Q uando si parla di psicologia, “scienza” non è tra le prime parole che salta alla mente; si finisce a pensare più probabilmente a un lettino da seduta di psicoterapia. Questa associazione si deve all’impatto, sull’immaginario collettivo, di Sigmund Freud, che ha avuto il merito di accendere un faro su alcuni meccanismi della mente umana, proponendo teorie che hanno influenzato enormemente tutto il Novecento. Freud viene però più comunemente annoverato tra i filosofi che tra gli scienziati perché, pur essendo un medico, le sue osservazioni sui processi psichici non sono ritenute falsificabili. Secondo la definizione di Karl Popper – tra i primi filosofi della scienza a cercare dei principi cardine per definire un’ipotesi come scientifica o meno – non può essere considerata scientifica un’ipotesi che non possa essere smentita attraverso nuove prove. In altre parole, se non è possibile dimostrare che Es, Io e Super-Io (le tre istanze intrapsichiche che Freud pone alla base del funzionamento della mente umana) non esistono, la loro esistenza non può essere ritenuta un’ipotesi scientifica.
La psicologia è però una disciplina vastissima, che oggi va dalla psicanalisi alle neuroscienze cognitive – passando per la psicologia dello sviluppo, del lavoro, clinica. Studi in campo psicologico comprendono tanto l’osservazione di come un bambino interagisce spontaneamente con i suoi pari (la psicologia dello sviluppo, ad esempio, fa molto uso dell’osservazione come metodo di ricerca), quanto la misurazione di precisi pattern di attivazione neuro-fisiologica registrati attraverso appositi elettrodi posti sullo scalpo o altre parti del corpo (tipicamente riscontrabile nelle neuroscienze cognitive). Al pari di molti altri saperi, la psicologia affonda le sue radici in osservazioni sul campo, quindi, prive di ogni artificiosità sperimentale, e porta poi in laboratorio le ipotesi scaturite da quelle osservazioni per metterle al vaglio del metodo scientifico. Ma è possibile dire esattamente che tipo di scienza è la psicologia?
Quante scienze
Quando si parla di scienza, le immagini che vengono alla mente sono quelle di un laboratorio pieno di provette e di persone che indossano camici bianchi; oppure farmaci, macchinari complessi e tecnologie all’avanguardia. Eppure, questi sono solo i prodotti della scienza, non la scienza di per sé. Anche quando un medico legge il referto di una radiografia per poter fare una diagnosi, in effetti, non sta seguendo un processo scientifico: sta usando gli strumenti e le conoscenze ottenute grazie alla scienza per poter migliorare la comprensione del problema. Con medicina evidence-based, ad esempio, ci si riferisce al fatto che l’analisi dei sintomi e la scelta dei trattamenti proposti dal medico siano basati su evidenze scientifiche ottenute in laboratorio – in condizioni controllate e su un largo numero di persone che fanno da riferimento per il singolo paziente – piuttosto che sull’idea che il processo diagnostico che avviene nello studio medio sia scientifico di per sé.
La psicologia affonda le sue radici in osservazioni sul campo, prive di ogni artificiosità sperimentale, e porta poi in laboratorio le ipotesi scaturite da quelle osservazioni per metterle al vaglio del metodo scientifico. Ma è possibile dire esattamente che tipo di scienza è la psicologia?
Seppure a livelli di complessità molto diversi tra loro, in un ambulatorio medico tanto quanto in un negozio di elettronica o dal parrucchiere, fare una diagnosi, realizzare un dispositivo elettronico o tingere i capelli sono attività rese possibili da un processo di ricerca scientifica che è avvenuto ben prima che noi potessimo raccoglierne i frutti; un processo di conoscenza che, a qualsiasi latitudine e longitudine, senza discriminazioni di identità, colore o religione, permette di capire come funziona un fenomeno e, quindi, di poter intervenire per modificarlo: il metodo scientifico.
