D opo la cena di Natale del gruppo di ricerca in cui lavoravo all’università di Cambridge, il professor Christopher Dobson, master del St. John’s College, ci radunò nel suo studio. Indicò un lungo panno nero che pendeva da un appendiabiti: “Questa è la toga accademica di Paul Dirac”.
Passai brevemente un lembo della toga fra le dita, come me molti miei colleghi.
Toccando quella stoffa che aveva vestito uno dei padri della fisica moderna, avevamo, in qualche modo, sfiorato Dirac stesso. Poco importa che io, biologo, capissi poco o nulla della matematica che sviluppò il fisico inglese: lungo la schiena mi scivolò ugualmente un brivido azzurro. In quella stanza eravamo tutti scienziati, eppure il senso di quel momento era inequivocabilmente religioso.
La scienza vorrebbe essere la più laica delle discipline, ma non può rinunciare al sacro. Oggi, per la centotredicesima volta in centosedici anni, celebra la sua più alta liturgia. Quella di Stoccolma.
La caduta dei santi
In un brillante libro appena uscito (Come vincere un premio Nobel, Einaudi 2017) Massimiano Bucchi scrive:
“Il “tocco reale”, la consegna del diploma e della medaglia da parte del re di Svezia che trasforma ufficialmente uno scienziato brillante in un premio Nobel è stato accostato al cerimoniale di “consacrazione” e incoronazione che trasfigurava i sovrani nei “re taumaturghi” studiati da Marc Bloch, la cui la credenza di origine medioevale attribuiva la capacità di guarire dalle scrofole con il tocco delle mani. Numerose anche le analogie che sono state sottolineate tra la procedura per il conferimento del premio Nobel e quella di canonizzazione in ambito religioso. In entrambi i casi vi è un’elaborata istruttoria, […] vi sono “promotori” della causa di canonizzazione cosí come dell’assegnazione di un Nobel (gli scienziati che inviano le nominations);[…] occorre individuare almeno uno specifico «miracolo» compiuto dal soggetto in questione (ovvero in chiave scientifica, una scoperta o invenzione specifica meritevole del premio); occorre rispondere a domande quali “la fama di virtù straordinaria del candidato è veramente fondata?”
C’è però una grossa differenza tra i due riti. I santi vengono saggiamente canonizzati dopo la morte; i Nobel devono essere conferiti da vivi. Da un lato questo è parte del ruolo del premio: dare un volto umano a discipline remote e astratte. Dall’altro, ricevere quella che è universalmente considerata la più alta onorificenza dell’umanità non è qualcosa per cui le menti mortali sono preparate. Ne deriva quella che è stata definita tra il serio e il faceto la malattia dei Nobel. È il fenomeno per cui, conferito il premio, il Nobel comincia a sostenere senza ritegno le più imbarazzanti corbellerie. Chi si vuol divertire ne trova una lista su RationalWiki, ma possiamo citare le teorie razziste di James Watson, Kary Mullis che nega il rapporto AIDS-HIV, il sostegno all’omeopatia di Luc Montaignier, fino a Brian Josephson che sostiene l’esistenza della telepatia.
Parte del ruolo del premio Nobel è dare un volto umano a discipline remote e astratte.
È difficile capire cosa accada nella testa di un Nobel, ma possiamo ipotizzare che il vincitore si senta finalmente autorizzato a slacciare le sicure cognitive. Se prima era costretto a mettere in discussione o anche solo a mantenere il pudore sulle proprie convinzioni eterodosse, ora non c’è più alcuna autorità che possa scippargli fama e immortalità. E se si è abituati ad avere sempre ragione, non ci si abitua a pensare di avere torto. Bradley Voytek ha notato infatti un “effetto prodigio”: i Nobel affetti dal problema tendono a riceverlo in età più giovane rispetto agli altri. Secondo la sua ipotesi hanno avuto un successo troppo grande, troppo presto, cristallizzando l’arroganza giovanile. C’è anche chi invece reagisce al Nobel con il dovuto timore, per fortuna: Brian Schmidt, premio Nobel per la fisica nel 2011, ha affermato che “una delle insidie dell’essere un Nobel è che le nostre voci sono troppo forti quando si tratta di opinioni personali – e, per questo, devo essere molto più cauto su quanto dico e scrivo rispetto a prima”.
Il Nobel onora il metodo scientifico basandosi sul suo esatto contrario, ovvero il principio di autorità. Non è un caso isolato: spesso la comunità scientifica non sa e non vuole sbarazzarsi dell’auctoritas, a volte la fomenta arrivando a dichiarazioni come la scienza non è democratica, vuoi per desiderio di riconoscimento sociale, vuoi perché titoli e i premi sostituiscono la difficoltà del dialogo con la società. Ma il Nobel, nel farlo, denuda il re, e sotto lo smoking cerimoniale anche le più grandi menti sono vittime, come tutti, delle umanissime trappole psicologiche e cognitive.
Agnello svedese, che togli i peccati dal mondo
Com’è noto, il premio Nobel nasce per espiare. Nel 1888 un quotidiano francese pubblicò per errore uno sprezzante necrologio di Alfred Nobel: avevano scambiato la morte del fratello per la sua. Il mercante di morte è morto, titolava. A poche persone tocca conoscere come potrebbero essere ricordate: Alfred Nobel, chimico, ingegnere, filantropo, inventore con centinaia di brevetti ma noto per aver inventato dinamite e gelignite, seppe di trovarsi sull’orlo del biasimo eterno. Fu uno dei primi momenti in cui, per dirla con Oppenheimer, la scienza conobbe il peccato.
Il peccato chiama la redenzione, e la redenzione richiede il sacrificio: il premio Nobel nasce quando Nobel muore. È nel suo testamento, infatti, che stila le regole del premio in cui i progressi delle scienze, della letteratura e della pace oggi sono celebrati. Ogni cerimonia, svoltasi ogni anno da 116 anni (con l’eccezione di 1940,1941 e 1942) è una Messa che ripete l’espiazione del peccato originale – con tanto di medaglia circolare a ricordare l’eucarestia. Momento in cui si ascende a un ideale puro di intelletto umano che scopre e crea per il Bene.
Alle figure di scienziato-sacerdote plasmate dal Nobel non manca una componente ascetica. Chi non ricorda la figura elegantissima e metafisica di Rita Levi Montalcini?
I Nobel sono simboli umani di una ipotetica scienza celeste, verbo fatto carne per ispirare i mortali. Così il professor Carl-Henrik Heldin, attuale presidente del comitato Nobel, aprendo la cerimonia del 2016: “[Alfred Nobel] comprese il potere dell’esempio, e questo è il concetto al centro delle sue volontà. I buoni esempi si mostrano tramite parole e opere, dimostrando che è possibile comprendere e migliorare il mondo.” Certo, talvolta i Nobel premieranno figure scientifiche i cui ruolo nel “migliorare il mondo” è stato quantomeno complicato: da Fritz Haber, la cui sintesi dell’ammoniaca fu chiave per la Rivoluzione Verde, ma protagonista della sintesi di armi chimiche durante la prima guerra mondiale (quando vinse il Nobel era anche in una lista di criminali di guerra), a Antonio Edgas Moniz, inventore della lobotomia. Ma questi incidenti non scalfiscono significativamente il senso etico ed esemplare che diamo al Nobel.
Sempre Bucchi ci fa notare che alle figure di scienziato-sacerdote plasmate dal Nobel non manca nemmeno una componente ascetica. Chi non ricorda la figura elegantissima e metafisica di Rita Levi Montalcini, che dichiarò ai giornali “Vivo di poco: la mia dieta è a base di riso bollito, pesce congelato e vegetali. Sto benissimo e tanto mi basta”, come un monaco tibetano? Sono agiografie più giornalistiche, ma il loro contributo al nostro immaginario della scienza e al suo ruolo nella società è forte. Senza il Nobel, sarebbe comunque divenuta l’ideale umano di un Paese?
Un ciclotrone val bene Stoccolma
È chiaro che questa idea del Nobel come disinteressata consacrazione della conoscenza e del bene dell’umanità si sbriciola come un sogno appena si prova a metterla a fuoco. Alfred Nobel nel testamento scrisse “è mio espresso desiderio che i premi siano assegnati senza tenere in alcun conto la nazionalità dei candidati, in modo che essi siano conferiti ai più degni, scandinavi o no”, ma il Nobel divenne da subito terreno di competizione internazionale, se non addirittura un obiettivo politico. Nel 2001 il governo giapponese si pose il traguardo di ottenere 30 premi Nobel entro il 2050, e ci furono sospetti di goffi tentativi di corruzione per avvicinarsi all’obiettivo. Le clamorose e ripetute recenti esclusioni dal premio di scienziati italiani quali Vincenzo Balzani, Nicola Cabibbo e Giovanni Jona-Lasinio, esclusi da Nobel assegnati per scoperte a cui diedero contributi fondamentali, sono state considerate il grave sintomo di un’Italia incapace di sostenere il prestigio della propria ricerca.
A volte si è trattato di questioni ben più piccine tra accademici svedesi. Lo racconta lo storico della scienza Robert Marc Friedman in The Politics of Excellence (Times Books, 2001) fitta raccolta di retroscena dietro le assegnazioni dei premi Nobel per la chimica e la fisica. Un esempio tra i tanti: l’acredine personale tra il chimico Svante Arrhenius e il matematico Gösta Mittag-Leffler rischiò di costare il premio Nobel nientemeno che a Max Planck.
“Quando Arrhenius convinse il comitato ad appoggiare un premio diviso, nel 1908, tra Max Planck e Wilhelm Wien per la radiazione di corpo nero, Mittag-Leffler disseminò nell’Accademia la voce che il lavoro di Planck richiedeva ‘molecole ipotetiche di energia’ (il quanto) che non erano menzionate nel rapporto di valutazione. Si godette poi lo spettacolo dell’Accademia che, disorientata, rifiutò la proposta di Arrhenius. Nel caos che seguì, l’Accademia decise di assegnare il premio a Gabriel Lippmann per il suo lavoro sulla fotografia a colori.”
Ci sarebbero voluti dieci anni per rimediare del tutto (Wien vinse nel 1911; Planck nel 1918). Arrhenius si vendicò sabotando la proposta di Mittag-Leffler di assegnare un premio a Henri Poincaré: instillando nella commissione una pregiudiziale sul premiare scoperte teoriche in fisica che avrebbe avuto ripercussioni future. Poincaré morì nel 1911, senza premio.
L’idea del Nobel come disinteressata consacrazione della conoscenza e del bene dell’umanità si sbriciola come un sogno appena si prova a metterla a fuoco.
Il Nobel è stato anche merce di scambio tra scienziati. Sempre Friedman racconta come verso la fine degli anni ’30 il fisico americano Ernest Lawrence e quello svedese Manne Siegbahn (premio Nobel nel 1924 e membro dell’Accademia delle Scienze di Svezia) si trovarono ad aver bisogno l’uno dell’altro. Lawrence, inventore del ciclotrone, ne desiderava uno da un milione di dollari; milione per cui doveva convincere una scettica Rockefeller Foundation. Siegbahn a sua volta voleva un ciclotrone per poter guidare la fisica svedese, ma per farlo aveva bisogno del know-how e del supporto politico di Lawrence. Cosa meglio di un premio Nobel per sbloccare la situazione? Certo, l’invenzione di Lawrence, per quanto importante, non aveva ancora dimostrato all’epoca una abbagliante, solida, rivoluzionaria scoperta meritevole del premio. Non importa. Siegbahn fece una accurata opera di lobbying e convinse un’Accademia riluttante ad assegnare il premio al sodale, nel 1939. Di fronte alla medaglia, Rockefeller cedette e assegnò il milione a Lawrence. A sua volta Siegbahn ora poteva contare sull’appoggio di Lawrence per battere cassa e ottenere fondi per il suo ciclotrone – cosa che infatti avvenne.
Visto che parliamo di Manne Siegbahn, ricordiamo che fu responsabile di una delle più scandalose esclusioni dal Nobel, ovvero il mancato premio a Lise Meitner per la scoperta della fissione nucleare. Il problema? All’alba dell’era atomica, premiare una regina della ricerca nucleare come la Meitner – rifugiatasi in Svezia durante il nazismo – l’avrebbe messa in una posizione inamovibile di potere, spodestando Siegbahn (e altri suoi colleghi) nella gerarchia della fisica svedese. Meglio evitare, e premiare solo il collega tedesco Otto Hahn, che non solo in Germania non dava alcun fastidio, ma era spendibile come un leader politicamente ‘pulito’ per una ricerca atomica europea sotto l’egida degli Alleati.
Mille lati di una sola medaglia
Il premio Nobel ha senso in quanto capriccioso. Concede un massimo di tre premiati, col risultato che spesso quarti o addirittura quinti altrettanto responsabili di una scoperta vengono forzosamente esclusi, spesso con criteri incomprensibili. Ignora intere discipline, notoriamente la matematica. Esclude personaggi apparentemente inevitabili, e premia contributi secondari. Ratifica lotte di potere tra discipline, accademici, ideologie. La segretezza dietro le decisioni dei comitati del Nobel (solo i documenti più vecchi di 50 anni vengono resi disponibili) riveste tutto del necessario alone esoterico. Tutto questo, lungi dallo screditare il premio, è la sua linfa: ci consegna la suspence quando attendiamo il verdetto, ci fa discutere quando c’è una decisione bizzarra, ci fa ragionare su scoperte che avremmo ignorato o su quelle che avremmo premiato. L’enigma dei Nobel è un motore di conversazione culturale collettiva unico al mondo.
Di tutti i difetti del premio Nobel in ambito scientifico, dallo sbilancio di genere alla visione arcaica delle discipline, quasi certamente il più lamentato è il fatto che ignori completamente l’essenza collettiva della scienza contemporanea. Nonostante il regolamento permetta di premiare associazioni o enti, de facto solo il premio Nobel per la pace lo ha fatto; gli altri comitati da sempre assegnano il premio solo a – per regolamento – massimo tre individui. La scienza odierna però non è quella dei tempi di Alfred Nobel: le grandi scoperte di oggi sono il frutto del lavoro di dozzine, centinaia o migliaia di ricercatori. Il genio solitario che rivoluziona la scienza, che già era un mito ai tempi di Einstein o Darwin, oggi è inconcepibile. Con le assurde esclusioni che ne derivano. Non si può dare un Nobel al Progetto Genoma Umano. Non si può dare un Nobel al CERN. Non si può dare un Nobel alla NASA. Alcune delle scoperte più fondamentali degli ultimi 50 anni non arriveranno mai a Stoccolma, perché non ci sono uno, due, tre Tizia o Tizio precisi che possano metterci un nome e ritirarlo.
Tra i difetti del premio Nobel in ambito scientifico, il più lamentato è il fatto che ignori completamente l’essenza collettiva della scienza contemporanea.
Se Alfred Nobel in origine voleva che il suo premio incoraggiasse i giovani ricercatori, oggi il Nobel è spesso una alluvione sul bagnato, che attira finanziamenti verso pochissimi e spesso già potenti ricercatori invece di ridistribuirli in modo più razionale – si vedano i milioni di dollari che vengono versati ai premi Nobel per la loro ricerca, dopo il Nobel. Una meritocrazia in folle, dove pochi (giudicati) meritevolissimi prendono tutto e agli altri restano le briciole. È un alto prezzo da pagare, secondo la sociologa e storica della scienza Elisabeth Crawford, su Science:
“Il mito è necessario per la coesione di gruppi e istituzioni. Il mito del Nobel come scopritore solitario può essere quello che preserva qualcosa dell’innocenza della scienza, in un’epoca in cui i costi dei progetti ricompensati da un premio sono di milioni se non miliardi di dollari, con dietro team di ricerca di centinaia di membri. Ma il mito non è così innocente, quando il premio Nobel maschera la realtà aumentando a dismisura l’influenza di un singolo scienziato, ignorando elementi cruciali per l’impresa scientifica.”
Ma a volte quelle briciole sarebbero ancora meno senza i volti dei Nobel a illuminare l’opinione pubblica e i finanziatori. I giorni del Nobel sono i giorni in cui la scienza occupa di diritto le prime pagine dei giornali e uno spazio in televisione; i Nobel sono gli scienziati di cui sentiamo parlare fin da bambini e che ispirano la carriera di scienziati del futuro. La voce dei Nobel è forse l’unica che riesce a farsi udire quando si parla delle storture dell’attuale sistema di politiche della ricerca, o dell’ossessione per l’accumulo di pubblicazioni. In molti casi il Nobel è un riconoscimento e uno stimolo a filoni di ricerca che non rientrano facilmente nell’ottica un po’ miope di risultati concreti e immediatamente spendibili che governa molte agenzie di fondi. La Corea del Sud non avrebbe finanziato un rivelatore di assioni (particelle ipotetiche che potrebbero costituire la materia oscura) senza la prospettiva di far vincere a qualche ricercatore un premio Nobel per la fisica.
Ogni anno, con i Nobel, gli editoriali si chiedono se abbia senso onorare la scienza con un rito feudale in cui un monarca santifica un oracolo. I critici hanno ragioni da vendere. Propaga un’immagine falsa e fumettistica della scienza; umilia, ignorandola, la sua intrinseca essenza collettiva; perpetua il più arcaico e pernicioso culto dell’auctoritas.
Allo stesso tempo il Nobel è una zattera di simboli e maestà di cui la scienza non può ancora fare a meno per stare a galla nel mondo. Alla luce delle medaglie decorate dal profilo malinconico di Alfred Nobel riverberano ogni autunno le contraddizioni della scienza contemporanea, lo yin e lo yang della sua natura di impresa umana.