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utti i mammiferi, esseri umani compresi, iniziano la loro vita all’interno del corpo di un altro individuo di sesso femminile della propria specie, dal quale dopo alcuni mesi di gestazione escono alla luce. La nascita è un momento per molti versi drammatico: una separazione fisica, segnata definitivamente dal taglio del cordone ombelicale, che per il nascituro coincide anche con un radicale cambio di “ambiente”.
Scienziati e filosofi si sono interrogati a lungo sulla distinzione dei vari stadi dello sviluppo prenatale, dalla fecondazione alla nascita. Molto più raramente, tuttavia, è stata approfondita l’intima relazione che esiste fra il corpo della gestante e quello del nascituro. Solo di recente Elselijn Kingma, filosofa e professoressa del King’s College di Londra, ha pubblicato un articolo dal titolo semplice e provocatorio, “Were you a part of your mother?” (“Sei stato parte di tua madre?”, su Mind, nel 2019) che ha ricevuto fin da subito grande attenzione e ha attirato sulla questione un interesse inedito.
Nel suo articolo, con argomentazioni che spaziano dalla metafisica alla biologia, Kingma racconta come la visione predominante oggi sia quella che in letteratura viene chiamata containment view e che vede la madre come mero contenitore del feto. A questa, Kingma contrappone una visione alternativa, chiamata parthood view, secondo la quale il feto deve essere considerato invece parte del corpo della madre, come qualsiasi altro organo. La prima visione sembra data ampiamente per scontata dai filosofi, dalla comunità scientifica e dal senso comune, anche se non è mai stata rigorosamente giustificata. La seconda, pur avendo alcuni punti a suo favore, è rimasta in questi anni largamente ignorata.
La madre è il mero contenitore del feto, o il feto deve essere considerato parte del corpo della madre, come qualsiasi altro organo?
Kingma, che è coordinatrice di un grosso progetto di ricerca europeo, Better Understanding of Metaphysics of Pregnancy (BUMP), ha così di fatto fondato un nuovo ambito di riflessione filosofica, quello della “metafisica della gravidanza”. “La gravidanza pone per sua natura delle difficoltà metafisiche”, mi spiega la filosofa. Difficoltà che potrebbero portare a una rivoluzione dell’ortodossia in materia, secondo Kingma. Perché allora non c’è mai stato un vero dibattito sul tema? Una delle prime spiegazioni che si possono dare è che le donne filosofe, e ancor più quelle impegnate nel ragionamento metafisico, sono sempre state una minoranza. “Sia chiaro: non penso affatto che si debba essere necessariamente una donna per ragionare su questi argomenti. Ma sono convinta che la scarsa presenza femminile in filosofia – e in generale nella cultura e nella scienza – possa aver giocato un ruolo, soprattutto per quel che riguarda l’aver pensato alla gravidanza solo dal punto di vista del feto, ignorando del tutto la donna gestante”.
Giovanni Boniolo, professore di Filosofia della Scienza e Medical Humanities dell’Università di Ferrara, è d’accordo: “quasi tutti i grandi filosofi maschi hanno avuto poco interesse nella gravidanza, argomento giudicato troppo femminile”. Boniolo, che come Kingma si occupa di studi sulla natura degli organismi e sull’individualità, non nasconde anche un certo cauto interesse per la proposta della filosofa. “La sua è una tesi abbastanza provocatoria, ma gli argomenti che porta sono buoni e forti. Soprattutto quelli con cui smonta la visione corrente, quella secondo cui la mamma sarebbe un frigorifero e il feto un vasetto di yogurt”.
Contro la donna contenitore
Boniolo si riferisce all’immagine utilizzata dai filosofi Barry Smith e Berit Brogaard nel 2003 per descrivere il rapporto fra gravida e nascituro: la “madre contenitore” è il frigo, il futuro bimbo un vasetto di yogurt posto su un ripiano, che viene estratto al momento della nascita. In altre rappresentazioni popolari, invece, si parla di una pagnotta presa dal forno. Kingma parte proprio da questo esempio per mostrare quanto la containment view sia radicata nella nostra cultura: “ci sono radici di questo pensiero che arrivano fino ad Aristotele”, spiega, “e questa posizione è largamente accettata in tutta la letteratura filosofica moderna”.
La containment view, racconta Kingma, esalta la continuità che esiste fra l’embrione (poi feto) e il bambino una volta nato, presentandolo come un’unità distinta dai primissimi momenti del concepimento in poi. “Pensiamo alla rappresentazione stessa del feto a cui siamo abituati: lo vediamo in genere disegnato come un quasi-neonato dalla pelle rosea, quando in realtà il suo colore è violaceo. Nelle rappresentazioni, inoltre, si tende a minimizzare o omettere del tutto placenta, cordone ombelicale e la madre stessa”.
Kingma non sostiene che la containment view sia necessariamente sbagliata. “Il problema è che questa assunzione non è basata su alcun ragionamento fondante. È data per scontata, senza che la letteratura filosofica riporti seri tentativi di argomentarla”. Troppo spesso, dice, ci si riduce a spiegazioni circolari del tipo “il nascituro non può essere parte del corpo della madre” (conclusione) perché (premessa) “nessun essere umano può essere parte del corpo di un altro essere umano”.
Secondo Elselijn Kingma, nella filosofia c’è ancora una scarsa comprensione degli aspetti fisiologici che riguardano la gravidanza.
Nel suo articolo Kingma non si ferma al solo ragionamento metafisico, e prende in analisi anche fatti scientifici che riguardano gli aspetti biologici della gravidanza. Smonta per esempio l’argomento “topologico” invocato proprio da Smith e Brogaard a favore della containment view: secondo i due filosofi esisterebbe infatti un vero e proprio confine fisico fra contenitore e contenuto, e questo confine, dicono, sarebbe il cordone ombelicale. Kingma fa notare che non solo questa affermazione è falsa, ma che tirare in ballo il cordone ombelicale porta semmai sostegno alla tesi opposta. All’interno del cordone ombelicale non esiste infatti una autentica divisione tra madre e figlio: proprio lì, anzi, i due organismi si fondono e confondono. Lo stesso vale per la placenta, perfusa di cellule sanguigne della madre e del figlio allo stesso tempo. Secondo Kingma, l’uso improprio dell’argomentazione “topologica” denuncia la scarsa comprensione di molti filosofi degli aspetti fisiologici che riguardano la gravidanza. Questo tipo di “ignoranza”, aggiunge, è un altro dei fattori che hanno tenuto la parthood view ai margini del discorso.
E se fosse un parassita?
Oltre a quello “topologico”, Kingma affronta anche altri argomenti che sembrano invece spostare l’ago della bilancia a favore della parthood view. Per esempio l’omeostasi della madre, ovvero l’equilibrio dei parametri interni (temperatura, acidità, pressione…), è mantenuta attivamente da meccanismi propri dell’organismo stesso. Anche l’omeostasi del feto è mantenuta, in buona parte, dai processi fisiologici propri del corpo della madre, e sotto questo punto di vista il nascituro può essere visto, quindi, come una parte del tutto. Un discorso analogo può essere fatto sulle funzioni metaboliche del feto che sono in buona parte assolte dal corpo della madre. Dal punto di vista immunologico, poi, sappiamo che, in una gravidanza fisiologica, il sistema immunitario della madre non attacca il feto, che dunque non è visto come un corpo estraneo ma al contrario accettato come parte (seppure temporanea) della gestante. Questo argomento trova una sponda nelle tesi del filosofo della biologia Thomas Pradeu, che ha proposto proprio il sistema immunitario come criterio di delimitazione tra individui.
Potremmo però a questo punto considerare, per assurdo, il nascituro alla stregua di un parassita, come fosse una tenia? In fondo anche una tenia è all’interno di un organismo ospite. È in qualche modo integrata con il suo sistema metabolico. Molto spesso riesce a eluderne il sistema immunitario. Nessuno si sognerebbe di dire che la tenia è parte del corpo che la ospita, però. Secondo Kingma, da questo punto di vista, c’è almeno una differenza importante fra il parassita e il feto: il primo sfrutta l’ospite per garantire la propria sopravvivenza e riproduzione, al punto di arrivare in alcuni casi a debilitarlo tanto da mettere la sua sopravvivenza in pericolo. Possiamo poi tranquillamente affermare che la tenia non ha alcuna funzione positiva per la fitness (intesa come efficienza riproduttiva in un dato ambiente) dell’organismo in cui è ospitata. Solo tra feto e gestante esiste un vantaggio reciproco: il nascituro sfrutta il corpo della madre per sopravvivere e infine nascere; la madre investe moltissime energie nella gravidanza e lo fa proprio perché il nascituro è un mezzo importante per trasmettere i propri geni alle generazioni future.
Non tutti i parassiti “vengon per nuocere” però, si potrebbe ulteriormente obiettare: nel nostro corpo abbiamo in realtà tanti ospiti meno molesti delle tenie, che “si rendono utili”. Pensiamo alla flora batterica dell’intestino che per esempio contribuisce alla sopravvivenza dell’ospite. In questo caso, secondo Kingma, anche ammettendo che la flora batterica non sia parte del nostro corpo (idea di partenza di per sé a sua volta controversa) bisogna notare che l’essere umano e il suo bioma intestinale fanno parte di specie diverse, mentre la gravida e il nascituro sono della stessa specie e addirittura nella stessa linea riproduttiva.
Nella storia del pensiero occidentale ci sono state almeno 20 o 30 definizioni diverse di persona, ognuna delle quali ha attaccata una particolare concezione etica.
“L’articolo di Kingma è lucido e ficcante”, commenta Boniolo. “Ogni tanto però la filosofa sceglie opportunamente gli argomenti a suo favore”. Tornando al parallelo con la tenia, per esempio, “non è sempre vero che il bimbo contribuisce alla fitness della mamma, ci sono dei casi in cui il il medico si trova a dover salvare uno o l’altro. Se la mamma ha un tumore e non può essere curata se non attraverso farmaci radioattivi, si corre il rischio della morte del bimbo. Ci possono essere gravidanze pericolose”, spiega. “Molte volte nel mio mestiere si fanno queste generalizzazioni che effettivamente non tengono conto di tutti gli aspetti clinici del problema”. Un esempio ancora: “dal punto di vista genetico proprio un tumore può in un certo senso contribuire alla fitness di un individuo. Certo, non contribuisce forse alla fitness della persona che lo sviluppa, ma se teniamo in considerazione Dawkins e il gene egoista, possiamo dire che il tumore fa sì che una delle centinaia di popolazioni cellulari dell’individuo abbia la possibilità di sopravvivere”.
Di cosa parliamo quando parliamo di noi
Chi vorrà immergersi nella lettura completa dell’articolo di Kingma incontrerà una serie di concetti correlati ma distinti, almeno in filosofia, che possono creare un certo grado di confusione nel lettore profano. Quello di “persona”, per esempio, che almeno nella filosofia moderna indica un individuo che ha coscienza di sé e della propria identità; niente però è così semplice come sembra: “il terreno su cui ci si muove quando si parla di persona è in effetti scivolosissimo”, mi racconta Boniolo. “In 2400 anni di storia occidentale ci sono state almeno 20 o 30 definizioni diverse di persona ognuna delle quali ha attaccata una particolare concezione etica”.
Restringere il campo agli organismi, come fa Kingma, non semplifica poi tanto la questione. “Kingma centra tutto il suo discorso sul concetto di organismo, che però nel corso dei secoli è stato altrettanto caricato di interpretazioni”, secondo Boniolo. “Faccio un esempio: vi sono coloro che sostengono che il tumore è un organismo che cresce all’interno del corpo della persona. A ben vederla quanto Kingma sostiene riguardo al nascituro potrebbe venire applicato anche a un tumore che ti cresce dentro”.
