della BBC, e che va avanti da decenni. In Italia questa tradizione non c’è. Ma nonostante questo da noi sta succedendo una specie di miracolo – e non saprei usare parole diverse per descriverlo – perché c’è un’attenzione strabiliante per tutti i temi scientifici in tutte le loro forme. Ho cercato di capire da dove venga questa rinnovata attenzione del pubblico. Probabilmente il punto di svolta è stata l’attenzione mediatica attorno a LHC a partire dal 2008, che è continuata fino alla scoperta del bosone di Higgs. Ricordiamoci che prima di allora raramente i risultati scientifici apparivano sulle prime pagine dei nostri giornali. La pubblicazione e il successo del libro di Carlo Rovelli, due anni fa, ha ulteriormente rimescolato le carte in tavola. Ha costretto anche il mondo della cultura e delle case editrici a considerare questo campo come un campo interessante. E questo rende la situazione attuale particolarmente anomala anche rispetto ad altri paesi. Io ho svolto attività di divulgazione anche in Francia e in giro per l’Europa, ma quello che sta succedendo in Italia negli ultimi 2-3 anni, anche con il successo di festival e conferenze e manifestazioni a tema scientifico, è una cosa strabiliante.
BALBI
Sono d’accordo, ed è esattamente quello che dico io. Si avverte in Italia, ma si avvertiva anche prima che esplodesse il fenomeno Rovelli, una domanda da parte delle persone di conoscenza scientifica e di materie scientifiche. Quello che manca è l’interfaccia tra chi potrebbe dare queste informazioni e questi contenuti e chi dovrebbe “pulirli” in qualche modo. Manca nella catena di trasmissione l’intermediario che tradizionalmente è fatto dagli intellettuali, da chi gestisce le pagine culturali. Non c’è storicamente quel lato lì, non c’è una preparazione adeguata nei confronti della scienza e non c’è stata quindi una preparazione adeguata nel comprendere che c’era quella domanda, quando è arrivata. Il fenomeno del libro di Rovelli è esploso senza che davvero nessuno capisse il perché. Nessuno aveva intuito che si poteva intercettare quella domanda, forte, che c’era da parte delle persone.
COCCIA
Un’altra cosa che ha l’Italia, un’altra arma poco valorizzata forse, è questa fitta rete puntiforme di scuole e licei che, sempre grazie a iniziative personali di presidi e professoresse, riesce a coinvolgere scienziati e ricercatori, portandoli nelle scuole, facendoli parlari con i ragazzi, dimostrando che l’attenzione e l’interesse per le materie scientifiche ci sono anche a livello scolastico.
BALBI
Ma sono scuole, associazioni, manifestazioni che mi sembra nascano sempre per un’iniziativa estemporanea, che non ci sia un sistema culturale che funzioni in quel modo. Nel mondo anglosassone, quando esce un libro che parla di scienza, si vede come esiste una rete di figure di riferimento che sa recensirlo, per esempio. Chi ha scritto libri Italia sa che invece questa cosa è molto difficile. È molto difficile attirare l’attenzione sul libro in uscita perché ci sono poche figure di riferimento che possono capire quello che hai scritto, per esempio. È un problema complessivo del sistema, non della richiesta.
TONELLI
Tutti ci siamo chiesti da dove nasca questo interesse enorme che è scaturito a partire dal libro di Rovelli. Una delle ipotesi, che potrebbe anche essere quella giusta, è nella caducità degli argomenti di normale dibattito pubblico. Se apriamo una prima pagina di un giornale, dopo tre giorni i titoli sono completamente diversi. Il tempo medio di persistenza di una notizia o di un argomento di dibattito è qualche giorno, al massimo una settimana. E poi si passa oltre. C’è una parte della società – minoritaria certo, ma non minuscola – che invece vorrebbe e ha voglia di cimentarsi con questioni che durano di più, che sono più persistenti, una parte della società che ha voglia di interessarsi a cose che hanno un passo più lungo. E forse la fisica dà a queste persone un’opportunità. E chiaramente le cose di cui parliamo noi non sono cose che si esauriscono nel giro di una stagione letteraria, sono avventure che durano vent’anni, cinquant’anni.
MAGUEIJO
Purtroppo, alcuni successi mi sembrano solo una moda. Il risultato di un’operazione di marketing molto furba, molto ben fatta. C’è però sempre una minoranza di gente veramente interessata, anzi ossessionata dalla scienza. Forse loro sono il vero, piccolo, successo della divulgazione.