Comunemente, però, quando si parla di scienza si fa riferimento sia al metodo che le scienze usano per generare nuova conoscenza che al corpo di conoscenze che derivano dalla sua applicazione. Le scienze vengono poi spesso distinte in varie tipologie: le scienze formali, che includono logica e matematica; le scienze naturali, che includono le scienze biologiche e della vita (ovvero quelle scienze che studiano gli organismi viventi) e le scienze fisiche (fisica, chimica, astronomia); le scienze sociali, che includono tutte quelle scienze che si occupano di studiare le persone e la società, come la sociologia o l’antropologia; infine, si parla di scienze applicate riferendosi a quelle discipline che utilizzano conoscenze scientifiche per creare nuovi strumenti o trattamenti, come nel caso dell’ingegneria – che si basa molto sulle scienze fisiche – o dell’agricoltura e della medicina – che fanno, invece, più riferimento alle scienze naturali.
Le scienze che adottano il metodo scientifico possono essere definite come scienze sperimentali, ovvero sono quelle che ricorrono a esperimenti di laboratorio o sul campo per produrre nuove conoscenze. Non tutte le scienze qui elencate ricorrono necessariamente al metodo scientifico in maniera diretta. La matematica e l’ingegneria, ad esempio, tipicamente non utilizzano il metodo sperimentale, ma sono alla base (come la matematica) o si basano (come l’ingegneria) su evidenze sperimentali prodotte dalle altre scienze.
All’interno del continuum tra le scienze naturali e quelle sociali, la psicologia sperimentale odierna si colloca più vicino alle prime che alle seconde.
Piuttosto che parlare di discipline più o meno scientifiche, secondo Karin Knorr Cetina (nel suo Epistemic Cultures: How the Sciences Make Knowledge, Harvard University Press, 1999), sarebbe più corretto parlare di diverse culture epistemiche che caratterizzano le varie scienze. Studiando il modo in cui diverse scienze (in particolare, la fisica e la biologia) si comportano dentro e fuori il laboratorio, l’antropologa austriaca spiega come ciascuna disciplina scientifica sia caratterizzata da diversi standard che regolano cosa viene ritenuto evidenza e cosa no, come vengono utilizzate queste evidenze, quando ritenerle abbastanza forti da sostenere una teoria, come vengono utilizzati gli strumenti tecnologici e statistici a loro disposizione e come vengono comunicati i propri risultati alla comunità scientifica.
La psicologia sperimentale
All’interno del continuum tra le scienze naturali e quelle sociali, la psicologia sperimentale odierna si colloca più vicino alle prime che alle seconde, essendo basata su metodi e tecniche quantitative molto simili a quelli della biologia o della fisica, come il ricorso alla rappresentazione matematica e al metodo scientifico in senso stretto.
La moderna psicologia sperimentale fu fondata po’ di anni prima di Freud, intorno al 1879, nella città di Lipsia, da un fisiologo e psicologo chiamato Wilhelm Wundt. In quel periodo la distinzione tra psicologia e scienze naturali come la fisica era netta: mentre la prima era qualitativa, ovvero centrata sulla descrizione dell’esperienza soggettiva di quello che chiamiamo mente, le scienze naturali puntavano a descrivere la realtà che ci circonda attraverso i numeri. Intorno alla metà dello stesso secolo, però, Ernst Weber e Gustav Fechner furono tra i primi a pensare che i metodi utilizzati in fisica potessero essere impiegati anche per quantificare i processi mentali: nacque così la psicofisica che, nelle sue prime espressioni, si occupava di studiare la relazione quantitativa tra l’intensità oggettiva di uno stimolo fisico e la sensazione percepita che ne corrisponde soggettivamente. Il peso di un pacco di pasta, ad esempio, ha sia una componente oggettiva, quanti chili?, che una componente soggettiva, quanto lo trovo pesante da trasportare?. L’idea di Weber e Fechner era capire in che modo la nostra esperienza soggettiva del peso dipendesse dal peso oggettivo, e se era trovare una formula matematica che potesse descrivere questo rapporto.
A partire da queste intuizioni teoriche iniziali, Weber e Fechner stessi, assieme ad altri studiosi come Steven e Poulton, si resero conto di come questo principio potesse essere applicato a diversi tipi di stimoli sensoriali – il suono, la distanza, la luminosità. Portarono queste intuizioni in laboratorio per testare scientificamente le diverse ipotesi formulate. In alcuni di questi esperimenti, ad esempio, si chiedeva ai partecipanti di valutare le differenze di variazioni di peso (ad esempio, 100 grammi) in oggetti molto leggeri (1 kg) o molto pesanti (10 kg). Si scoprì così che la differenza minima percepibile era proporzionale all’intensità dello stimolo (in questo esempio, al suo peso). In parole povere, una differenza di peso di 100 grammi non la notiamo in un pacco di pasta da 10 kg come la noteremmo in uno da 1 kg.