Un altro termine tirato in ballo nell’articolo di Kingma è “individualità”. Come gli altri, anche il concetto di individualità ha dato vita a un gran numero di interpretazioni nel corso del tempo. Boniolo per esempio ha sviluppato una teoria precisa: alla base della nostra individualità c’è l’epigenoma. Proviamo a spiegare meglio cos’è. Il patrimonio genetico, ovvero l’informazione contenuta nei geni di un organismo, è l’insieme delle istruzioni che consentono la costruzione e il funzionamento di ogni essere vivente. Il patrimonio epigenetico è invece l’insieme dei processi con cui queste istruzioni vengono lette e trascritte nel momento opportuno e nei tessuti giusti, anche in risposta a stimoli che provengono dall’ambiente. Il patrimonio epigenetico, a differenza di quello genetico – che resta uguale a se stesso per tutta la vita – è fortemente influenzato dall’ambiente, e certi suoi “adattamenti” possono persino essere trasmessi alle generazioni future.
Secondo Giovanni Boniolo, ciò che ci rende unici, individui, è il nostro patrimonio epigenetico.
Come si collega questo all’individualità? Le interpretazioni più semplicistiche potrebbero sostenere che l’unicità dell’individuo è scritta nel suo patrimonio genetico. Boniolo e molti altri non la pensano così. “Non siamo soltanto il nostro materiale genetico, siamo il risultato dell’espressione dei nostri geni in funzione anche di come di come viviamo. Questo fa sì che tu nello scorrere del tempo sia diverso”. Pochi potrebbero sostenere infatti che due gemelli, che condividono tutti i geni, siano lo stesso individuo, per esempio. “Esiste quello che abbiamo visto essere una sorta di eredità epigenetica tra lo spermatozoo e l’ovulo e poi lo zigote. Buona parte dello zigote riesce poi a svilupparsi proprio grazie a questo”.
Secondo Boniolo, ciò che ci rende unici, individui, appunto, è il nostro patrimonio epigenetico. E proprio su questa componente epigenetica ereditata che, secondo Boniolo, il ragionamento di Kingma diventa problematico. “Esiste un momento in cui lo zigote non si è ancora formato, ed è qualche cosa che sta in mezzo tra ciò che era prima, cioè l’ovulo e lo spermatozoo, e lo zigote vero e proprio. Una sorta di fenotipo intermedio che è qualche cosa che si va a formare”, spiega. “Ma dal momento in cui lo zigote si è formato e poi comincia a svilupparsi, personalmente penso che già a questo punto abbia una sua individualità epigenetica, legata al patrimonio genetico del padre e della madre, e anche agli input che riceve dal ventre materno. Il ventre materno è un ambiente, esattamente come quello in cui viviamo da quando nasciamo e in cui continuiamo a svilupparci”.
L’incognita etica
Parlare di zigoti, embrioni, feti, parlare in generale di vita umana, proietta inevitabilmente il dibattito sul piano etico. Eppure non è questo il tipo di riflessioni che interessano Kingma, che nel suo articolo prova a svincolarsi: “le considerazioni fatte in questo lavoro si riferiscono unicamente agli organismi. Da queste mie osservazioni non può essere dedotto nulla sulle persone senza fare assunzioni ulteriori che sono ben oltre lo scopo di questo paper”.
Un eventuale cambio di visione del rapporto tra madre e feto dovrà incidere anche sul piano etico?
La filosofa fa di tutto, insomma, perché il suo discorso metafisico resti avulso, almeno in questa prima fase, dalle considerazioni etiche che i suoi risultati potrebbero implicare (per esempio sui diritti e sul comportamento della gestante). Lo fa anche per poter stabilire con chiarezza i fondamenti del suo pensiero. Ma è evidente che si tratti di un mero temporeggiare. Anche Kingma, nonostante tutto, lo sa bene, e ha già iniziato a lavorare per sviluppare i suoi ragionamenti in questa direzione: “Sto scrivendo un paper sull’utero artificiale”, mi racconta. “Lì proverò ad affrontare il problema etico: se prendiamo seriamente l’idea che il corpo della madre e del feto siano intrecciati inestricabilmente nel modo che ho descritto, cosa implicherebbe questo sul comportamento materno?”.
Come mi racconta Bonolio, le considerazioni etiche si sono d’altra parte sempre inesorabilmente “appiccicate” a quelle metafisiche, almeno in questo specifico campo. A cos’altro potrebbe servire, tutto sommato, un discorso sulla metafisica della gravidanza se non a fondare ragionamenti etici, a colmare le esigenze pratiche che spaziano dall’ambito sociale, dei diritti, a quello medico-sanitario?