DRAKE
Ho scoperto che molte persone, a prescindere dal loro livello di istruzione, sono curiose. Non mi sorprende: gli uomini sono degli animali curiosi per natura – è così che siamo arrivati dove siamo. La chiave del successo degli scrittori è pungolare quella curiosità a volte dormiente, e alcuni lavori scientifici lo fanno incredibilmente bene. Ci sono certi argomenti che sembrano essere infinitamente interessanti per i lettori, e la fisica è uno di questi. I pianeti extrasolari, il cervello, la vita al di fuori della Terra – è difficile trovare qualcuno che non sia almeno un po’ interessato a questi argomenti. Grazie al cielo.
La divulgazione è snobbata a livello accademico? È vista come un’attività poco nobile?
DRAKE
Non saprei dire come gli scienziati statunitensi considerino la divulgazione scientifica e i loro colleghi che la fanno, ma mi piace pensare che stia diventando un’attività meno marginale e più mainstream. Ho parlato con moltissimi scienziati che hanno un talento incredibile nello spiegare quello che fanno, e che riescono a ritagliarsi il tempo per questa impresa nonostante le esigenze del lavoro accademico. In effetti, ho sentito dire da alcune persone che la divulgazione scientifica è ancora più importante quando è un sussidio governativo (ovvero i soldi dei contribuenti) a finanziare la ricerca. Ma non so quanto questa opinione sia diffusa.
MAGUEIJO
Non posso essere più d’accordo: la divulgazione è snobbata. La realtà è che [in Inghilterra] ci chiedono di fare divulgazione perché siamo pagati coi soldi delle tasse, ma quando la facciamo si ha sempre la sensazione che i nostri colleghi la vedano come una forma di prostituzione.
TONELLI
È inutile girarci intorno: spesso la divulgazione è vista male dal mondo accademico. Sono visti male i colleghi che non fanno attività scientifica e fanno solo divulgazione ma sono visti male anche i ricercatori/divulgatori come Eugenio o come me, cioè persone immerse nell’attività scientifica. Ci sono invidie e ci sono gelosie.
BALBI
Onestamente ho deciso di non pormi troppo il problema. Secondo me è anche giusto che chi, da scienziato, decide di fare questa attività parallela, lo faccia perché si sente spinto da una specie di passione e di motivazione. Non vorrei che diventasse anche questo uno dei tanti obblighi accademici. Non deve essere un onere.
COCCIA
È il piacere di farlo, il piacere di comunicare agli altri la tua meraviglia, quello che ti appassiona del tuo lavoro. Riuscire a cogliere quegli aspetti che possano poi colpire anche gli altri: raccontarli, saperli raccontare. Ed è un meccanismo che per gli scienziati deve funzionare per forza su base volontaria.
DRAKE
Da giornalista posso dire però che ci sono diverse incomprensioni nei ruoli tra scienziati e divulgatori. C’è un’incomprensione generale sul lavoro del giornalismo, che è dilagante. Quando scrivo un articolo, ho una responsabilità nei confronti dei miei lettori, non degli scienziati o delle istituzioni coinvolte. È molto diverso da come lavorano gli uffici stampa delle università, ma gli scienziati spesso presumono di avere lo stesso controllo sul mio lavoro e sui comunicati stampa. Quindi quando gli dico che no, non possono rivedere l’articolo prima della pubblicazione, spesso per loro è una spiacevole sorpresa.
Qual è la missione, lo scopo della divulgazione?
TONELLI
Mettiamola su un discorso generale: la scienza si muove a un tale livello e a una tale velocità che non ha eguali in tutte le altre discipline. Sento l’obbligo di costruire, grazie alla divulgazione, una consapevolezza di quello che sta succedendo ora in ambito scientifico e dei cambiamenti che nasceranno. Perché ogni volta che cambiamo la nostra visione del mondo o della natura, cambia anche tutto il resto: cambia la cultura, la tecnologia, i rapporti tra le persone. Spero che una buona divulgazione porti a una consapevolezza tale di quello che sta succedendo, da poter discutere in maniera ragionata, da poter produrre un’opinione pubblica in grado di capire. Non è un intento pedagogico, come dire “ora vi insegno io come funziona il mondo”. È più un tentativo di suscitare curiosità e idee, anche tra gli intellettuali, tra gli umanisti, e gli esperti di altri campi della cultura, per riuscire a discutere insieme le conseguenze di ciò che può avvenire nei prossimi anni dall’avanzamento scientifico di cui siamo testimoni e che possiamo raccontare da vicino.
