D avvero dobbiamo preoccuparci così tanto per la pandemia di COVID-19? In questi giorni convulsi, molti di voi si saranno fatti la stessa domanda. In fondo, il mondo è pieno di rischi: dallo smog che soffoca le nostre città al riscaldamento globale, dagli incidenti sul lavoro allo spettro della recessione economica.
È un dilemma ricorrente: ogni volta che cerchiamo di valutare l’entità di un rischio, niente sembra seguire le logiche della razionalità e dei calcoli probabilistici. Le persone, lamentano gli esperti, si preoccupano sempre delle cose sbagliate. E c’è un fondo di verità: spesso la percezione pubblica dei rischi non rispecchia le valutazioni tecniche che, seppure non possano dirsi infallibili, possono almeno sorreggersi alle statistiche. Ma di solito tutto questo ha più a che fare con la natura della mente umana che con la presunta irrazionalità dei non esperti.
Oggi abbiamo un’idea piuttosto chiara su come si formano i nostri giudizi sui rischi. A partire dagli anni Ottanta, infatti, nel tentativo di comprendere perché alcune tecnologie come il nucleare o l’ingegneria genetica trovassero tanta ostilità nell’opinione pubblica, si è sviluppato un corpus di studi multidisciplinari raggruppati sotto l’etichetta della “percezione del rischio”. Grazie a questi studi si è compreso che il modo con cui percepiamo i rischi – che costituisce un presupposto per la loro accettabilità – è influenzato da un pluralità di fattori psicologici, etici e culturali.
L’approccio psicometrico, in particolare, ha misurato l’influenza dei diversi fattori cognitivi a cui attingiamo per formulare i nostri giudizi sul rischio. Si è così scoperto che l’accettabilità di un rischio non dipende solo dalla gravità della minaccia ma anche da altri elementi in grado di influenzare la percezione dei pericoli. Ne sono un esempio la volontarietà o meno all’esposizione, l’equità nella distribuzione fra rischi e benefici, la famigliarità con il pericolo, l’incertezza sulle possibili conseguenze, la reversibilità o l’irreversibilità del danno, la fiducia accordata alle istituzioni deputate alla gestione del rischio, e molti altri ancora.
Ogni volta che cerchiamo di valutare l’entità di un rischio, niente sembra seguire le logiche della razionalità e dei calcoli probabilistici.
La percezione e l’accettabilità di un rischio, in altre parole, risultano influenzate da diversi fattori aggravanti o attenuanti che, pur differendo da quelli impiegati nelle valutazioni quantitative degli esperti (basate sul calcolo delle probabilità di accadimento e sulle stime delle perdite economiche e di vite umane), spesso non appaiono affatto irragionevoli. Per esempio, nel caso di conseguenze potenzialmente gravi e irreversibili, non è affatto irragionevole, in base a un sano principio di precauzione, dare importanza al rischio anche quando le probabilità che si manifesti sono basse. Così come, per fare un secondo esempio, un rischio a cui si è esposti a propria insaputa o contro la propria volontà è comprensibilmente meno tollerato di un rischio che si è liberamente scelto di correre. Più che di percezioni “distorte” si tratta perciò di criteri differenti per giudicare i rischi.
Nel caso della COVID-19 il fattore che più influisce sulla percezione pubblica è il fatto di trovarsi di fronte a una nuova minaccia. L’emergere di un nuovo agente infettivo rientra infatti nella categoria dei cosiddetti rischi emergenti, cioè dei pericoli che affrontiamo per la prima volta. Questo aggrava la percezione del rischio perché l’incertezza sulla natura del pericolo e sulle possibili conseguenze sanitarie, economiche e sociali amplifica la sensazione di non poter esercitare un controllo sugli eventi, e la mancanza di controllo è un fattore aggravante della percezione del rischio. Persino alcune reazioni indubbiamente eccessive, come fare scorte di generi alimentari, possono essere lette come il tentativo di mantenere un controllo personale sulle tante incognite che gravano su ciò che potrebbe accadere. D’altro canto, per fronteggiare l’epidemia sono state adottate misure senza precedenti e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elevato l’allerta globale al massimo livello possibile.
Siamo del resto in presenza di una malattia contagiosa per ora incurabile, capace di diffondersi in poche settimane in oltre cento nazioni di ogni continente e di mettere a dura prova anche i sistemi sanitari delle nazioni ad alto reddito. “Certo che le persone sono preoccupate, perché non dovrebbero esserlo?”, ha detto lo scorso 29 gennaio Mike Ryan, direttore esecutivo delle emergenze sanitarie dell’OMS: “C’è un nuovo virus, non abbiamo né vaccini né terapie: se qualcuno si preoccupa non dovremmo criticarlo”. Senza contare che, se le persone non avvertissero alcuna preoccupazione, come si potrebbe pretendere che seguano le indicazioni di autoprotezione, dal lavarsi spesso le mani al rispettare le restrizioni imposte per contenere la diffusione del contagio?
