A aron Paul Orsini racconta con ritmo sincopato, mette in fila i pensieri uno dopo l’altro. “Ciao mi chiamo Aron. Quando avevo 23 anni mi è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico (ASD). Quando avevo 27 anni ho assunto LSD. Quando l’LSD ha incontrato l’ASD ho provato un sollievo incommensurabile – e, in un certo senso, ho trovato la cura definitiva – nella mia battaglia contro l’ASD. Voglio chiarire: l’LSD non ha curato la mia condizione come un antibiotico cura un’infezione. Ma l’LSD mi ha permesso di renderla gestibile. La mia mente ora è calma. La mia consapevolezza più ampia. E ciò che prima mi sembrava confuso e spesso incomprensibile ora è chiaro. Questo mi consente di vivere la mia vita in un modo prima impossibile”.
Una persona con un disturbo dello spettro autistico nella vita della quale c’è stata una svolta, segnata dall’assunzione, casuale e disperata, di LSD. L’etilammide dell’acido lisergico ha permesso al cervello di Aron, per la prima volta, di funzionare anche in un modo differente, di capire finalmente come funziona quello degli altri e, di conseguenza, nel tempo, di valorizzare la sua neurodivergenza.
Il suo percorso Aaron lo ha raccontato in un libro, Autism on acid, uscito nel 2019, che accompagna il lettore in un viaggio prezioso: prima lui, forse solo Temple Grandin era riuscita a raccontare così bene l’universo in cui vivono molti autistici. Aaron ripercorre che cosa ha significato, per lui, vivere fino a 27 anni con un tipo di pensiero che si potrebbe definire binario, dove ogni ragionamento procede per tappe successive, deduttive, e dove nessuna tappa o quasi interseca le precedenti, o quelle laterali, come invece accade a chi, non autistico, vive attorno a lui. Aaron ha bisogno di tempo per elaborare ogni informazione, e solo a processo avvenuto può passare alla seguente.
“Se qualcuno mi diceva: come sono contento che fuori piova” scrive “ero sopraffatto da una quantità di pensieri che si affollavano aggressivamente tutti insieme dentro di me. Dovevo capire il valore simbolico del nesso tra la pioggia e la contentezza. Poi dovevo capire che cosa io stavo provando. Se avessi o meno sentito una frase simile in passato, e come l’avessi interpretata. Quindi dovevo cercare di decrittare l’espressione e la mimica corporale di chi mi stava parlando, frugando nella memoria alla ricerca di situazioni simili che mi aiutassero a capire. Tutto questo mi faceva sentire più simile a un robot o a un algoritmo che a un essere umano. E mi lasciava esausto, frustrato e depresso”.
Aaron Paul Orsini ha raccontato il suo percorso di persona con un disturbo dello spettro autistico nella vita della quale c’è stata una svolta, segnata dall’assunzione, casuale e disperata, di LSD.
Questo tipo di calvario spiega perché, spesso, gli autistici finiscano per autoisolarsi e perché l’ansia sociale sia uno dei tratti più caratteristici dell’ASD: ogni esperienza si risolve nello sforzo immane di capire, di apprendere che cosa fanno e pensano gli altri esseri umani in essa, e nel tentativo di diminuire la distanza. Ma la lotta è permanente, titanica e inane, e genera enormi frustrazioni, e rabbia, e depressione perché destinata in parte a fallire, e perché si ripropone a ogni contatto, ogni giorno.
“Non mi sentivo depresso. Mi sentivo semplicemente perso. Profondamente, totalmente perso. Nessuno sembrava capire che cosa mi succedeva, come vivevo. Come avrebbero potuto? Loro non erano me” scrive poche pagine dopo, sottolineando che la sua situazione familiare era ottima ma che, nonostante ciò, e nonostante anni passati sotto la guida di quasi ogni possibile forma di terapia farmacologica e psichiatrica/psicologica, non percepiva alcun miglioramento, alcun passo in avanti. Da qui la depressione, con tutti i sintomi della forma grave, con ruminazione dei pensieri e perdita totale di speranza, di prospettiva, di volontà.
La sua vita era diventata un inferno, e non era il caso di prolungarla. Meglio suicidarsi, dopo essere andato via da casa. Aaron aveva comprato un biglietto del treno, per realizzare il suo progetto suicidario. Ma durante il viaggio gli era stata casualmente offerta la possibilità di provare l’LSD. Aveva accettato. “Mi sono seduto in un bosco, in attesa dell’ennesimo fallimento del tentativo di sfuggire all’inferno” scrive. E invece, sin dalla prima assunzione, Aaron inizia a provare sensazioni e pensieri fino a quel momento sconosciuti, e che si potrebbero riassumere in una parola: empatia. Finalmente riesce a comprendere in che modo gli altri vivono ed elaborano le esperienze, gli stati d’animo, le emozioni. Per lui il mondo resta diverso – lui non li vive allo stesso modo, e per questo dirà di non essere stato curato in senso classico – ma finalmente comprende, e la sua mente non è più un entropico e defatigante insieme di tentativi falliti.