DRAKE
Questa domanda in realtà scatena un forte dibattito tra gli scrittori scientifici, perché alcuni si vedono come educatori, mentre altri pensano che l’apprendimento sia un effetto secondario di buoni articoli. In generale, credo che quello che facciamo sia molto simile a scrivere di politica, economia, letteratura e cinema. Non c’è nessun motivo per cui gli articoli scientifici non possano essere altrettanto divertenti, anche se l’educazione non è la nostra missione esplicita. Quello che penso sia importante – e che è più complicato dello spiegare i risultati sportivi – è dare ai lettori le basi che gli servono per capire perché l’articolo che stanno leggendo è rilevante.
Soprattutto, credo che sia gli scienziati sia gli scrittori e i giornalisti abbiano la responsabilità di aiutare le persone a capire perché una data ricerca sia importante. E, ad essere sincera, non mi sembra una cosa a cui gli scienziati hanno dato molto peso. Non è che ogni risultato ha un impatto diretto sulla vita di tutti i giorni, ma capire meglio il mondo e l’universo in cui viviamo ha un valore enorme, anche se non si traduce in un nuovo gadget o in consigli dietetici. Anche a costo di essere scontata: la conoscenza è potere. E dobbiamo essere chiari sul perché è importante sapere qualcosa, anche quando il motivo è semplicemente che è molto, molto interessante.
MAGUEIJO
Siamo in un periodo in cui devono essere prese delle decisioni importanti che coinvolgono la scienza: energia nucleare contro altre forme di energia, manipolazioni genetiche, cambiamento climatico, e così via. Questi problemi, però, attirano reazioni politiche impulsive, anziché una curiosità scientifica come punto di partenza per le varie opzioni. Non mi interessa se usiamo l’energia nucleare o no: quello che voglio sapere è cosa è meglio, realisticamente, senza le ipocrisie da hippie e da new age, e senza le pressioni delle lobby industriali. Il problema è che sono in pochi ad avere una cultura scientifica. La gente sta incollata ai cellulari, ma crede più nella telepatia che nelle onde radio. Il nostro sistema di credenze è completamente in conflitto con la tecnologia che usiamo. La divulgazione scientifica ha fallito miseramente nel cambiare le cose, e le implicazioni politiche possono essere disastrose.
COCCIA
A me è capitato tante volte di essere intervistato su qualche argomento di attualità da giornalisti che si capiva benissimo che piombavano sull’argomento per fare un po’ di sensazionalismo ma che non ne sapevano niente, non erano preparati, perché nelle redazioni dei giornali e delle televisioni non c’è una cultura diffusa sui temi della scienza. Gli scienziati sono trattati come personaggi un po’ strani, c’è un effetto freak. Esiste un’ignoranza e una distanza dal mondo scientifico, e in Italia è molto netta, da parte di certi ambienti politici e giornalistici. La scienza è invece una delle componenti importanti e trasversali del mondo culturale e intellettuale, e non quel settore separato che la tradizione di Gentile e Croce relegava al ruolo di “idraulici” della cultura. La scienza è invece una delle vene della cultura, con pari dignità di tutte le altre.
TONELLI
Sono assolutamente d’accordo. È una situazione che è rimasta invariata in tutti questi anni nonostante la costante crescita che c’è stata della popolarità degli argomenti scientifici. Tra persone colte è considerata una bestialità dire che Mozart non interessa o che l’arte figurativa è inutile. Ma se un intellettuale dice che non si interessa di scienza o non ne capisce, è considerata una cosa normale. È un atteggiamento sbagliato che si riproduce ormai da decenni in Italia. Ed è un problema di cui paghiamo tutti le conseguenze. Perché la scienza, quella cosa di cui non ci si interessa e di cui non si parla adeguatamente, domina oggi come non mai l’economia e la vita delle persone. Viviamo il paradosso in cui la società odierna oggi più che mai dipende da tecnologie derivate dalla scienza, ma è la società stessa che discute meno ed è meno consapevole delle basi e delle implicazioni scientifiche su cui si basa.
Il rischio che vedo in questo senso è che si deleghino agli scienziati, ai tecnici, le questioni anche etiche o filosofiche e sociali che la scienza e i suoi cambiamenti portano. Perché tutto quello che succede in campo scientifico, e in particolare i grandi cambi di paradigma, prima o poi sconvolgono l’economia, la tecnologia, ma anche i rapporti tra le persone, anche l’arte, e la cultura. Ora questi cambiamenti avvengono di continuo. E quindi l’unica maniera per poterli padroneggiare è conoscendoli, l’unica maniera per poter discutere tra le varie opzioni è essere aggiornati e consapevoli dello stato attuale del dibattito.
