L a Dioscorea mexicana, conosciuta comunemente come barbasco, è un arbusto perenne che cresce nella giungla centroamericana, diffusa dal nord del Messico fino a Panama; possiede un fusto allargato parzialmente sotterraneo, di forma quasi sferica, che può raggiungere i 90 cm di diametro ed è dotato di una spessa corteccia esterna. La corteccia del fusto del barbasco è divisa in placche poligonali che, con l’età, si separano tra loro formando profonde crepe, che creano una struttura simile al guscio di una vecchia tartaruga. Dal fusto fuoriescono lunghe viti vigorose che possono estendersi per diversi metri e da cui, in primavera, crescono foglie a forma di cuore. All’inizio degli anni Quaranta, il chimico statunitense Russell Earl Marker era alla ricerca di una pianta che potesse essere utilizzata come materia prima vegetale per estrarre i precursori necessari alla produzione in laboratorio degli ormoni sintetici. Le popolazioni indigene dell’America Centrale avevano utilizzato il barbasco come pianta medicinale per millenni: da generazioni, le donne messicane ne consumavano il tubero come metodo contraccettivo. Il barbasco contiene una sostanza, la diosgenina, che può essere chimicamente modificata per produrre il progesterone sintetico, la cui sintesi, realizzata da Marker nel 1944, rese possibile la produzione massificata della prima pillola anticoncezionale al mondo. Nell’arco di vent’anni dalla scoperta di Marker, nel 1960, la pillola contraccettiva era un farmaco di uso quotidiano per già due milioni di donne negli Stati Uniti.
In Pharmako/Poeia, Dale Pendell descrive una varietà di sostanze psicoattive, da quelle più comunemente riconosciute come “droghe”, ad esempio la marijuana e l’eroina, ai preparati di uso quotidiano, come il tabacco e la birra, fino ai composti chimici più inusuali nel contesto delle sostanze stupefacenti, come i solventi derivati dai combustibili fossili. Pendell si riferisce a tutte queste sostanze, senza esclusione, con la dicitura di “alleate”: una parola che non contiene, come si potrebbe inizialmente supporre, una valutazione morale. Con questa definizione, Pendell non vuole affermare che le droghe da lui descritte siano intrinsecamente “buone” per la salute del corpo e della mente: al contrario, lo stesso autore insiste a lungo sugli aspetti venefici e insidiosi dei materiali di cui scrive. Piuttosto, la parola “alleata” suggerisce che ciascuna di queste sostanze, con il proprio bagaglio di significati biochimici e storici, materiali e culturali, medicinali e tossicologici è, a suo modo, un organismo vivente, che deve essere sempre approcciato come un soggetto non-umano dotato di una forma di autonomia rispetto ai soggetti umani che ne fanno uso. Il progetto teorico e pratico di concedere a queste sostanze medicinali una forma di agency è uno degli aspetti più affascinanti di Pharmako/Poeia, e rende l’approccio teorico di Pendell particolarmente attuale nel contesto del nuovo materialismo postumanista.
In Pharmako/Poeia riecheggia il ricordo di un sapere farmacologico antico, non per questo meno rigoroso o meno potente del sapere scientifico contemporaneo, ma svincolato dalle logiche di controllo dei corpi.
Seguendo l’insegnamento di Pendell, ho deciso di farmi guidare da Dioscorea mexicana, eleggendola come personale alleata filosofica. Questa piccola pianta tropicale, così inumana eppure capace di produrre molecole così somiglianti a quelle prodotte dai nostri stessi corpi, può aiutarci a riconoscere le droghe come agenti materiali, culturali e politici complessi, i cui effetti sulle nostre identità possono essere tanto trasformativi quanto distruttivi. Prima per esperienza diretta, e in seguito attraverso la lettura di autrici e autori del femminismo contemporaneo come Paul Preciado, ho scoperto che gli ormoni sessuali sono a tutti gli effetti sostanze psicoattive: non soltanto hanno una capacità sorprendente di alterare i nostri stati mentali ed emotivi, ma sembrano addirittura capaci di agire direttamente sulla costruzione della nostra soggettività, trasformando la nostra esperienza di noi stessi e del mondo. Riscrivendo direttamente la biologia riproduttiva, gli ormoni sono macchine biotecnologiche capaci di ridefinire non soltanto il comportamento sessuale, ma, soprattutto, i significati culturali e politici dei corpi che attraversano. Ma la storia di Dioscorea mexicana mostra anche che, come accade per quasi tutte le droghe, questo potere trasformativo ha un doppio volto. Nell’arco di pochissimi anni, un rimedio contraccettivo autogestito dalle donne si è trasformato in uno strumento coercitivo di sfruttamento coloniale del territorio e in una tecnologia di sorveglianza biopolitica della sessualità femminile.
Questa ambiguità è già racchiusa nel termine pharmakon, che, in greco, può significare allo stesso tempo rimedio e veleno. È un termine che Platone, nel Fedro, mette in bocca a due figure della mitologia egizia, Thot e Thamus, per affrontare il problema del rapporto della scrittura con la verità. Mentre Thot, dio della luna e della magia, è promotore della diffusione della scrittura tra gli esseri umani, Thamus, incarnazione del dio solare Ra, vi si oppone, sostenendo che questo pharmakon è uno strumento troppo pericoloso, capace di creare una distanza incolmabile tra la parola, il logos, e l’essenza profonda delle cose. Del resto, la droga e la scrittura hanno, da sempre, un rapporto culturale e filosofico molto particolare. Come la scrittura, anche la droga è un’interfaccia: una tecnologia che si interpone tra il nostro corpo e la nostra soggettività, capace di darci un accesso diretto al nostro mondo interiore, ma anche capace di dissimularlo, di stravolgerlo, di riscriverlo, appunto, come un artefatto. Pendell è consapevole di questa eredità filosofica, evidenziando come il rapporto solare e lunare con il pharmakon rappresenta due polarità, opposte e complementari, dell’esperienza delle sostanze psicoattive. Da un lato, la droga come cammino solare di illuminazione; dall’altro lato, la droga come avvelenamento, illusione, contaminazione tra il corpo e la mente. “Il dottore della luna più genuino è lo stregone, il negromante”, scrive Pendell. “Lunare/solare: uno traffica nei sogni, l’altro si immischia nella materia; qual è il veleno più putrido?”.
Fu Jacques Derrida, nel 1972, a riappropriarsi filosoficamente dell’ambiguità del termine pharmakon. Il suo allievo Paul Preciado ha recuperato questo stesso termine in chiave femminista, per discutere del rapporto tra l’identità sessuale e le tecnologie farmacologiche. “Per avvicinarsi alla questione del pharmakon e delle droghe”, scrive Preciado, “dobbiamo battere la strada delle streghe”. Del resto, l’opera di Pendell non nasconde la sua natura di grimorio, facendo ampio riferimento alla stregoneria, una pratica storicamente femminile e femminista, come ispirazione principale della sua poetica. Nelle sue pagine, riecheggia il ricordo di un sapere farmacologico antico, non per questo meno rigoroso o meno potente del sapere scientifico contemporaneo, ma svincolato dalle logiche di controllo dei corpi che hanno caratterizzato la ricerca biochimica sotto l’economia capitalista. Nelle loro radici pre-moderne, le pratiche erboristiche e alchemiche sono state prima di tutto capaci di garantire alle donne il controllo autonomo della propria sessualità e della propria biologia riproduttiva, producendo metodi contraccettivi e abortivi, afrodisiaci, rimedi per i dolori del mestruo e del parto. Del resto, la natura pratica e poetica di Pharmakon/Poeia lo caratterizza immediatamente come un oggetto politico sovversivo, proprio perché trascura ogni prospettiva disciplinare sull’uso delle sostanze per mettere al centro la loro capacità di trasformare, produrre, e a volte anche distruggere, nuove forme di soggettività.
Confesso che, nonostante io abbia coltivato per molto tempo un interesse nei confronti dell’argomento, ho sempre avuto una certa reticenza a scrivere di droghe. L’aspetto di questo dibattito che ho trovato più respingente è quella che ho sempre percepito come una tendenza di esclusione: non tanto nei confronti delle persone, quanto nei confronti di tutte le sostanze chimiche che, per i loro specifici effetti fisiologici o per il loro uso culturale, finiscono per non meritare di essere ammesse nel pantheon delle “droghe importanti”. Questa particolare forma di pregiudizio ha fatto sì che le droghe della “gnosi”, le droghe “solari”, reputate in grado di dare accesso a realtà extracorporee e rivelazioni metafisiche, siano state considerate degne della riflessione filosofica e della creazione letteraria più di molte altre, ben più “lunari”, sostanze. Se mi sono decisa a vincere la mia esitazione, è soprattutto perché credo che parlare di droga, di qualsiasi droga, sia sinonimo di parlare di corpi; e perché credo che non sia possibile parlare di corpi senza parlare di potere. Questa dimensione politica scorre, silenziosa ma pervasiva, attraverso tutta l’opera di Pendell. “È importante non trascurare l’aspetto politico del processo”, scrive l’autore, “perché di certo l’aspetto politico non trascurerà te”.
Sotto la luce narcotica della luna, le droghe diventano una celebrazione del sé come artefatto: una tecnologia politica e poetica per l’invenzione di nuove forme sovversive di soggettività.
La ragione principale per cui il libro di Pendell merita di essere letto, consultato, annotato e tramandato – la ragione per cui questo libro è, fino in fondo, un libro femminista – è che non racconta le droghe come un cammino per ritrovare un sé originario e autentico, né come un semplice percorso per la sua distruzione. Pendell ci ricorda che, se il funzionamento di tutte le droghe è fondato su un principio di somiglianza, operando per dissimulazione delle sostanze sintetizzate “naturalmente” dal nostro stesso corpo, ogni linea di confine tracciata per mettere in sicurezza la nostra soggettività umana dalle sue contaminazioni farmacologiche sarà sempre destinata a fallire. Forse perché questo confine non è mai stato davvero una linea, ma è da sempre uno spazio di incontro e una superficie di contatto tra corpi umani, vegetali, molecolari, sociali, politici. Pendell resta fedele all’ambiguità semantica e filosofica del termine pharmakon, rispettandone lo statuto di confine: ricordandoci che le droghe, come gli angeli dell’antico testamento, sono mediatori terribili e luminosi tra il mondo della carne e il mondo degli spiriti. Sotto la luce narcotica della luna, le droghe diventano una celebrazione del sé come artefatto: una tecnologia politica e poetica per l’invenzione di nuove forme sovversive di soggettività.
Estratto dalla prefazione a Pharmako/Poeia di Dale Pendell (add editore, 2022, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli).