L a notte del 23 settembre 1846, l’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle si piazzò all’oculare del telescopio dell’osservatorio di Berlino e iniziò a scrutare con attenzione una ristretta regione di cielo tra le costellazioni del Capricorno e dell’Acquario. Le coordinate della regione gli erano arrivate per posta il giorno stesso, assieme alla richiesta di puntare il telescopio in quella direzione, in cerca di un oggetto ben preciso. In effetti, dopo poco meno di un’ora, Galle notò un piccolo punto luminoso invisibile a occhio nudo e non registrato nelle carte stellari. L’osservazione si ripeté per le due notti successive, e ogni notte l’astro era in una posizione leggermente diversa sulla volta celeste rispetto alle stelle: era dunque un pianeta, proprio come suggeriva la lettera inviata a Galle. A quel punto, il tedesco prese carta e penna e rispose a colui che gli aveva inviato la previsione, ovvero Urban Le Verrier, astronomo francese: “il pianeta di cui ha calcolato la posizione esiste davvero”. Galle suggerì anche un possibile nome per il nuovo arrivato, Giano, ma Le Verrier fece una controproposta, che in seguito venne adottata ufficialmente: Nettuno.
Quello di Nettuno fu il primo, e a tutt’oggi unico caso di pianeta del sistema solare scoperto “con la punta di una penna”, per usare l’espressione a cui ricorse François Arago, astronomo, a proposito dell’impresa di Le Verrier: ovvero, attraverso una previsione matematica precedente all’osservazione diretta. In effetti, per la maggior parte della storia dell’umanità, nessuno aveva sospettato che esistessero altri pianeti oltre ai cinque “classici” (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), visibili a occhio nudo senza grandi sforzi. Il successivo, Urano, fu scoperto casualmente solo nel 1781, dall’astronomo dilettante (almeno fino a quel momento) William Herschel, con un telescopio che si era costruito nel giardino di casa. E fu proprio lo studio di Urano a mettere Le Verrier sulle tracce di Nettuno. Col passare dei decenni, infatti, l’orbita del pianeta aveva iniziato a manifestare leggere discrepanze rispetto a quanto prevedeva la fino ad allora infallibile legge di gravitazione universale newtoniana. Nel tentativo di spiegare la faccenda, alcuni esperti di meccanica celeste, tra cui appunto Le Verrier, avevano ipotizzato che l’anomalia orbitale di Urano fosse dovuta alla presenza di un pianeta – fino a quel momento sconosciuto – che ne disturbava il cammino attorno al Sole.
Le cose, come abbiamo visto, stavano davvero così: la previsione azzeccata di Le Verrier fu uno dei più grandi trionfi della meccanica newtoniana, e la conferma della sbalorditiva capacità predittiva della teoria. In seguito si capì che Nettuno era stato osservato più volte nei secoli precedenti, senza essere riconosciuto come un pianeta: la prima, probabilmente, addirittura da Galileo, verso la fine del 1612, e chissà quante ancora era passato sotto il naso dell’astronomo di turno, che lo aveva scambiato per una debole stella fissa, non degna di particolare attenzione. Senza la potenza quasi magica del calcolo matematico a illuminare la strada, soltanto un colpo di fortuna avrebbe potuto far sbucare definitivamente Nettuno dall’oscurità.
Nettuno era stato osservato più volte nei secoli precedenti, senza essere riconosciuto come un pianeta: la prima, probabilmente, addirittura da Galileo.
Il che può aiutare a comprendere la determinazione con cui Le Verrier si mise in testa di ripetere il colpaccio, andando in cerca di altri possibili comportamenti insoliti nel moto dei pianeti del sistema solare. Individuò il candidato più probabile nella precessione anomala del perielio di Mercurio, e tentò di spiegarla con la presenza di un pianeta più vicino di quest’ultimo al Sole, che battezzò Vulcano. Stavolta, la natura gli diede torto: Vulcano non esisteva, e a essere inaccurata era la teoria della gravitazione newtoniana, come capì Albert Einstein all’inizio del XX secolo. Ma questa è un’altra storia.
Tuttavia, la fascinazione per la possibile esistenza di altri pianeti sfuggiti all’osservazione, e per la ricerca di indizi della loro presenza nel moto dei pianeti già noti, non si spense del tutto. Nei primi anni del Novecento Percival Lowell, un ricco bostoniano col pallino per l’astronomia, iniziò una campagna di osservazione alla ricerca di un pianeta oltre l’orbita di Nettuno, un corpo celeste che ribattezzò Pianeta X (dove X non va inteso come un numero ordinale romano, ma come la lettera simbolo dell’incognita). Secondo Lowell c’erano anomalie nelle orbite di Urano e Nettuno che giustificavano l’ipotesi di un pianeta sconosciuto, molte volte più massiccio della Terra.
Alla morte di Lowell, avvenuta nel 1916, del Pianeta X non c’era traccia, ma la ricerca andò avanti nell’osservatorio voluto dal magnate in Arizona, fino a quando, nel 1930, il giovane astronomo statunitense Clyde Tombaugh scorse nel confronto fra alcune lastre fotografiche della stessa zona di cielo la presenza di un piccolo puntino in movimento: era Plutone. Per Lowell non ci fu neanche il merito postumo della scoperta, perché col tempo si capì che Plutone era troppo piccolo per spiegare le presunte anomalie di Urano e Nettuno: in verità, oggi si ritiene che le anomalie stesse fossero inesistenti, e dovute a una errata stima della massa di Nettuno. Insomma, la scoperta di Plutone fu di fatto un felice accidente. In realtà, non solo Plutone non era il fantomatico Pianeta X, ma non era nemmeno un pianeta: nel 2006 è stato ricollocato nella categoria dei pianeti nani, in compagnia di altri simili piccoli corpi celesti del sistema solare, come Cerere e Vesta.
La scoperta di Plutone fu, di fatto, un felice accidente.
Ironia della sorte, proprio il principale responsabile del “declassamento” di Plutone, l’astronomo americano Mike Brown, potrebbe essere l’artefice della rinascita dell’interesse intorno all’ipotetico Pianeta X. Nel 2005 Brown scoprì Eris, un oggetto di dimensioni simili a quelle di Plutone e più lontano di quest’ultimo dal Sole. Per un po’, Eris venne definito informalmente “il decimo pianeta” ma, quando la faccenda fu analizzata con più attenzione, si rivelò essere soltanto un membro cospicuo di una vasta fascia di detriti ghiacciati che si estende oltre l’orbita di Nettuno, la fascia di Kuiper. La questione Eris portò a riesaminare il caso di Plutone, che venne a sua volta riconosciuto come il componente principale, per dimensioni, della fascia di Kuiper, e perse così il titolo di nono pianeta. (Brown si è sempre allegramente preso la responsabilità della “fine” di Plutone, e ha raccontato la storia nel libro How I Killed Pluto and Why It Had It Coming). Ad ogni modo, nel gennaio del 2016, Brown e il collega Konstantin Batygin hanno suggerito l’esistenza di un nono pianeta del sistema solare: questa volta, al contrario di Plutone, con tutte le carte in regola per fregiarsi del titolo.
Proprio come vuole la tradizione, anche Brown e Batygin avrebbero raccolto indizi indiretti dell’esistenza del Pianeta X osservando le perturbazioni prodotte nelle orbite di altri corpi celesti. In questo caso, le anomalie sarebbero riscontrate nelle traiettorie di diversi oggetti appartenenti alla fascia di Kuiper, che sembrano addensarsi in modo inaspettato e difficile da spiegare con l’azione del caso. Brown e Batygin hanno provato a riprodurre il fenomeno attraverso simulazioni teoriche, e hanno trovato che il modello che meglio interpreta i dati è quello che prevede l’esistenza di un pianeta gigante, di massa almeno dieci volte più grande di quella terrestre, e distante dal Sole almeno venti volte più di Nettuno. Un pianeta così lontano non solo sarebbe molto poco luminoso, visto da qui, ma si sposterebbe con esasperante lentezza, impiegando oltre diecimila anni a terminare un giro completo attorno al Sole: il che spiegherebbe come mai sia sfuggito finora all’osservazione diretta.
Secondo molti studiosi, la spiegazione proposta da Brown e Batygin è convincente, ed è difficile trovarne una alternativa che funzioni altrettanto bene. Ma il caso è tutt’altro che chiuso. Dopo il lavoro iniziale dei due astronomi, altri hanno provato a cercare ulteriori indizi dell’influenza gravitazionale del Pianeta X sulle orbite di Plutone, Marte, Saturno e di centinaia di comete, per ora in modo non conclusivo. È chiaro tuttavia che l’unica prova decisiva dell’esistenza del nono pianeta sarebbe l’osservazione diretta. Purtroppo, al momento i calcoli teorici non riescono a identificare con sufficiente precisione la zona di cielo dove potrebbe nascondersi. Allo stato attuale, i migliori telescopi terrestri dovrebbero scandagliare una regione talmente grande che la ricerca potrebbe durare anni. Brown e Batygin stanno continuando a produrre simulazioni sempre più accurate dell’effetto che il nono pianeta avrebbe sui corpi della fascia di Kuiper, tenendo conto anche dell’interazione con gli altri pianeti giganti. Se riusciranno a restringere sufficientemente il campo, potrebbero trovare il Galle in grado di dimostrare che avevano ragione, e ripetere l’impresa riuscita finora solo a Le Verrier: scoprire un nuovo mondo con la sola forza del calcolo.