È il 31 agosto 1997 quando sulla testata Fast Company esce un articolo dal titolo “The Brand Called You”. Firmato dal guru imprenditoriale Tom Peters, questo breve saggio apre con un’accorata esortazione: “è tempo per me – e per te – di trarre una lezione dai grandi brand, una lezione che è valida per chiunque sia interessato in ciò che è richiesto per emergere e prosperare nel nuovo mondo del lavoro. Indipendentemente dall’età, indipendentemente dalla posizione, indipendentemente dal settore in cui ci capita di lavorare, tutti noi dobbiamo comprendere l’importanza del branding. Siamo i CEO dell’azienda di noi stessi: Me Inc. Oggi, per essere in affari, il nostro più importante lavoro è quello di responsabili marketing del brand chiamato Tu”.
Qualche riga più avanti compare per la prima volta uno dei termini che, negli ultimi decenni, ha maggiormente segnato il mondo del lavoro (soprattutto ma non solo freelance): personal branding. “A partire da oggi, sei un brand”, scrive Peters senza alcuna ironia. “Sei un brand esattamente come Nike, Coca, Pepsi. Devi farti le stesse domande che si fanno i brand manager di Nike, Coca, Pepsi: cos’è che rende il mio prodotto o servizio differente?”. Tra innumerevoli e insistenti richiami a brand di ogni tipo e qualche riferimento anche al mondo sportivo (“dobbiamo diventare free agent in un’economia di free agent”), Peters delinea quello che diventerà un mantra per tantissimi professionisti di ogni categoria: l’autopromozione, il marketing di noi stessi, la capacità di mettersi in vetrina (con tanto di cartellino del prezzo appeso) e di attirare l’attenzione dei clienti.
Il contesto storico in cui Peters scrive, d’altra parte, è ideale. Dopo l’avanzata individualista e materialista degli anni Ottanta, gli anni Novanta del boom economico statunitense e della sconfitta del comunismo avevano creato le condizioni adatte per far attecchire una visione così esasperatamente capitalista da rendere accettabile l’equiparazione tra lavoratori e prodotti. Peters scrive negli anni in cui, con Bill Clinton e Tony Blair al governo, si diffonde la “terza via” di giddensiana memoria: una fase in cui anche la sinistra occidentale cerca di abbracciare il trionfante capitalismo (eredi di quella visione – che il suo stesso ideatore ha poi in parte rinnegato – sono oggi politici come Renzi o Macron).
Già nel 1997 Peters delinea quello che diventerà un mantra per tantissimi professionisti di ogni categoria: l’autopromozione, il marketing di noi stessi.
Sul finire degli anni Novanta, insomma, le condizioni culturali, economiche e politiche per la brandizzazione del lavoratore sembravano esserci ormai tutte. Eppure, l’appello di Peters per trasformarci in una società di persone-brand cade nel vuoto. A dichiararlo è sempre Fast Company, in un articolo del 2005, firmato da David Lidsky, che inizia con queste parole: “e se lanciassi una rivoluzione ma praticamente nessuno si presentasse?”.
Che cos’era successo? Al di là delle tante e inevitabili critiche raccolte da una visione radicale come quella di Peters, ci sono due fattori da prendere in considerazione. Prima di tutto, la mancanza, al tempo, di mezzi di comunicazione di massa che permettessero in maniera semplice ed efficace di autopromuoversi: non potevamo certo pubblicare manifesti di noi stessi o trasmettere delle auto-pubblicità. In più, in una fase di crescita economica e di piena occupazione (durante gli anni Novanta la disoccupazione si dimezza negli Stati Uniti e cala significativamente anche in Europa), è possibile che le persone non sentissero la necessità di dedicarsi a questa occupazione extra. Come scrive proprio Lidsky: “[ci sono dubbi] sulla fattibilità di un’incessante autopromozione da parte di persone già molto occupate”.