Gli accade, spiega, qualcosa di simile a ciò che succede quando un sordo dalla nascita, per la prima volta, grazie a un impianto cocleare, decodifica quei vaghi e confusi suoni che ha sempre percepito e considerato solo una cacofonia priva di senso, e inizia a sentire suoni compiuti. Nei mesi e anni successivi, Aaron prova ogni possibile dosaggio e protocollo, dal microdosing a dosaggi di mantenimento, da assumere un paio di volte alla settimana per evitare che si instauri una dipendenza o una tolleranza, con l’aiuto di terapisti e medici. Alla fine, però, decide di smettere, perché sente di aver acquisito ciò che gli psichedelici potevano dargli, e perché ha imparato a coltivare l’empatia anche in altri modi. Per tutto il libro, Aaron ripete che non consiglia a nessuno di esplorare questa via senza un più che solido supporto medico, perché essendo vietata i rischi sono enormi. “Io credo nella libertà cognitiva e corporea” mi dice in una lunga intervista, “e se una persona vuole fare questo tipo di esperienza ne ha tutto il diritto. Ma prima deve essere correttamente informato sui rischi, sulle controindicazioni, e deve essere guidato da un medico in un contesto adeguato, dopo aver avuto la certezza che le sostanze siano state controllate per quanto riguarda la purezza e la potenza”.
Secondo i ricercatori, la sinergia tra potenziamento della plasticità neuronale ed effetto antidepressivo potrebbe essere di grande aiuto agli autistici.
Il punto è che si tratta di sostanze illegali: su questo insiste Aaron, citando i pochissimi studi esistenti, e supplicando i governi affinché cambino atteggiamento, e permettano la conduzione di sperimentazioni che confermino o meno le potenzialità dell’LSD e di altri psichedelici nell’autismo. “I presupposti teorici ci sono” concorda Tommaso Barba, ricercatore del team di Robin Carhart-Harris, dell’Imperial College di Londra, dal quale sono arrivate alcune delle scoperte più importanti degli ultimi anni. “Nell’autismo, infatti, ci sono delle carenze e delle irregolarità nelle connessioni tra le diverse aree cerebrali: in alcuni casi, le stesse dove l’LSD aumenta in misura significativa la plasticità neuronale, cioè la capacità di formare nuove connessioni. Questo spiega gli psichedelici perché potrebbero essere molto efficaci, dando agli autistici la possibilità di interpretare con vie neuronali nuove”. E non è tutto.
Barba, che ha lavorato sull’efficacia della psilocibina rispetto a quella degli antidepressivi, verificata in parametri quali la ruminazione in una sessantina di pazienti con depressione maggiore, sottolinea l’importanza anche di questo effetto in persone che, quasi sempre, rientrano nella definizione di depresso grave. “La sinergia tra potenziamento della plasticità neuronale ed effetto antidepressivo potrebbe essere di grande aiuto agli autistici”.
La storia degli studi sulle possibili azioni terapeutiche nell’autismo, in realtà, è quantomai scarna: nel 1969, cioè poco prima del divieto generalizzato dell’OMS (del 1971), era stata pubblicata una sintesi di sette studi che avevano coinvolto un totale di 91 bambini autistici-schizofrenici trattati con 100 microgrammi di LSD, ma l’estrema variabilità dei protocolli, e anche della tipologia di pazienti, ha reso i risultati di quei test inutilizzabili. Nei lunghi decenni seguenti, nei quali la ricerca si è quasi fermata, di fatto nessuno ha continuato a studiare pazienti così complessi, la cui malattia si articola in innumerevoli quadri clinici (per questo si parla di spettro autistico) e che comportano anche questioni etiche molto rilevanti, quando si tratta di bambini.
Quarant’anni dopo solo la MAPS (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies) ha effettuato uno studio su 12 adulti, quattro dei quali trattati con un placebo e gli altri con MDMA, dal quale è emerso, stando a quanto pubblicato nel 2018 su Psychopharmacology, un rapido e duraturo effetto sull’ansia sociale, e soprattutto un cambiamento profondo e permanente della qualità di vita che, a sei mesi di distanza, è ancora presente, e stabile e sorprendente (per esempio, i ragazzi tornano a scuola, e recuperano una buona socialità).
Gli studi sono ancora pochi, ma quelli che sono fatti finora mostrano come gli psichedelici portino a un rapido e duraturo effetto sull’ansia sociale, e soprattutto un cambiamento profondo e permanente della qualità di vita.
Ma qualcosa, forse, si sta muovendo. La Nova Mentis Life Science Corp, azienda canadese che punta sulla psilocibina proprio per l’ansia sociale, ha lanciato uno studio per approfondire i rapporti tra autismo e microbiota intestinale incentrato sul metabolismo della serotonina, lo stesso neurotrasmettitore al centro dell’azione di LSD e psilocibina. Inoltre ha già avviato una collaborazione con Viviana Trezza, dell’Università di Roma Tre, per verificare le ipotesi sui modelli animali di autismo: i primi lotti di psilocibina pura sono arrivati in Italia in febbraio. Intanto, anche l’Università di Chicago è partita con il reclutamento per uno studio – al momento l’unico – che valuterà gli psichedelici negli autistici.
Se gli esiti di questi studi fossero positivi, e se ve ne fossero molti altri, l’approccio stesso all’autismo potrebbe vivere un’autentica rivoluzione. Necessaria, dopo uno stallo da cui non si capisce come uscire, e che è emblematico di molte altre situazioni nelle quali, negli ultimi anni, pur avendo ottenuto grandi risultati dal punto di vista genetico, molecolare e in generale biologico, non ci sono stati passi in avanti da quello clinico, cioè benefici reali per i pazienti. E questo a fronte di un continuo aumento delle diagnosi (triplicate negli ultimi vent’anni nei soli Stati Uniti), dovuto solo in parte al miglioramento delle definizioni e dei marcatori.
Gli esperti del settore ne discutono da tempo, perché nel caso degli autistici la discrasia è clamorosa: da anni si accumulano conoscenze di base, per esempio sui geni che conferiscono una predisposizione, ma non si riesce a tradurle in qualcosa di utile. Probabilmente, come è anche emerso in un drammatico meeting internazionale del 2019, contraddistinto da rumorose proteste e richieste di cambiamenti molto significativi nell’impostazione delle ricerche da parte della comunità degli autistici, tutto ciò è avvenuto perché i pazienti non sono mai stati coinvolti in prima persona nella progettazione. A loro, nessuno ha mai chiesto di che cosa avessero realmente bisogno, e i ricercatori troppo spesso sono andati in direzioni che avevano molto a che fare con i massimi sistemi della scienza, e pochissimo con la fatica quotidiana raccontata da Aaron.
Chi studia gli psichedelici sa che queste sostanze sono sempre considerate nell’ambito di percorsi multidisciplinari che partono dal singolo, e che puntano a trasformarne l’esistenza, e non a curare un sintomo.
Ma chi studia gli psichedelici sa che queste sostanze sono sempre considerate nell’ambito di percorsi multidisciplinari che partono dal singolo, e che puntano a trasformarne l’esistenza, e non a curare un sintomo. Del resto, questo è ciò che è successo ad Aaron, e lo si capisce da ciò che è diventato, negli anni, e da come mi risponde quando gli chiedo che cosa è successo, dal 2019 a oggi. “Gli psichedelici”, mi spiega, “mi hanno dato energia e ottimismo. Hanno ridotto la mia paura e l’ansia di essere infelice. Mi hanno aiutato a sentirmi a mio agio nel riconoscere quali tipi di attività o persone o situazioni mi rendono infelice. Mi hanno fatto capire che cos’è la felicità, per me. E mi hanno concesso la pazienza di considerare l’infelicità come uno strumento per capire cosa devo fare per trovare armonia”.
Gli psichedelici hanno accompagnato Aaron in un percorso che ha avuto una profonda influenza sulla sua vita fino a trasformarla. Oggi, mi spiega, non ne fa più uso se non sporadicamente, preferendo dedicarsi alla meditazione, alla respirazione, agli affetti familiari e alle relazioni sociali: “gli psichedelici sono strumenti meravigliosi. Ma lo sono anche l’amore, la gentilezza, la generosità, la tolleranza, l’accettazione e la compassione”.
Aaron è andato molto oltre al superamento della sua infelicità: oggi è consapevole e orgoglioso della sua diversità ed è diventato un riferimento per una comunità che oggi si ritrova in un sito, AutisticPsychedelic.com. “Anche grazie alla rete, non mi sento più un’eccezione. Sono sempre più circondato da menti divergenti che sembrano divergere in modi simili. E quindi certo, sono ancora autistico, ma sento di non essere più un outsider, perché ho trovato il mio posto nel mondo. Tutti abbiamo modi unici di percepire. E oggi non sono più molto preoccupato per il mio modo autistico di vedere il mondo. Lo capisco e lo apprezzo, così come capisco e apprezzo quello degli altri. Sento di essere solo un membro di una diversa specie di esseri umani. E questo non è né buono né cattivo. È proprio così. Sono solo un essere umano”.