Nel caso della COVID-19 il fattore che più influisce sulla percezione pubblica è il fatto di trovarsi di fronte a una nuova minaccia, nella categoria dei cosiddetti rischi emergenti.
La famigliarità a un pericolo, al contrario, agisce come un fattore attenuante nella percezione del rischio e induce a sottovalutare la minaccia. La famigliarità spiega perché, nonostante l’elevato numero di vittime, quasi non facciamo più caso a rischi importanti ma a cui siamo ormai assuefatti, come gli incidenti automobilistici, l’inquinamento dell’aria (circa 75.000 decessi all’anno in Italia secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente) o, per restare nel regno delle malattie infettive, l’influenza stagionale, che in Italia provoca ogni anno circa 6.000 morti per cause dirette o indirette.
Azzardare paragoni fra i rischi è però un esercizio sempre scivoloso, per diverse ragioni. In primo luogo perché, come ha mostrato la teoria socioculturale del rischio, le nostre valutazioni sono fortemente influenzate anche da valori etici e norme sociali: se sono violati principi morali di libertà, equità o giustizia, un rischio può risultare socialmente inaccettabile anche in presenza di un numero limitato di vittime. Nelle pagine del saggio Come percepiamo il pericolo (Feltrinelli, 1991) l’antropologa Mary Douglas scriveva che, nel ritenere inaccettabile un rischio, spesso le persone non sono affatto allarmate ma, piuttosto, sono arrabbiate o indignate. Ecco perché non è detto che rischi giudicati meno importanti in virtù di una bassa probabilità di accadimento o di un numero minore di vittime siano più facilmente accettati.
L’accettabilità, d’altro canto, non richiede neppure l’assenza di ogni rischio. Nella nostra quotidianità conviviamo con molteplici fonti di rischio che, nella gran parte dei casi, accettiamo tacitamente in virtù dei benefici che riteniamo di ottenere in cambio. La ricerca sociale ha per esempio mostrato che il sostegno o il rifiuto delle diverse tecnologie dipende da una comparazione dei rischi e dei benefici percepiti associati al loro impiego. Nel caso del nucleare, per esempio, mentre la produzione di energia elettrica nelle centrali atomiche è osteggiata, l’impiego di radiazioni nei reparti di medicina è accettato in virtù dei vantaggi diretti per i pazienti. In modo analogo, nel caso delle biotecnologie, le applicazioni con ricadute in campo sanitario, sebbene percepite come non esenti da rischi, sono considerate utili e dunque accettabili, mentre gli alimenti geneticamente modificati, giudicati privi di benefici dai consumatori europei, sono stati rifiutati.
Siamo del resto in presenza di una malattia contagiosa per ora incurabile, capace di diffondersi in poche settimane in oltre cento nazioni di ogni continente e di mettere a dura prova anche i sistemi sanitari delle nazioni ad alto reddito.
Questo rende più complesso affrontare le cause del degrado ambientale, perché sono intrinseche al nostro modello di sviluppo: per preservare gli ecosistemi da cui dipendiamo, oggi ci troviamo di fronte alla necessità di rinunciare ai vantaggi offerti dallo sfruttamento intensivo – ma inquinante e non sostenibile – dei combustibili fossili. Per gli attori politici ed economici è più facile ignorare la minaccia dell’inquinamento o del riscaldamento globale rispetto ai rischi di una pandemia, che non può essere considerata un effetto collaterale della crescita economica e che, tutto sommato, richiede sacrifici solo a breve termine.
In ogni caso è inutile indignarsi se, al cospetto dell’emergenza scatenata dal nuovo coronavirus, persino la minaccia dei cambiamenti climatici – sulla cui gravità gli esperti hanno raggiunto il più ampio consenso che si possa immaginare – passa in secondo piano. Siamo fatti così: per non venire sopraffatti e paralizzati dalla molteplicità dei pericoli che gravano su di noi, riusciamo a concentrarci soltanto su un rischio per volta. E le minacce incombenti hanno sempre la precedenza.
Nel caso della COVID-19, infine, giudicare l’effettiva entità del rischio è complicato anche dal fatto che, trattandosi di un rischio emergente, troppe incognite rendono azzardato qualsiasi pronostico su quel che accadrà, al punto che gli stessi esperti si sono divisi nel tentativo di fare paragoni con l’influenza stagionale o con altre epidemie del passato, in una disorientante altalena di allarmi e rassicurazioni.
Per non venire sopraffatti e paralizzati dalla molteplicità dei pericoli che gravano su di noi, riusciamo a concentrarci soltanto su un rischio per volta. E le minacce incombenti hanno sempre la precedenza.