Ernst Weber e Gustav Fechner furono tra i primi a pensare che i metodi utilizzati in fisica potessero essere impiegati anche per quantificare i processi mentali: nacque così la psicofisica.
Ispirato da questi primi tentativi, Wundt estese la metodica tipica della psicofisica ad altri ambiti della psicologia, fondando un vero e proprio modus operandi della psicologia sperimentale: il principio secondo cui è possibile misurare i processi mentali, con un certo grado di accuratezza, a partire da espressioni di quel processo che sono misurabili oggettivamente. Da un iniziale tentativo di misurazione, quindi, una reazione a catena ha portato centinaia di psicologi a continuare a sviluppare ed affinare, tramite l’utilizzo del metodo scientifico e della sperimentazione, la misurazione delle nostre sensazioni, emozioni e processi decisionali, per capire sempre un po’ di più come funziona la nostra mente.
Questione di metodo
Quando si parla di metodo scientifico ci si riferisce a un procedimento che serve ad aumentare la conoscenza su un dato fenomeno. È essenzialmente basato su una serie di passaggi che si susseguono in modo circolare ma progressivo: si parte da una fase di osservazione o studio del fenomeno, che permette di farsi un quadro generale di come esso funziona e di cosa già si conosce a riguardo; sulla base di queste osservazioni, vengono formulate delle nuove ipotesi che permettono di spiegare meglio o di comprendere nuovi aspetti di quel fenomeno; segue poi una fase di sperimentazione (o test), durante la quale quelle stesse ipotesi vengono passate al setaccio attraverso appositi esperimenti in cui si cerca di modificare attivamente quel fenomeno in condizioni controllate (per esempio, se ipotizzo che A sia la causa di B, annullando A dovrebbe sparire B) o di confrontare la propria ipotesi con spiegazioni alternative; si cerca, poi, di capire quale è la migliore interpretazione dell’effetto che si è osservato, discutendone e passandolo al vaglio della comunità scientifica, ovvero di altri esperti che devono valutare quanto il metodo e le conclusioni raggiunte siano forti e credibili; i risultati così ottenuti entreranno a far parte del patrimonio di conoscenze su cui si baseranno i nuovi esperimenti che, oltre ad avere l’obiettivo di fare dei passi avanti, avranno anche il compito di replicare quei risultati. E il ciclo ricomincia.
Diversi filosofi hanno proposto riflessioni e critiche al metodo scientifico. Paul Feyerabend, ad esempio, puntò a scardinarne l’apparente rigidità del metodo criticando l’esistenza di un insieme fisso di regole da seguire in maniera obbligata per passare dall’osservazione degli eventi naturali alla formulazione di leggi e teorie. In laboratorio, però, tra le tecniche e gli strumenti dell’attività scientifica quotidiana, le intuizioni a volte consapevolmente provocatorie di Feyerabend faticarono a trovare un appiglio forte. Definire un metodo scientifico sulla base di principi generali fissi, che fanno da linea guida all’intera comunità scientifica internazionale, è infatti cruciale per creare degli standard che permettano di distinguere cosa è speculativo e cosa no, di dialogare tra esperti su una base comune e permettere la replicabilità dei risultati. Seppure è vero che il metodo scientifico non è più fermo alla rigidità della formulazione di Popper (di cui alcune idee restano comunque molto valide), non potrebbe prendere però la deriva anarchica auspicata da Feyerabend (probabilmente più adatta agli studi qualitativi che quantitativi) e continuare a funzionare altrettanto bene.
Sulla base del metodo scientifico, è possibile distinguere le evidenze empiriche, derivanti dalla semplice osservazione o esperienza di un fenomeno, dalle evidenze sperimentali, ovvero quelle evidenze che sono state confermate come tali grazie all’utilizzo di un esperimento controllato, condotto secondo il metodo scientifico, che permette di convalidarne la spiegazione. Anche se non sapremo mai se gli è davvero caduta in testa mentre sedeva sotto un albero del Trinity College di Cambridge, in Inghilterra, l’osservazione della mela che cade in modo perpendicolare verso la terra (evidenza empirica) ha permesso ad Isaac Newton di ipotizzare l’esistenza della gravità. Ma, da vero scienziato qual era, la singola osservazione non poteva bastare a definire la gravità come concetto scientifico. L’osservazione sistematica di un fenomeno (ad esempio, tutti gli oggetti cadono se non sorretti da una forza), infatti, non è sufficiente per attestare una teoria scientifica, perché le spiegazioni di quel fenomeno potrebbero essere molteplici o del tutto casuali.
Quando si parla di metodo scientifico ci si riferisce a un procedimento che serve ad aumentare la conoscenza su un dato fenomeno. È essenzialmente basato su una serie di passaggi che si susseguono in modo circolare ma progressivo.
Uno studio pubblicato nel 2011 da una rivista della Royal Statistical Society ha evidenziato come molte affermazioni, apparse anche su riviste scientifiche, basate sulla semplice osservazione del fatto che due fenomeni sembrano andare di pari passo – come “il caffè causa il cancro al pancreas”, “i grassi transgenici uccidono” o “le donne che mangiano cereali a colazione fanno figli maschi” – tendono ad essere completamente smentite quando vengono testate sperimentalmente. L’osservazione può dare delle buone intuizioni, ma la scienza richiede che queste vengano testate ripetutamente in laboratorio portando sempre agli stessi risultati (online è possibile trovare una lunga e improbabile lista di fenomeni altamente correlati che non sono però legati da alcun nesso di causa-effetto).
Il concetto di gravità proposto da Newton non è ritenuto scientifico sulla base di una singola – né di una serie di – osservazioni. Sono state le successive evidenze sperimentali ottenute in laboratorio applicando il metodo scientifico – ovvero osservazioni ripetute e fatte in condizioni controllate, di risultati in linea con l’ipotesi – che hanno supportato la sua teoria portando a definirla come scientifica. Sempre fino a prova contraria.
All’interno di questo ciclo, non esistono verità assolute, ma solamente provvisorie. Anche le evidenze scientifiche derivanti dal più rigoroso protocollo sperimentale non si ritiene mai che dimostrino una teoria, ma piuttosto che la supportino. Nuove evidenze e osservazioni potrebbero portare a spiegazioni migliori che la scienza è sempre pronta ad accogliere.
Che si tratti di fisica, di biologia o di psicologia sperimentale, il metodo scientifico è sostanzialmente lo stesso. Queste discipline possono produrre evidenze scientifiche attraverso l’applicazione di rigorosi esperimenti che puntano a tenere sotto controllo le possibili variabili di disturbo e misurare quanto il mutare di una variabile (ed una soltanto) alla volta influenzi il fenomeno osservato. Una volta compreso come agisce una variabile, si può passare alla successiva. Seguendo questi principi, qualunque disciplina può contribuire al sapere scientifico adottandone il metodo.
Controllo
Ciò che può però variare molto di disciplina in disciplina, è il grado di controllo che possiamo avere sul fenomeno oggetto dell’esperimento (ovvero, sulle variabili che lo determinano o influenzano) e, di conseguenza, sulla capacità di misurarlo con precisione. Quando vogliamo misurare qualcosa – ovvero quantificarla, esprimerla numericamente – ci sono tre elementi principali che intervengono: lo strumento che si usa per misurare, il fenomeno che si vuole misurare e il metodo che si usa per applicare quello strumento a quel fenomeno.
Immaginiamo di utilizzare un metro per misurare la larghezza di una scrivania. Se:
- Tutte le unità del metro (strumento) sono state disegnate in modo preciso;
- Il tavolo (fenomeno) è fermo e ben dritto;
- Il metro è stato posizionato con precisione da un estremo all’altro del ripiano (metodo);
allora potrò dire di aver effettuato una buona misurazione. Nella maggior parte dei casi, però, non è così semplice. I metri possono essere imprecisi e i tavoli traballanti. E il comportamento umano, ovviamente, è un fenomeno altamente traballante – e, quindi, imprevedibile – perché “scosso” da un numero potenzialmente infinito di variabili. Può cambiare in base all’ora del giorno, a quanto una persona ha dormito, alle emozioni che sta provando, al proprio passato, alle sue aspettative sul futuro e tanto altro ancora. Tutti questi fattori non sono secondari ma cruciali nel determinare un comportamento e hanno un evitabile impatto nella capacità di misurarlo con precisione.
Quando dei fisici cercano di mandare un razzo sulla luna, hanno bisogno di sapere esattamente il modo in cui variabili quali il peso, la velocità, l’attrito o la distanza impattano sul lancio. Per quanto complesse da stimare, il ruolo di queste variabili è prevedibile sulla base di leggi matematiche note, quindi misurabili e controllabili con un basso margine d’errore. Per questo vengono spesso dette “scienze esatte” o “scienze dure”. Molti fenomeni fisici sono stati compresi al punto da poter essere descritti attraverso precise regole matematiche (non a caso, i razzi sulla luna ci sono arrivati con successo più di una volta). Se, però, ci spostiamo verso la fisica quantistica e i processi biologici, fino ad arrivare al comportamento umano, la precisione matematica inizia man mano a scemare e a non essere più in grado di descrivere perfettamente quello che si osserva.
Se, ad esempio, vogliamo provare a prevedere un comportamento umano, scegliendone uno anche apparentemente semplicissimo come la scelta tra due prodotti disposti su uno scaffale del supermercato, i giochi già si complicano enormemente. Non tanto per la complessità del comportamento in sé, ma proprio per la miriade di variabili che possono incidere sulla decisione finale di una persona – in questo caso, oltre alle scelte alimentari: di che umore è, quanta fame o sete ha, da dove viene, dove deve andare o che cosa le è successo durante la giornata. Ciascuno di questi aspetti è inevitabilmente legato ad una serie di emozioni, sensazioni, desideri, esperienze ed obiettivi che complicano ulteriormente il quadro.
Prendendo in considerazione una singola variabile dei due fenomeni, questa complessità diventa ulteriormente chiara: il peso del razzo è dato dalla sua massa e dalla sua accelerazione gravitazionale e, fintantoché ci troviamo sulla terra, non serve aggiungere altro all’equazione per misurarlo con precisione; l’umore di una persona, invece, è dato da una molteplicità di caratteristiche individuali, legate al momento (situazionali) e alla persona (disposizionali), che non sono mai completamente determinabili. Anche se riuscissimo idealmente a creare una lista finita di variabili che incidono su ogni comportamento, sarebbe comunque altamente improbabile poterle controllare tutte. Di conseguenza, il comportamento umano diventa estremamente difficile da misurare con precisione e, quindi, da prevedere.
All’interno di ogni disciplina – dalle scienze naturali a quelle sociali – possono convivere teorie e ipotesi puramente speculative accanto ad altre testate rigorosamente.
Ad eccezione della logica e della matematica (che sono fondate su assunti teorici), nessuna scienza basata su misurazioni empiriche può essere definita tecnicamente una scienza esatta. Ovvero, nessun caso in cui un essere umano utilizzi uno strumento per misurare un fenomeno è privo da possibili errori e imprecisioni. Esiste, però, un grado maggiore o minore di incertezza nella misurazione effettuata che può caratterizzare non solo diverse discipline, ma anche diverse evidenze all’interno della stessa disciplina.
La scientificità di una disciplina, però, non risiede tanto nel grado di certezza o incertezza di un risultato, quanto nel metodo utilizzato per gestire questa incertezza al fine di rendere le concussioni il più solide possibile. In altre parole, una disciplina è scientifica se applica, con scrupolo e rigore, il buon vecchio metodo scientifico e si attiene agli standard che l’intera comunità scientifica ritiene necessari per sostenere un’ipotesi. Alla luce di queste considerazioni, non è tanto importante domandarsi se la psicologia sia una scienza o meno, come valore assoluto, quanto comprendere che all’interno di ogni disciplina – dalle scienze naturali a quelle sociali – possono convivere teorie e ipotesi puramente speculative accanto ad altre testate rigorosamente o, comunque, caratterizzate da un diverso grado di incertezza.
La psicologia si qualifica come scienza nel momento in cui adotta i principi propri del metodo scientifico come mezzo per comprendere meglio i fenomeni che, per quanto traballanti, sono oggetto dei suoi studi. Forse un giorno arriveremo ad essere in grado di descrivere e prevedere ogni comportamento umano attraverso una precisa formula matematica, ma per ora quel giorno è ancora lontano. Lo spazio per la riflessione, la sperimentazione e la proposta di nuove idee su come funziona la nostra mente è ancora vastissimo. E, forse, non è poi un male.