N egli ultimi anni il dibattito sull’intelligenza delle piante si è trasformato in una sorta di guerra dei nervi. Dagli studi di Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio di Neurobiologia Vegetale all’Università di Firenze e autore assieme ad Alessandra Viola di Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale (2013), ai lavori più recenti di Daniel Chamowitz, direttore del Manna Center for Plant Biosciences della Tel Aviv University, fino a quelli di Anthony Trewavas e Monica Gagliano, studiosa presso la University of Western Australia, l’approccio alla vita vegetale ha rivelato una prospettiva diversa e alternativa all’antropocentrismo. Questi studi innovativi hanno anche dato il via a uno scontro intellettuale significativo, con scienziati che hanno espresso preoccupazione per la nuova disciplina, i cui confini, metodologie e strumenti rimangono poco chiari.
Diversi studiosi, psicologi, antropologi e filosofi — tra cui si possono menzionare Michael Marder, Michael Pollan, Peter Wohlleben, Emanuele Coccia, Marcello Di Paola e Gianfranco Pellegrino, Umberto Castiello, Margherita Bianchi ed Eduardo Kohn — hanno concentrato una nuova attenzione alla vita delle piante, sia per rafforzare l’interpretazione dell’esistenza di un’intelligenza nei corpi vegetali, sia per comprendere il ruolo che questa nuova prospettiva può aprire nelle scienze della natura e quale ruolo può giocare nell’immediato futuro. Tra i vari contributi, è importante segnalare il recente Planta Sapiens. Perché il mondo vegetale ci assomiglia più di quanto crediamo (Il Saggiatore, 2022), nel quale Paco Calvo, filosofo della scienza presso il Minimal Intelligence Lab dell’Università della Murcia, tenta di ricostruire questo dibattito in una prospettiva più comprensiva, sintetica e accessibile.
Identificate con la natura stessa, nel mondo antico le piante erano considerate l’oggetto privilegiato per comprendere la vita.
Il dibattito che si è aperto, o la guerra dei nervi cui si accennava qui sopra, ha anzitutto offerto la possibilità di ripensare la nuova scienza dell’intelligenza vegetale nelle sue radici. È proprio alla luce di questo scontro che Calvo notava la necessità per i neurobiologi vegetali di sviluppare esperimenti per testare le loro interpretazioni, dotarsi di strumenti metodologici adatti e combinare discipline diverse per la nuova scienza. Da questo punto di vista, la filosofia della scienza assume un ruolo importante nel tentativo di offrire agli studiosi gli strumenti teorici e metodologici necessari, individuando i principi filosofici per comprendere l’intelligenza vegetale. Radicato nella storia della botanica, questo tentativo ha quindi un risvolto ecologico fondamentale.
Una storia della vita delle piante?
Sin dall’antichità, i filosofi e gli studiosi del mondo occidentale si sono interrogati sulle piante anche in modalità totalmente inaspettate. Identificate con la natura stessa, le piante sono state considerate l’oggetto privilegiato per comprendere la vita. Tuttavia, nell’attribuire un ruolo fondamentale alle piante, si è spesso operata una sottrazione delle facoltà vitali dei corpi vegetali, ridotti per lo più agli aspetti basilari della vita stessa, e questo ha relegato il mondo vegetale al confine tra i viventi e i non viventi, una posizione di privilegio in quanto segna la distanza del vivente dall’inorganico, ma una condizione soprattutto liminare secondo altri interpreti.
Nella famosa scala degli esseri, le piante occupano un gradino sopra i corpi inerti, minerali e metalli, ma sono al di sotto degli altri viventi, quasi separate da questi ultimi. Soprattutto all’interno della tradizione aristotelica, questa scalarità si è tradotta nella sottrazione delle attività vitali, tra cui il movimento, l’esperienza sensoriale e la coscienza del sentire, riducendo di fatto le piante a una condizione di minorità rispetto agli animali. Le piante vivono e basta: si nutrono, crescono e generano il proprio simile. Da Aristotele in avanti, le piante sono state considerate un mero oggetto sullo sfondo della vita animale, utilizzate principalmente come nutrimento (agricoltura) e cura delle malattie (materia medica o farmacopea).
La scuola aristotelica non è stata la sola a confrontarsi con il mondo vegetale. Ben prima di Aristotele, pitagorici e presocratici tra cui Empedocle e Democrito di Abdera avevano attribuito alle piante facoltà diverse, una forma desiderativa e financo una forma di proto-intelligenza, in un percorso interpretativo decisamente alternativo. La psicologia aristotelica, che è il fondamento dell’interpretazione del vivente che ha caratterizzato la cultura medievale occidentale, ha profondamente contrastato questa interpretazione. Tuttavia, vuoi per la complessità della vita vegetale, vuoi perché non vi è mai stato un testo aristotelico di botanica di riferimento — il De plantis pseudo-Aristotelico è un testo spurio e oscuro, mentre i lavori di Teofrasto avevano un obiettivo diverso — qualcosa della vita delle piante è rimasto inespresso e nel corso del tempo le diverse tradizioni si sono incrociate pericolosamente.
Un esempio di questi incroci è legato al mito del Timeo platonico, che reinterpretava una metafora più antica di enorme successo: gli esseri umani come piante capovolte. Da un lato questa metafora segna una distanza ontologica tra le piante, le cui radici sono nel terreno, e l’essere umano, le cui radici, cioè la testa, sede dell’intelletto, sono nel cielo, facendo quindi dell’essere umano una pianta celeste e divina. Dall’altro lato, la metafora è stata reinterpretata attraverso la fisiologia comparativa (legata alle tradizioni mediche di Ippocrate e Galeno), che ha visto nelle piante degli animali capovolti e ha cercato di localizzare in quelle le somiglianze organiche con la vita animale.
Per lungo tempo si è creduto che le piante vivessero e basta: si nutrono, crescono e generano il proprio simile.
Le radici, per esempio, sono la sede delle funzioni principali della vita delle piante: il cuore, se così si può dire, della vita vegetativa. In alcuni casi questo tentativo è servito per giustificare l’opera di sottrazione della tradizione aristotelica, che ha compresso le attività delle piante alla nutrizione, generazione e accrescimento, le attività dell’anima vegetativa. In altri casi, pur mantenendo questa riduzione e partendo dalla comparazione anatomica tra piante e animali che individuava nel fegato degli animali la sede dell’anima vegetativa e, quindi, nei vegetali una condizione simile a quella della ghiandola stessa, si è attribuito alle piante una facoltà desiderativa — in fondo, la nutrizione è legata al desiderio di nutrirsi e alla ricerca del nutrimento. Pur con qualche aggiunta significativa, la vita delle piante è stata pertanto ridotta alla vita vegetale.
Nel Rinascimento, la riappropriazione dei testi aristotelici e platonici ha dato spazio a nuovi incroci interpretativi. Nel dibattito tra Giulio Cesare Scaligero e Girolamo Cardano, tra l’aristotelico e il neo-platonico, le piante diventano un termine di riferimento per sfidare l’avversario nella definizione di che cos’è la vita e quali sono le sue funzioni principali. Resta però un punto fondamentale, anzi due: questi autori continuano a interpretare la vita delle piante secondo la prospettiva dell’essere umano. E in questo senso le piante rimangono un oggetto della natura, senza riuscire ad acquisire una propria autonomia.
Da Aristotele in avanti, le piante sono state considerate un mero oggetto sullo sfondo della vita animale, utilizzate principalmente come nutrimento e cura delle malattie.
Anche la mimosa pudica, l’erba sensitiva che rivela l’incertezza interpretativa rinascimentale, non è altro che un vegetale in cui la presenza di attività animali la eleva a corpo intermedio: un’eccezione che conferma la regola secondo cui la natura non fa salti. E così, le piante mostruose che popolano i resoconti dei viaggi dell’epoca o che riempiono i gabinetti di curiosità, per esempio di Ulisse Aldrovandi a Bologna o di Claude Duret a Parigi, sembrano una copia sbiadita delle mostruosità animali e sono mostri in quanto posseggono parti animali — un caso su tutti: l’agnello vegetale della Tartaria, che vive in quanto pianta ma si nutre in quanto animale.
È solo con i lavori di botanici quali Andrea Cesalpino, Adam Zaluzianski, Guy de La Brosse, e poi Nehemiah Grew e Marcello Malpighi, tra la fine del XVI e la fine del XVII secolo, che le piante acquisiscono una maggiore autonomia ontologica e scientifica. E in alcuni casi gli studiosi attribuiscono alle piante una maggiore vitalità, rescindendo quel limite aristotelico che ha segnato la cultura scientifica occidentale. Nelle interpretazioni che si leggono nel Seicento, le piante vivono più a lungo e hanno maggiore vitalità, comunicano tra di loro e si incrociano, scambiandosi linfa, si trasformano l’una nell’altra attraverso gli innesti, o trovano vita nuova dalle piccole parti, come capita quando si pianta nel terreno un rametto di alcune piante. Ma posseggono una forma di intelligenza? Su questo punto gli studiosi della prima modernità sembrano più titubanti e incerti.
Si relega alla letteratura fantastica di Savinien Cyrano de Bergerac negli Etats et Empires du Soleil et de la Lune nel XVII secolo, o in Niels Klim’s Underground Travel di Ludvig Holberg nel XVIII secolo, per esempio, la rappresentazione di un’intelligenza vegetale capace di costruire società giuste e di fatto superiori a quella umana — la correlazione tra la superiorità vitale e la superiorità morale delle piante è lampante. E la scienza come interpreta questo aspetto?
Saranno gli studiosi dell’Ottocento, diversi decenni dopo Carl Linné, a rielaborare un’interpretazione dell’anima delle piante alla luce degli studi biologici dell’epoca e, quindi, a offrire una nuova interpretazione della vita vegetale. Nell’alveo del romanticismo tedesco, Gustav Theodor Fechner pubblicherà Nanna o L’anima delle piante, rivalutando la vita vegetativa come figura esemplare, ovvero “puro sentire”, sconfinato, assoluto, e sentimento che come l’edera si arrampica sulle cose fino a trasformarle, in un processo di perfezionamento della natura. Dall’ipotesi di una sensibilità vegetale collegata alla pervasività della natura vegetale scaturisce l’idea di una sensibilità pensante: in tal senso la pianta sarebbe intelligente secondo Fechner.
E sarà Charles Darwin a lavorare sul movimento delle piante in The Power of Movement in Plants, gettando un mattone decisivo per ricostruire la botanica su basi più solide e a posizionarsi alle fondamenta dell’evoluzionismo delle piante, della biologia vegetale e dell’ecologia. Sì, perché nonostante tutto, l’interpretazione della vita delle piante si è sempre scontrata con l’assenza di movimento — animato, in fondo, sottintende in moto.
Dalla vita all’intelligenza delle piante oggi
Centocinquant’anni dopo il testo di Darwin, e riprendendone le tesi, Paco Calvo riflette da una prospettiva filosofica sulla vita delle piante che i recenti studi tendono a rivelare come un complesso intreccio di attività. A un certo punto del suo libro, per esempio, descrive una pianta di piselli e una piantina di fragole, trattando della memoria dei piselli e della capacità delle fragole di apprendere e ricordare.
Calvo racconta di piante che vengono sedate e si addormentano come i pazienti di uno studio dentistico e analizza i meccanismi difensivi di piante come il basilico; descrive piante che hanno memoria come la già citata Mimosa pudica, piante che comunicano tra di loro e con l’ambiente, piante che soffrono per una sensazione dolorosa, piante che hanno percezioni ed esperienza soggettive e infine piante che elaborano informazioni e pensano. Ponendosi nella prospettiva innovativa di chi intende mostrare un’affinità sorprendente con la vita animale e con le capacità umane, l’autore propone una ricca ricostruzione della vita e dell’intelligenza delle piante.
La riflessione filosofica ha trasformato le piante in attori ambientali, ristabilendo il giusto rapporto tra i corpi viventi.
Senza alcun timore di dirci che abbiamo sempre sbagliato nel considerare le piante come esseri viventi che crescono e basta, la cui stanzialità e fissità nel terreno hanno sempre dato adito agli studiosi di considerarle come oggetti decorativi o come sfondo verdeggiante della vita animale e poco più, Paco Calvo provvede a fornire una rilettura della vita vegetale attraverso gli esperimenti e le interpretazioni più recenti, mostrandoci la natura attraverso occhi diversi, e rimettendo in discussione l’idea di superiorità del mondo animale su quello vegetale. Il risultato finale è sconvolgente: ampliare lo sguardo sul comportamento delle piante permette di comprendere meglio la vita e la natura.