Nel giro di pochi anni, però, le barriere che avevano impedito alla logica del personal branding di diffondersi vengono meno, tutte grosso modo nello stesso periodo. A partire dal 2007 scoppia infatti la “Grande Recessione”: la disoccupazione comincia inesorabilmente a salire e le condizioni economiche a peggiorare, aumentando la competizione sul lavoro e quindi la spinta al personal branding. Dal lato della comunicazione, iniziano invece a diffondersi gli alleati perfetti del marketing di noi stessi, quegli strumenti che, per la prima volta nella storia, permettono a tutti di mettersi letteralmente in vetrina: i social network. Tra il 2006 e il 2010, Facebook passa da 12 a 600 milioni di utenti mensili (oggi sono quasi tre miliardi). Negli stessi anni, si registra anche l’ascesa del social network professionale per definizione: LinkedIn, che nel 2010 raggiunge 100 milioni di utenti mensili (oggi sono circa un miliardo).
A cavallo del secolo, però, mancavano ancora i mezzi di comunicazione di massa che permettessero in maniera semplice ed efficace di autopromuoversi.
In breve, una quota crescente di popolazione inizia a padroneggiare l’auto-promozione: tutti iniziamo a metterci in mostra, tutto ciò che ci riguarda diventa performativo. Quasi senza rendercene conto, il marketing di noi stessi – in ambito non solo professionale, ma anche sociale – diventa parte integrante della quotidianità. Come ha scritto Emma Goldberg sul New York Times, “con il personal branding, la linea tra ciò che le persone sono e ciò che fanno scompare. Tutto diventa contenuto”. Ogni giorno, ciascuno di noi decide quanta parte del suo lavoro, della sua socialità, dei suoi sentimenti vuole condividere online, quanta parte di sé vuole mettere in mostra. “L’ascesa dell’autopromozione sui social media ha fatto sì che oggi, per le persone, costruire un personal brand sia una sorta di seconda natura: tutti facciamo almeno un po’ di attenzione all’immagine che proiettiamo online e all’impressione che diamo ad amici, clienti e anche potenziali datori di lavoro o sponsor”, ha scritto Jessica Holland sul sito della BBC.
È qualcosa che facciamo non solo per aggiunta (cosa mostrare), ma anche per sottrazione (cosa non mostrare). Da un punto di vista sociale, postare su Instagram o su Facebook gli eventi o le feste a cui partecipiamo ha probabilmente a che fare con un desiderio di gratificazione personale. Dal punto di vista professionale, invece, la promozione sui social media di noi stessi e dei nostri lavori (che siano articoli, libri, grafiche, design, illustrazioni o qualunque altra cosa) è invece tutt’altro che un vezzo. Al contrario: è diventata una cruda necessità. Il complesso contesto economico e lavorativo in cui il personal branding – via social media – ha trovato terreno fertile è infatti accompagnato da un’altra dinamica che rende sempre più difficile sfuggire all’autopromozione: la costante crescita del lavoro autonomo e freelance, che rende quasi obbligatorio utilizzare Instagram, Facebook, LinkedIn e TikTok per far conoscere il proprio lavoro.
Negli Stati Uniti, il numero dei freelance è drasticamente aumentato, passando dai 57 milioni del 2017 ai 76 di oggi (il 45% del totale della forza lavoro) e arriverà a 90 milioni entro il 2028. Situazione diversa – ma trend comunque in crescita – in Europa: tra il 2015 e il 2020, i lavoratori autonomi sono aumentati del 31% in Francia, del 22% in Spagna, del 14% nel Regno Unito. In Italia, i lavoratori autonomi rappresentano il 20,8% del totale, terza percentuale più elevata di tutta Europa dietro soltanto a Grecia e Turchia. In una situazione di questo tipo, rinunciare a promuovere la propria professionalità tramite i social media rischia di avere un costo elevatissimo. Ed è anche così che si spiega il proliferare di quelli che potremmo definire personal-branded content anche nei settori più inaspettati: tutorial su YouTube creati in maniera più o meno amatoriale da idraulici, elettricisti, meccanici e altre figure professionali che sfruttano questo tipo di contenuti per arrotondare e trovare nuovi clienti, o pagine Instagram curatissime che hanno lo scopo di promuovere piccole società di parquettisti o di riparazione orologi.
L’autopromozione sui social media è qualcosa che facciamo non solo per aggiunta (cosa mostrare), ma anche per sottrazione (cosa non mostrare).
La faccenda si complica ulteriormente per quelle professioni in cui il successo non dipende soltanto dalla qualità del lavoro eseguito, ma anche dal riscontro pubblico ottenuto. In questi casi, il fatto che i social permettano di costruirsi un seguito ha reso quasi indispensabile possedere un audience. Personalmente, quando mando una proposta di collaborazione a qualche nuova testata ho sempre paura che mi rispondano: “OK, ma quanti follower hai?”. Fino ad oggi non mi sono mai state rivolte queste parole, fortunatamente, anche se ho il forte sospetto che un’occhiata ai profili social per quantificare il mio (piccolissimo) seguito e valutare la mia appetibilità sia stata data.
Quello che per me è soltanto un timore e un sospetto, in professioni creative che richiedono un maggiore investimento economico è invece una certezza. Rebecca Jennings, ad esempio, racconta su Vox la vicenda di Rachael Kay Albers, la cui proposta editoriale era stata approvata da una delle principali case editrici statunitensi finché il dipartimento del marketing non ha sollevato un’obiezione: il suo seguito social non era sufficientemente elevato. “Gli editori vogliono la garanzia che uno scrittore si presenti avendo già a disposizione un’audience propensa a leggere e a supportare il suo lavoro”, scrive Jennings.
“Conosco autori che stanno scrivendo libri incredibili, eppure quando si rivolgono a me capisco che la cosa che li tiene svegli la notte è: ‘come posso creare il mio brand?’”, ha spiegato sempre a Vox l’agente letterario Carly Watters. Promuovere se stessi e il proprio lavoro è diventato tanto importante quanto saper fare il proprio lavoro. Avere un seguito è diventato il paradossale prerequisito per crearsi un seguito. Lavorare gratuitamente nel “reparto marketing di se stessi” l’unico modo per trovare lavori realmente retribuiti.
Promuovere il proprio lavoro è diventato tanto importante quanto saper fare il proprio lavoro, e avere un seguito è il paradossale prerequisito per crearsi un seguito.
Che cosa c’è di male? “Ridurci a brand significa fare violenza al nostro essere persone”, scrive Tish Warren sul New York Times. “Trasformiamo noi stessi in prodotti da valutare invece di persone da conoscere. Convertiamo le cose della nostra vita in moneta”. Sorprendentemente, visto soprattutto il ruolo giocato dai social media in queste dinamiche, ad avere uno sguardo critico verso il personal branding è anche Sheryl Sandberg, ex responsabile operativo di Meta e per lunghissimo tempo braccio destro di Mark Zuckerberg. Durante un intervento all’Università della Pennsylvania, Sandberg ha spiegato: “Perrier è un brand. Crest è un brand. Le persone non sono così semplici. Quando ci impacchettiamo, siamo inefficaci e inautentici. Il mio consiglio è: non impacchettatevi”.
Visto che la pubblicità, il marketing e i brand in generale non hanno mai trionfato per sincerità e genuinità, il timore è quindi che le persone – o almeno l’immagine trasmessa sui social – stiano diventando sempre più finte. E che tutto ciò, stando almeno alle parole di Sandberg, sia perfino controproducente. Non la pensa così Jennifer Holloway, consulente di personal branding che, interpellata dalla BBC, spiega: “le persone si formano in ogni caso un’idea di te sulla base di ciò che dici, come ti comporti e come ti presenti. Perché non trascorrere un po’ di tempo a pensare alle tue migliori qualità e idiosincrasie, affinché il tuo profilo online sia caldo, genuino e positivo e tu abbia risposte chiare a domande come: ‘di che cosa ti occupi?’”.
Messo in questi termini, sembra che il personal branding si riduca a un’innocente e genuina cura della propria immagine social. Ma in termini di impatto, impegno richiesto e conseguenze sulla salute mentale, le cose non sono affatto così semplici. Che la situazione sia sfuggita di mano lo dimostra anche il fatto che il personal branding è da parecchio tempo diventato oggetto di satira e perfino di satira involontaria: come altro definire un articolo di Forbes intitolato “Sei modi per costruire il tuo personal brand anche mentre stai dormendo”? Un titolo del genere sembra il classico eccesso in cui a volte cadono le testate che ospitano contributi di sedicenti guru dell’autoimprenditorialità, ma in realtà accende una luce su un aspetto fondamentale del personal branding: “quando le persone stanno cercando di costruire il loro brand personale, devono essere ‘always on’, aggiornando il proprio profilo social più volte al giorno con dei contenuti attentamente curati e che vadano incontro ai gusti delle persone con cui vogliono socializzare o lavorare”, ha spiegato Ilana Gershon, autrice del saggio Down and Out in the New Economy (2017). “Ciò introduce una forma di costante automonitoraggio. Costringe a essere molto strumentali nei confronti della propria vita personale, come se stessimo costantemente performando a fini di business”.
Sembra che il personal branding si riduca a un’innocente e genuina cura della propria immagine social, ma in termini di impatto, impegno richiesto e conseguenze sulla salute mentale le cose non sono affatto così semplici.
Alla luce di quanto visto finora, non è difficile prevedere quali siano le conseguenze sulla salute mentale di una vita vissuta – come ha scritto il fondatore di LinkedIn Reid Hoffman nel suo The Startup of You (2012) – in “beta permanente”. È ormai assodato come la necessità di essere “always on”, di diventare il reparto marketing di noi stessi, di promuovere non stop la nostra immagine e di essere sempre pronti a reinventarci per sopravvivere alle montagne russe professionali sia direttamente collegata al drammatico aumento dei casi di burnout. Nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente riconosciuto l’esistenza del burnout: non però come malattia, bensì come un “fenomeno occupazionale” che “deriva da uno stress cronico sul luogo di lavoro non gestito con successo”.
Secondo uno studio commissionato da Indeed nel 2021, il 52% dei lavoratori statunitensi pensa di aver già sofferto di questa condizione. Una recente ricerca relativa all’Italia, mostra come il 39,5% dei millennials italiani abbia affrontato un burnout. Fatta eccezione per casi tanto importanti quanto particolari (medici di base, insegnanti, operatori del pronto soccorso), la categoria che negli ultimi anni è stata più colpita da burnout è però proprio quella che ha fatto del personal branding, della completa fusione tra vita personale e professionale e dell’essere “always on” la cifra stessa della professione: i creator. TikToker con decine di milioni di follower che hanno sentito il bisogno – com’è stato il caso di Charlie D’Amelio o Spencewuah – di interrompere almeno temporaneamente le attività. Oppure YouTuber che hanno confessato le loro gravi difficoltà, spiegando di essere vittime di un algoritmo che premia video sempre più lunghi e pubblicati su base pressoché quotidiana: un ritmo impossibile da gestire. Già nel 2014, l’ex YouTuber Olga Kay aveva spiegato proprio a Fast Company che il problema era soprattutto uno: “se rallenti rischi di sparire”.
La ben documentata epidemia di burnout tra i creator attivi sui social (pare ne sia colpito addirittura il 75%) è l’esempio perfetto di ciò che succede quando portiamo alle estreme conseguenze le regole del personal branding e del concetto di “Startup of You”, mostrandoci sempre performativi, sempre sul pezzo, sempre concentrati sulla proiezione di un’immagine professionale o sociale brillante mentre nella realtà siamo vittime di ansia, depressione e stiamo annegando in quella iperprecarietà che ha contribuito in primo luogo alla diffusione del personal branding. È un circolo vizioso perfetto, e non si tratta nemmeno di un incidente di percorso, al contrario: “una società fatta di esseri umani che trasformano loro stessi in piccole imprese è il logico punto d’arrivo del capitalismo del libero mercato”, si legge ancora su Vox. Per restare a galla nei tempestosi mari ultraliberisti siamo costretti a passare il nostro tempo a trasformarci in prodotti messi in mostra sui social media. Sperando che qualcuno si accorga di noi.