BALBI
È qualcosa che abbiamo perso nel tempo. Pensiamo a Dante, il colto, il poeta dell’epoca: la Divina Commedia è anche un trattato cosmologico. Nel senso che era anche un’opera ricca della scienza dell’epoca, non c’era solo l’aspetto teologico nella Commedia, c’era veramente tutto. Un uomo di cultura doveva mettere insieme una visione del mondo a tutto tondo, dove c’era anche la scienza. Questa cosa un po’ si è persa. Alcune figure chiave per me, in Italia, nel Novecento, sono stati Calvino e Primo Levi, due figure che io definisco anfibie, che riescono a stare un po’ in due mondi. Personalmente aver letto le Cosmicomiche è stata un’esperienza importante anche per la mia costruzione professionale, tanto quanto aver aperto per la prima volta i libri di divulgazione che leggevo al liceo. Oggi in Italia servono quelle figure lì. A me per esempio colpisce, ed è una cosa che racconto sempre, aver letto diverse interviste a Bruce Springsteen in cui, tra i dieci libri più importanti della sua vita, tra Steinbeck e altri classici della letteratura inserisce un libro di cosmologia: “Lonely Hearts of the Cosmos,” di Dennis Overbye. Una cosa del genere in Italia è difficile che accada, è difficile che una figura così popolare faccia un richiamo a una pubblicazione di stampo scientifico. Secondo me è questo che serve all’Italia, più che delle riserve indiane in cui agli scienziati viene data la possibilità di raccontare. Serve far breccia nelle figure di riferimento, che possono essere gli intellettuali e gli artisti, o i musicisti, serve qualcosa che ampli lo spazio delle suggestioni. Feynman diceva: non c’è un cantore oggi che ci racconti la scienza e ci faccia emozionare raccontando la scienza a livello poetico. Noi scienziati possiamo farlo ma fino a un certo punto perché facciamo un altro mestiere, e perché non siamo tutti portati per quel racconto lì.
TONELLI
Chi altro però, se non gli scienziati italiani, potrebbe dare un contributo a costruire questa unità? Chi altro se non noi che abbiamo nel DNA questa unità spezzata, che è nel Rinascimento e poi giù giù fino a Calvino? Non c’è forse nessun altro paese in cui lo sposalizio tra la tradizione umanistica e quella scientifica ha vissuto la specificità italiana, una via possibile alla divulgazione scientifica. Da noi potremmo avere, e abbiamo avuto, una profondità che non c’è altrove.
BALBI
Io penso che ci sia anche una questione generazionale. Probabilmente questa è una battaglia con la vecchia guardia della cultura che abbiamo perso definitivamente. Ed è una cosa un po’ irrecuperabile. Però io vedo che i giovani non hanno questo tipo di barriera e anzi secondo me si avverte questa crescente curiosità negli ultimi anni.
DRAKE
Quanto al racconto, da giornalista, sento di avere una responsabilità nei confronti dei fatti. Questo ha un grosso significato politico al momento, con l’amministrazione entrante che minaccia di annullare i magri progressi che abbiamo fatto nel combattere il cambiamento climatico. Nei prossimi quattro anni, negli Stati Uniti, credo che i giornalisti dovranno portare un peso ben maggiore di quello che avevano richiesto: dovremo martellare la gente con un messaggio che probabilmente cadrà nel vuoto con il governo (con conseguenze sconosciute per cose come l’accesso alle fonti), ma dobbiamo continuare a farlo. È troppo importante.
A lungo si è detto ai giornalisti che dovevano essere obiettivi e raccontare entrambi i lati di un dibattito: credo che questo equilibrio stia in qualche modo cambiando perché dare credibilità a opinioni che semplicemente non sono basate sui fatti (come la negazione del cambiamento climatico e le sciocchezze anti-vaccini) non fa bene a nessuno. Non serve più avere un falso equilibrio negli articoli. Ci sono alcuni argomenti per cui è semplicemente pericoloso.
QUAMMEN
Questo è proprio il motivo per cui la scrittura scientifica deve mantenere degli standard elevati, perché nei media e nell’opinione pubblica c’è una grande confusione riguardo alla scienza. Quindi se scrivi delle cose, e poi le persone ci tornano, le mettono in dubbio e dimostrano che hai commesso degli errori o inventato delle cose quando ti conveniva – anche se non sono direttamente legate ai dati scientifici del tuo lavoro, magari qualcosa, come dicevamo prima, che hai inventato solo per aggiungere un po’ di pepe alla tua storia – allora gli dai modo di smontare anche i dati puramente scientifici che hai riportato. Come scrittori scientifici, abbiamo una responsabilità.