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l soffitto della grotta è attraversato da una mandria di bisonti rossi, mattone, e neri sulle criniere e le corna: sono le pitture rupestri della grotta di Altamira, lì da 16 mila anni. A chi si trova nella città spagnola di Burgos servono due ore di auto per arrivare alla caverna, a Santillana del Mar, sulla costa atlantica in Cantabria. Durante un viaggio in auto con alcuni amici avevamo deciso di deviare e passare lì; solo quando eravamo ormai tornati a casa, avevo letto che le grotte originali non erano visitabili e che quella che avevamo visto era una copia più confortevole, con le passerelle luminose sul pavimento. Il fiato dei numerosi visitatori aveva messo a rischio il buono stato delle pitture e così nel 2001 ne era stata realizzata una riproduzione.
Sedicimila anni, ma Altamira era frequentata da più tempo: altre rappresentazioni sulle sue pareti risalgono infatti a ventimila anni fa e, secondo uno studio uscito su Science, alcuni segni, una mano impressa e un simbolo claviforme, daterebbero oltre i trentacinque mila anni fa. Più o meno in quello stesso periodo in Francia, a Chauvet, in un’altra grotta si disegnavano altri animali, cavalli, uri, bisonti e leoni delle caverne: nasceva il più antico esempio di arte preistorica.
Tra i primi segni di Altamira e i suoi bisonti passano più di quindicimila anni, cioè tanto tempo quanto tra quegli stessi bisonti e la nostra ingenua visita turistica. Come dice Werner Herzog nel suo documentario Cave of forgotten dreams: “noi siamo incastrati nella storia, loro non lo erano”. Quali culture, infatti, per così lungo tempo possono trasmettere la conoscenza di quei luoghi e la necessità di tornarci? Gli abitanti dell’Europa del Paleolitico, i Cro-Magnon, erano nomadi o seminomadi, cacciatori e raccoglitori e seguivano le rotte delle renne che cacciavano. Seguendo quali vie e quali intenti ritornavano ai loro disegni e dipinti, anche di millenni precedenti, perché e con quale frequenza tornavano lì a lasciare altri segni?
Le vie per quella grotta, e di altre simili a quella, sono riemerse, negli ultimi secoli, da un tempo umano che ci sembra incredibile. È successo spesso per caso, grazie ai giochi di qualche ragazzo o a cani in cerca di un odore. Gli studiosi che l’hanno esplorate ci hanno immaginato sciamani o hanno visto, dietro cavalli selvaggi, vulve e altri simboli, le ombre di un’idea scomparsa del mondo, alla ricerca di significati e origini che ci appaiono ancora oggi per lo più indecifrabili.
“¡Mira, papá, bueyes!”
La storia della scoperta della grotta di Altamira è un elenco di coincidenze e di nomi di persone del posto – molte delle grotte preistoriche sono tornate alla luce grazie a persone del posto. Un cacciatore e un cane sono a caccia, il cane è all’inseguimento di una preda, ma resta intrappolato tra alcune pietre; il cacciatore, venuto per aiutarlo, nota un passaggio sotterraneo; è il 1868. Ne parla in giro e sette anni più tardi un pastore segnala quel passaggio al proprietario del podere, l’archeologo dilettante Marcellino Sanz de Sautola, che vi si inoltra e scopre alcuni oggetti dall’aria antica. Qualche anno dopo all’Esposizione internazionale di Parigi vedrà in mostra oggetti preistorici del tutto simili. Tornerà così al suo podere di Altamira con la figlia Maria, di otto anni. Qui Maria, mentre il padre resta all’imbocco della grotta cercando altri reperti, si inoltra con una lampada all’interno della caverna, arriva nella grande sala dei bisonti e grida, secondo il racconto, “mira, papá, bueyes”, guarda papà, buoi.
Anche la scoperta di Lascaux è una storia di cani e di ragazzi. È il settembre del 1940, quattro ragazzi e il cane Robòt stanno facendo una passeggiata fuori Montignac in Dordogna, in quella parte di Francia che da due mesi è sotto il governo di Vichy. Secondo la versione più nota, Robòt scatta all’inseguimento di un coniglio che si rifugia in un cunicolo. Allora Marcel, uno dei ragazzi, cerca il cane ma trova anche il cunicolo che comunica con uno spazio più vasto.
Quattro giorni più tardi torna con altri amici e qualche lampada a olio per esplorare quello spazio. Come alla luce delle torce, sulle pareti della grotta compaiono prima mandrie di cavalli di dimensioni diverse, neri, rossi, ocra, e quattro grandi bovini dalle corna a lira – è l’uro, il toro selvatico che popolava l’Europa del tempo – e poi cervi e stambecchi, e nelle sale successive, altri cervi e uri e cavalli, una renna e un orso, un rinoceronte lanoso, dei felini. Per dipingerli gli uomini di Cro-Magnon hanno usato rudimentali pennelli o dita, e per riempire di colore hanno soffiato con cannucce i pigmenti: carbone vegetale e ossido di ferro per il nero, argilla per il giallo, calcite per il bianco, ematite per il rosso.