L’incertezza è un ulteriore elemento che aggrava la percezione pubblica del rischio e nel tentativo di placarla siamo portati a cercare informazioni. Se non ne trovassimo, sarebbe un guaio perché il senso di incertezza rischierebbe di sfociare in più pericolosi sentimenti di sospetto, ansia e paranoia. Oggi però affrontiamo anche il problema opposto: l’ubiquitaria ridondanza delle informazioni. Al punto che l’OMS parla di infodemia, un’epidemia di informazioni non sempre attendibili, talvolta contraddittorie, spesso difficili da interpretare. E più se ne parla – sui giornali, in radio e in tv, sui social media e nelle nostre conversazioni quotidiane, dando vita a un ingorgo comunicativo che finisce per autoalimentarsi – più la COVD-19 assume rilevanza. È quel che gli esperti chiamano “amplificazione sociale del rischio”: come animali sociali, prestiamo più attenzione a ciò che conquista anche l’attenzione degli altri.
A questo si aggiunge la cosiddetta euristica della disponibilità: tendiamo a dare più importanza agli eventi che abbiamo in mente o che possiamo facilmente recuperare dalla memoria. Vale anche nella percezione del rischio e, naturalmente, vale per la COVID-19, al centro di una narrazione in cui da settimane siamo immersi in modo ossessivo, e che rievoca le epidemie del nostro passato recente e lontano. Più in generale, le euristiche sono scorciatoie del pensiero a cui tutti ricorriamo in modo inconscio per semplificare la complessità e non restare paralizzati di fronte all’incertezza. Gli psicologi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno dimostrato che per affrontare i rischi la mente umana preferisce affidarsi all’euristica piuttosto che al calcolo probabilistico. È un processo inconscio che influenza in modo involontario anche le decisioni degli esperti, perciò non ha molto senso ridurlo all’incapacità di comprendere le statistiche. “Il mondo dentro la nostra testa non è una replica precisa della realtà,” ha scritto Kahneman nel saggio Pensieri lenti e veloci (Mondadori, 2013). E le euristiche fanno parte del nostro modo di percepire la realtà e reagire alle minacce.
E ben pensarci, ancora una volta, c’è un perché. Talvolta si tende a contrapporre percezioni e razionalità, ma le percezioni sono la nostra finestra sul mondo e, per quanto imperfette, si sono rivelate indispensabili per sopravvivere nella complessità del mondo. “Anche le emozioni sono razionali, servono a proteggerci. Persino la paura è razionale: ci aiuta a evitare i pericoli”, spiega Paul Slovic, tra i massimi esperti di percezione del rischio.
Talvolta si tende a contrapporre percezioni e razionalità, ma le percezioni sono la nostra finestra sul mondo e, per quanto imperfette, si sono rivelate indispensabili per sopravvivere nella complessità.
Del resto, abbiamo imparato a nostre spese come, di fronte a un rischio imminente, sia meglio prendere una decisione in fretta, anche basandoci su informazioni sommarie e a costo di sbagliare, piuttosto che perdere la vita. Se anziché reagire aspettiamo di essere sicuri che quella macchia nel folto della foresta sia davvero una tigre, potrebbe essere troppo tardi.
Il prezzo da pagare è la possibilità di cadere in errori di valutazione sistematici (o bias) che possono indurci a sopravvalutare o sottovalutare un rischio, facendoci prendere decisioni sbagliate. Ma che ci piaccia o no, le percezioni giocano un ruolo cruciale nell’orientare le nostre scelte individuali e collettive. Sono il metro che la mente umana usa per misurare i pericoli, talvolta anche in barba alle statistiche e ai calcoli probabilistici. Senza però che questo delegittimi in alcun modo le valutazioni quantitative della risk analysis, che restano strumenti irrinunciabili nella gestione del rischio. I risultati degli studi sulla percezione del rischio devono considerarsi complementari e non in contrapposizione alle analisi tecniche.
Il punto, semmai, è chiedersi se questo strumento che la nostra mente ha affinato per affrontare i rischi dell’epoca pre-moderna – quando si trattava di difenderci da minacce imminenti, che agivano su una scala temporale breve, causando danni localizzati a un numero ristretto di persone – sia adeguato per interpretare le minacce della modernità. Un incendio nella foresta non è il riscaldamento globale, così come l’attacco di un coccodrillo non è una pandemia. Nel mondo globalizzato e iperconnesso che abbiamo costruito, siamo in tanti, siamo ovunque e siamo terribilmente impattanti. E la nostra percezione dei rischi, imperfetta, certo, ma capace di farci arrivare fin qui, potrebbe non essere adeguata alle minacce dell’Antropocene.