Il libro di Calvo offre un crescendo epistemico fondamentale: si parte dalle considerazioni delle piante come semplice sfondo della natura, ovvero della nostra cecità di fronte alla condizione delle piante — culturalmente siamo attratti maggiormente dagli animali che in qualche modo ci somigliano e si adeguano alle nostre categorie interpretative. Eppure, il nostro mondo è un fatto vegetale, prima di essere animale: le piante hanno permesso la vita, trasformando l’anidride carbonica e costruendo l’atmosfera. La vita delle piante è una cosmogonia in atto, cioè la formazione dell’ambiente in cui viviamo. Sin dal racconto biblico di Noè, è la presenza delle piante — il famoso ramo d’ulivo — a rivelare la possibilità ristabilita di vita sulla terra. E se osserviamo le piante, sostiene Calvo, ripercorrendo gli esperimenti compiuti nei secoli scorsi, è possibile attribuire a queste ultime un comportamento: la vita vegetale non è solo adattamento.
Discutendo del sistema nervoso delle piante e di piante pensanti, Calvo stabilisce che anche le piante posseggono una forma di intelligenza, attività cognitive, capacità di apprendimento, di elaborazione di informazioni, e la capacità di prendere decisioni in base a quelle informazioni. Valutare l’effettiva presenza di queste attività è, però, un oggetto del contendere ed è necessario compiere numerosi esperimenti per testare queste effettive capacità nelle piante. In questo senso, Calvo stabilisce un itinerario scientifico per confermare l’intelligenza vegetale, combinando la fisiologia e psicologia. Infine, Calvo si spinge ancora più in là, proponendo al lettore di sostituirsi a una pianta e liberare le piante dalla loro condizione di minorità (che è un mero costrutto umano), col fine ultimo di riconoscere a esse un ruolo (e un’etica) come ingegneri ambientali di fronte alla crisi climatica che stiamo vivendo.
Le piante al centro del dibattito?
Nei secoli, la discussione sulla vita e l’intelligenza vegetale, ovvero la discussione delle piante in una prospettiva filosofica, ha avuto un risvolto teorico importante, quello di trasformare le piante da oggetti dell’agricoltura e della farmacologia, cioè mere risorse da sfruttare, in un soggetto vivente al pari degli animali e degli esseri umani. È necessario anche considerare che le piante compongono circa il 90% della biomassa sul nostro pianeta e vederle in modo diverso è un passo fondamentale per affinare la nostra collaborazione con esse.
La vita delle piante è una cosmogonia in atto, cioè la formazione dell’ambiente in cui viviamo.
Da un lato, la riflessione filosofica ha trasformato le piante in attori ambientali, ristabilendo il giusto rapporto tra i corpi viventi. Considerandole esseri dotati di una qualche intelligenza è il secondo passo per comprendere le modalità attraverso cui le piante sono capaci di manipolare gli ecosistemi e trasformare la natura, come ribadito spesso nei libri di Mancuso. Da un punto di vista ecologico, infatti, non è sufficiente intendere le piante come semplici oggetti per sperare di poter cambiare il clima, ma occorre considerarle per quello che sono, ovvero dei veri e propri ingegneri ambientali proattivi. Questa prospettiva può avere effetti concreti e profondi a livello globale, trasformando la nostra interazione con le piante e l’ambiente, in un progetto fondamentale di fronte alla lotta per la crisi climatica.
Come ripete Calvo nel suo libro e come tanti studiosi di etica delle piante sono arrivati a sostenere in tempi recenti, il nostro successo nel contrastare la crisi ecologica dipende dal nostro rapporto profondo con le piante e con l’ambiente, e si fonda sulla trasformazione della concezione di vita vegetale avvenuta negli ultimi decenni. Da questa nuova prospettiva scientifica e filosofica dipende, infatti, la comprensione del nostro pianeta come un sistema unitario e la possibilità di agire efficacemente sull’ambiente per proteggere la vita sulla Terra.