I ragazzi informano della scoperta un loro insegnante in pensione, la voce circola e un altro uomo a conoscenza della grotta entra e realizza degli schizzi su foglio dei dipinti preistorici. Porta i disegni a un amico d’infanzia che nel frattempo è diventato uno tra i più noti studiosi di preistoria in Francia: l’abbé Henri Breuil.
Il papa della preistoria e lo stregone
Henri Breuil era stato ordinato sacerdote a Parigi, ma non aveva nessuna intenzione di fare la vita normale del parroco. Era da sempre interessato alla preistoria e aveva così chiesto un congedo dai doveri di sacerdote per dedicarsi solo allo studio. Così andrà: non avrà mai incarichi ecclesiastici, ma si guadagnerà il nome di papa della preistoria. Infatti, agli inizi del Novecento aveva già partecipato alle scoperte di grotte importanti, la grotta di Combarelles e quella di Font de Gaume (dove sono dipinte, tra le altre cose due straordinarie renne che si affrontano). Si occupa quindi di Altamira, della grotta di Pech-Merle, e arriva a Lascaux.
Breuil osserva la ricchezza di dettagli di questi animali realizzati alla luce fioca: “alla base di una simile creazione artistica ci sono delle conoscenze profonde delle forme animali”. Questa conoscenza profonda, scrive in Quatre cents siècles de art pariétal, è legata alla vita del cacciatore. E per lui le pitture sono un rito di caccia magica, una forma di preghiera per assicurarsi la caccia fruttuosa e la sopravvivenza.
Come sulle pareti, infatti, nella vita dei Cro-Magnon gli altri animali erano dovunque. Era quello “un mondo”, scrive il filosofo Baptiste Morizot in Sulla pista animale, “in cui la coesistenza con una vita abbondante esigeva che sapessimo come coabitare con essa, quali abitudini trattenere e quali trasformare, quali potenze comporre e quali frontiere rispettare”. Delle potenze si componevano sulle pareti. Ma perché la figura umana è così rara? Proprio Lascaux lasciava un enigma: nel recesso di una sala detta “il pozzo” è dipinta quella che sembra una scena. Un uomo stilizzato con la testa d’uccello e il pene eretto è disteso di fianco a un bisonte a cui escono le budella, una zagaglia è piantata poco lontano. Poi un paletto con in cima un uccello senza zampe né coda, forse rituale. Un rinoceronte si allontana. Il palo sormontato dall’uccello, notava Breuil, è simile ai pali funerari degli eschimesi dell’Alaska. Per l’archeologo si trattava semplicemente di una scena aneddotica: un uomo ucciso dal bisonte, ucciso dal rinoceronte. Eppure l’uomo ha una strana testa di uccello. Perché?
Questo ibrido non è l’unico dell’arte rupestre. Nella grotta dei Trois Frères si trovano un bisonte eretto dalle gambe umane e un bisonte-uomo col pene eretto. E poi un uomo che sembra danzare, con il pene in mostra, ma ha una testa da cervo e la coda. È chiamato lo “stregone” ma l’abbè Breuil lo battezza “il dio dei Trois Frères”. Chi sono costoro? Sono mascherati in un rito? Alcuni studiosi hanno poi ipotizzato che queste figure avessero a che fare con forme di sciamanesimo, simili a quelle dei popoli della Siberia. Oggi l’interpretazione sciamanica è dibattuta. Ciò che tuttavia resta e che ci stupisce, come ha scritto Georges Bataille , è questo “eclissarsi dell’uomo rispetto all’animale” (Lascaux, la nascita dell’arte) o il suo ibridarsi in potenze che lo superavano e in forme che non comprendiamo.
Segni, vulve e bisonti
Di fronte a queste visioni di un universo animale, scappa facilmente al nostro occhio che oltre alle figure ci sono segni, simboli. Sono punti, linee, forme di freccia, segni claviformi, rettangoli attraversati da linee che sembrano cartigli, foglie che sembrano vulve. André Leroi-Gourhan è l’antropologo che per primo ha provato a farne una raccolta e a trattare statisticamente l’associazione di questi simboli con le figure animali. Attivo nella resistenza francese, Leroi-Gourhan nel 1969 riceve dal Collège de France la cattedra di preistoria che prima di lui era stata proprio dell’abbé Breuil. L’antropologo categorizza i simboli fondamentalmente in due tipi: stretti e larghi: i segni stretti e lunghi, sostiene, sono simboli maschili, larghi i femminili. Inoltre osserva la ricorrenza di certi animali nelle grotte nel loro complesso: su tutti cavalli e uri.
A questo aveva già pensato Annette Laming-Emperaire, archeologa anche lei con un passato nella Resistenza francese, che aveva individuato la coppia cavalli-bovini. Secondo Laming-Emperaire, davano forma a “un antichissimo sistema metafisico del mondo, in cui ciascuna specie animale, uomo compreso, svolge un ruolo e dove alla divisione sessuale delle creature è assegnata una funzione primordiale” (La Signification de l’art rupestre paléolitique). I due collaborano e Leroi-Gourhan, in cerca di associazioni tra animali e simboli, osserva che al cavallo sono di solito associati simboli maschili e all’uro femminili: i dipinti, scrive, forse sono parte di una composizione sacra fondata sulla dualità, maschile-femminile, e le grotte erano santuari. Oggi altri studiosi continuano su questo percorso, interrogandosi persino sull’alternarsi, in certe grotte, di animali di colore diverso.
Nella grotta di Chauvet, tornata alla luce nel 1992 dopo la morte dell’archeologo, nella sala più interna su una roccia pendente dal soffitto e dalla forma fallica è disegnata a carbone una vulva e le gambe stilizzate di una donna, sormontate dalla testa di bisonte. Chissà che ne avrebbe detto Leroi-Gourhan. Di certo, l’immagine fa pensare a un riferimento mitico, a un mondo di trasformazioni. Ancora in The cave of forgotten dreams l’archeologo Jean Clottes racconta a Herzog:
Io credo che gli uomini del Paleoltico avessero due concetti in grado di cambiare la nostra visione del mondo: fluidità e permeabilità. La fluidità significa che le categorie, uomo, donna, cavallo, albero, possono alternarsi. L’albero può parlare, un uomo può trasformarsi in animale e viceversa in certe circostanze. E permeabilità, cioè non esistono barriere tra il mondo in cui ci troviamo e quello degli spiriti. Un muro può parlare, può accoglierci, può respingerci.
Forse era questa l’impressione che dovevano fare i muri di Chauvet, con le loro concrezioni, rocce e vuoti. Qui si trova una tra le più impressionanti testimonianze dell’arte parietale, e forse la più antica, risalendo a più di trentamila anni fa. La grotta è un altro atlante della fauna del periodo: mammut, rinoceronti lanosi, bisonti, megaloceri, orsi delle caverne, uri e cavalli, ma soprattutto leoni delle caverne. Lo stile è diverso da Lascaux e Altamira: non ci sono pitture ma linee nere e chiaroscuri realizzati col carbone. Un bisonte in corsa ha molte gambe, i leoni si affollano linee sopra linee, quattro cavalli, uno dietro l’alto, galoppano: c’è grande movimento, movimento che doveva essere accentuato dalle ombre morbide create dalla luce delle torce. Fa pensare al pittore Paul Klee: “l’opera figurativa scaturisce dal movimento, essa stessa è movimento coagulato e va percepita nel movimento (degli occhi)”.
Altri luoghi, altri animali
I disegni di Chauvet sono, al momento, i più antichi in Europa. A contenderne il primato mondiale c’è infatti un maiale nel sudest asiatico: scoperto in una grotta nel sud dell’isola di Sulawesi, risalirebbe secondo lo studio pubblicato su Science Advances a 45 mila anni fa. A dire il vero non è proprio un maiale: il dipinto rosso riproduce un cinghiale delle verruche. I tratti orizzontali ne mimano il pelo. Il dipinto di Sulawesi è diventato un testimone dell’antica diffusione dell’uomo sull’isola ma è ancora, per noi, il segno di un rapporto tra l’uomo e il suo ambiente: qui non ci sono orsi né uri.
Altrove, nella foresta amazzonica, una cultura umana di 12 mila anni fa ha dipinto sulla roccia all’aria aperta migliaia di simboli, linee, uomini stilizzati, animali e piante: è l’enorme murales di Serrania de la Lindosa in Colombia, scoperto nel mezzo della foresta pluviale solo di recente. Come racconta su MEDUSA Francesco Zanetti, alcuni di questi animali, come il mastodonte e il paleolama, il bradipo gigante dipinti sulla roccia raccontano un altro ambiente rispetto all’Amazzonia di oggi, qualcosa che all’epoca era più simile a una savana. E così in Africa troviamo altri dipinti, altri animali, antilopi, elefanti e giraffe. Per noi, intrappolati nella storia, viene facile accomunarli tutti – come le mani colorate impresse un po’ ovunque ci siano dipinti rupestri – segni di una vita diversa. Certo, per tutti loro erano dipinti ricchi di significato ma queste culture umane hanno disegnato con forme, colori e intenzioni diverse, nei luoghi e nel tempo: persino i disegni di Chauvet e quelli di Altamira, anche se appartengono allo stesso lungo universo culturale, mostrano segni di differenza.
Così torniamo in Europa, nel nord Italia, in Val Camonica: qui le tracce sulla roccia sono incise e ben più recenti, neolitiche. Il loro studio intensivo è cominciato con le spedizioni degli anni Cinquanta condotte dall’archeologo Emmanuel Anati. Chi li guidava tra i luoghi era sempre un uomo del posto, un pastore detto Giovanni Pitoto, da “pitoti” la parola dialettale che là indica le figure sulla pietra. Su queste incisioni rupestri, forse un tempo colorate, trionfano infatti le figure umane astratte: scene di caccia e di vita delle tribù camune che abitavano la valle. Anche qui compaiono maiali, ormai addomesticati.
Soltanto alcuni cervidi, un alce e forse un cavallo dalla forma sinuosa, sono segni superstiti ancora naturalistici. Secondo uno studio dell’Università di Firenze, sono più antichi di quanto si è sempre pensato e avrebbero almeno diecimila anni. Apparterrebbero così per canoni estetici all’ultima coda della cultura Cro-Magnon che aveva realizzato Chauvet, Lascaux, Altamira e le altre grotte, ultimi disegni di un mondo nomade, di comunità di cacciatori e raccoglitori.
Dove tornare
Nel 1342 Boccaccio scrive una cosa singolare: si chiama De Canaria. Raccoglie le storie di amici navigatori e racconta dell’arrivo degli europei sulle Canarie e dell’incontro con il popolo dei Guanci che abitava le isole. Boccaccio li descrive a torso nudo e coperti di pelli caprine tinte di rosse e giallo, o di foglie di palma. Portano i capelli lunghi e biondi. Più tardi la cultura guanci sarà cancellata dalla colonizzazione; oggi alcuni ritengono quel popolo, forse imparentato con i berberi, come un relitto dei popoli Cro-Magnon.
Come il fascino che hanno le storie dei Guanci su Boccaccio, il nostro stupore quando pensiamo ai Cro-Magnon e ai loro disegni è forse perché li immaginiamo qui, immaginiamo un’altra vita nei nostri luoghi civilizzati. Lo storico dell’arte John Berger, raccontando la sua visita a Chauvet, scrive proprio:
I Cro-Magnon vivevano con paura e stupore in una cultura dell’Arrivo, esposti a molti misteri. La loro cultura è durata circa ventimila anni. Noi viviamo in una cultura di Partenze e Progresso incessanti, che dura da due o tre secoli.
E poi, nel momento in cui rischiamo una crisi epocale di biodiversità, tutti questi animali dipinti ci evocano un rapporto di necessità con l’ambiente. Prosegue Berger: “erano nati in mezzo alla vita animale. Non erano guardiani di animali: gli animali erano i guardiani del mondo”, un mondo di potenze, da cui ci sentiamo esclusi. Eppure perdurano impresse, parte di quella che chiamiamo arte, o meglio quella che per i manuali è l’inizio dell’arte umana.
I Cro-Magnon erano nomadi e le loro grotte dipinte sono state visitate e ridipinte per millenni. Oltre le interpretazioni ancora incerte sul senso dei disegni – magico, religioso, sciamanico, mitologico – possiamo almeno dire che le grotte erano luoghi a cui ritornare. Forse erano crocevia di rotte, appuntamenti ciclici sulle vie delle tribù. Ancora oggi, quelle grotte sono all’incrocio delle storie dei loro fortunati scopritori, gente del posto, e di studiosi, appassionati, tutti comunque sedentari. Scrive ancora Berger: “Per i nomadi le nozioni di passato e futuro sono subordinate all’esperienza dell’altrove. Ciò che è scomparso, o è atteso, si nasconde altrove, in un altro luogo”. Ritornare, come tutti loro, a quelle pitture ci apre a quell’esperienza dell’altrove. Forse lì, davanti a quest’arte, come dice il filosofo Merleau-Ponty in Conversazioni:
Si stabiliscono tra noi e le cose, non più rapporti tra un pensiero dominatore e un oggetto (…) ma il rapporto ambiguo tra un essere incarnato e limitato e un mondo enigmatico che egli intravede, che non smette di ossessionarlo, ma sempre attraverso prospettive che glielo nascondono nella stessa misura in cui glielo rivelano, attraverso l’aspetto umano che ogni cosa assume sotto uno sguardo umano. Ma in un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini.