U n tiranno ha sconvolto la nostra vita, e si chiama coronavirus. Resisteremo e combatteremo ovunque, nelle case, nei luoghi di lavoro. Aiutando i più deboli e sacrificandoci per un domani migliore. E poi ci rifaremo. Coronavirus, non vincerai. Ne abbiamo cacciati di peggiori”. Non sono le parole di un generale, ma del virologo Roberto Burioni, affidate a un tweet del 9 marzo che ha collezionato più di quattromila condivisioni.
Negli stessi giorni l’appello a respingere il tiranno invasore è rimbalzato dalle stanze del potere alle corsie degli ospedali, trovando eco nei titoli dei giornali e negli applausi dai balconi. Il 17 marzo, giorno del 159° anniversario della proclamazione dell’Unità di Italia, il premier Giuseppe Conte ha scritto un post su Facebook che pesca a piene mani nel repertorio della propaganda bellica:
Lo Stato siamo noi: 60 milioni di cittadini che lottano insieme, con forza e coraggio, per sconfiggere questo nemico invisibile. Mai come adesso l’Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi.
In quei giorni, il più antico degli appelli alla mobilitazione è risuonato in tutte le lingue: siamo in guerra. “Nous sommes en guerre” aveva scandito per ben sette volte il presidente francese Emmanuel Macron nel suo discorso alla nazione del 12 marzo, evocando una chiamata alle armi di tutti i compatrioti, seppure l’ordine non fosse di presentarsi al fronte, bensì di restare a casa.
Nulla di nuovo: in letteratura si trovano numerosi esempi che mostrano come il linguaggio bellico sia pervasivo in medicina, sia nella pratica clinica sia nel discorso pubblico, dove le metafore militari diventano predominati. In entrambi i casi, il ricorso al gergo militaresco trova giustificazione nel suo potere di mobilitazione. Nella clinica, si ritiene che possa tenere alto il morale dei pazienti e rinsaldare l’alleanza fra medici e assistiti durante il percorso di cura, soprattutto in caso di malattie gravi e debilitanti. Sul piano sociale, suona come un appello alla nazione per sbloccare risorse economiche, giustificare politiche d’emergenza e incoraggiare la popolazione ad accettare i sacrifici imposti in virtù di una causa comune, com’è richiesto oggi ai cittadini di gran parte del mondo nel tentativo di arginare la diffusione del nuovo coronavirus.
Il linguaggio bellico è pervasivo in medicina, sia nella pratica clinica sia nel discorso pubblico, dove le metafore militari diventano predominati.
La malattia stessa è identificata come il nemico comune a cui la società dichiara guerra. Può avvenire in tempo di pace, come accadde il 23 dicembre 1971 quando il presidente statunitense Richard Nixon dichiarò “guerra al cancro”, stanziando ingenti risorse per la ricerca biomedica e promettendo che l’America avrebbe presto sconfitto la terribile malattia. E avviene regolarmente in una situazione di grave emergenza come quella che stiamo vivendo, dove il discorso pubblico si è popolato di medici eroi che combattono in prima linea la COVID-19, mentre nelle retrovie ogni cittadino è chiamato a una guerra di trincea, opponendosi alla diffusione del contagio finché la ricerca medica non sarà in grado di fornirci l’arma finale: un farmaco o un vaccino capace di sconfiggere il nemico invisibile.
Le metafore dell’invasione
L’impiego di metafore belliche nella medicina occidentale risale almeno al Seicento, ma diventa predominante due secoli più tardi, alla fine dell’Ottocento, con l’affermarsi della teoria dei germi di Louis Pasteur. Prima i batteri e più tardi i virus sono identificati come la causa delle malattie infettive, mentre il corpo umano comincia a essere descritto come un campo di battaglia dove le difese del sistema immunitario si battono contro questi subdoli nemici invisibili.
Fu lo stesso Pasteur a promuovere le metafore belliche nel linguaggio clinico e nel discorso pubblico delle epidemie, dove sono ormai talmente radicate che non sorprende ritrovarle in bocca ancora oggi ai governanti di mezzo mondo. “Stiamo combattendo contro un nemico invisibile e vinceremo”, ha detto il presidente statunitense Donald Trump nella conferenza stampa del 18 marzo, subito dopo essersi presentato come un presidente “in tempo di guerra”.
Se nel racconto della microbiologia la metafora dominante è quella dell’invasione degli agenti patogeni e del corpo umano come fortezza da proteggere, nel discorso pubblico la minaccia si estende all’intero corpo sociale, che deve essere difeso dall’invasore che porta il contagio. Il termine peste, del resto, è da sempre impiegato per indicare una calamità che colpisce l’intera comunità. Ne I promessi sposi (1827), la peste manzoniana è descritta come un’invasione che non si riesce a contenere:
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
Sebbene le metafore dell’invasione si siano radicate con la teoria dei germi, la loro origine è prescientifica ed è associata allo stretto legame fra le campagne militari e la diffusione della malattie infettive, che in passato venivano spesso portate dalle truppe. Un legame che si è rafforzato ulteriormente a cavallo della prima guerra mondiale, quando le metafore militari hanno trovato largo impiego nelle campagne educative contro la diffusione della sifilide e della tubercolosi tra i soldati.
La nuova realtà
Il ricorso al linguaggio bellico in medicina e sanità può avere un che di ironico, considerando che la missione della medicina è salvare vite umane. Ma certo non è privo di conseguenze perché, come argomentano George Lakoff e Mark Johnson nel saggio Metafora e vita quotidiana (2005), le metafore radicate nei nostri linguaggi (tecnici o quotidiani che siano) orientano le percezioni, i pensieri e l’azione. Mediando fra ciò che è noto e ciò che è ignoto, ci consentono di concettualizzare quel che si presenta come nuovo, incerto o minaccioso. Parafrasando il filosofo francese Paul Ricœur, le metafore servono per descrivere una nuova realtà, ma al tempo stesso finiscono anche per creare una nuova realtà.
L’epidemia di COVID-19, con il suo carico di minacce e incertezze, non sfugge a tutto questo e il linguaggio scelto per raccontarla ha un ruolo cruciale nell’orientare il nostro modo di pensare e agire nell’emergenza. Quel che valeva fino a ieri, in tempo di pace, oggi può essere sacrificato. Ciò che prima era inconcepibile, oggi può apparire persino inevitabile: passare a un’economia di guerra, imporre restrizioni delle libertà personali, militarizzare il territorio e, in definitiva, rinunciare in modo consensuale ai diritti e alle garanzie di una democrazia liberale, senza discussione pubblica, né assicurazioni che, al termine dell’emergenza, tutto torni come prima.
Concepire l’epidemia come un’invasione ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, nonostante l’OMS avverta che misure del genere rischiano di peggiorare la situazione.
Concepire l’epidemia come un’invasione ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, e ciò nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) avverta che misure del genere non possono fermare la diffusione del virus ma, al contrario, rischiano di peggiorare la situazione, intralciando la collaborazione internazionale e lo scambio di aiuti e materie prime.
In una guerra, tuttavia, niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni sfumatura perde di significato e tutto diventa bianco o nero: o con noi, o contro di noi. Persino nella quotidianità delle nostre nuove vite non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina marziale giacché persino una corsetta nel parco può diventare un ammutinamento, uscire di casa senza valida motivazione un atto di diserzione.
Il nome del nemico
Se ogni guerra ha bisogno di un nemico, nella narrazione delle epidemie il “nemico invisibile” è personificato nell’untore, la persona infetta che diffonde il contagio, da guardare con sospetto e tenere lontano: ieri i cinesi, oggi chiunque sia in odore di violare la quarantena.
Addossare la colpa a un altro diverso da noi è una tentazione vecchia come il mondo. Nel saggio La creazione del sacro (1996), lo storico e filologo Walter Burkert afferma come trasformare qualcuno in un capro espiatorio sia un tratto universale delle società umane, antiche e moderne, nei confronti della pestilenza.
Come inoltre racconta Susan Sontag nel saggio L’Aids e le sue metafore (1988), la pestilenza è sempre un male che proviene da un altro luogo: nel XV secolo, la sifilide era il french pox per gli inglesi, il morbo germanico per i parigini, il mal napoletano per i fiorentini, il mal cinese per i giapponesi. Nel secolo successivo si attribuì l’origine di questa “nuova” malattia alla scoperta delle Americhe, dove i marinai di Colombo l’avrebbero contratta prima di portarla in Europa. Del resto, nel Novecento abbiamo avuto l’influenza Spagnola e l’influenza asiatica, mentre ancora oggi Trump si ostina a chiamare “virus cinese” il coronavirus della COVID-19.
Lo stigma accompagna ogni epidemia: il male si abbatte su persone appartenenti a gruppi chiusi, che con i loro comportamenti irresponsabili causano la diffusione del morbo.
Lo stigma accompagna ogni epidemia: il male si abbatte su persone appartenenti a gruppi chiusi, che con i loro comportamenti irresponsabili o contrari alla morale causano la diffusione del morbo e mettono a repentaglio l’incolumità di tutti. La persona sofferente si trasforma così in un untore da emarginare e colpevolizzare per avere trasgredito alle regole sociali, recando offesa a sé e agli altri. Come un marchio d’infamia, il contagio svela e castiga la trasgressione, l’indecenza e l’immoralità. E come scriveva Sontag in Malattia come metafora (1977): “Non c’è niente di più punitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è invariabilmente moralistico”.
Quando all’inizio degli anni Ottanta arrivò l’AIDS, si parlò di “polmonite gay”, “cancro gay” e “peste gay”. Definizioni che trovarono una sponda nel nome attribuito alla nuova malattia dalla comunità scientifica: GRID, acronimo di Gay-Related Immune Deficiency (immunodeficienza dei gay). Oltre a causare stigma verso la comunità omosessuale, le persone eterosessuali furono indotte a ritenersi immuni dal contagio e a sottovalutare il rischio.
Ecco perché oggi l’OMS ha stabilito di non attribuire nomi agli agenti infettivi che facciano riferimenti a popoli, gruppi di persone, luoghi geografici o specie animali. Nel 2003, con la SARS, si riuscì a evitare di stigmatizzare la malattia scegliendo in tempi rapidi un nome neutro (SARS è un acronimo di Severe Acute Respiratory Syndrome). Questa volta, invece, quando si è finalmente scelto il nome COVID-19 (una contrazione di coronavirus disease-2019), i termini “virus cinese” o “virus di Wuhan” erano già entrati nelle cronache dei mass media e nel discorso pubblico, contribuendo a diffondere l’idea – sbagliata e pericolosa – che il problema riguardasse soltanto la Cina o le persone provenienti da Wuhan.
Demilitarizzare il linguaggio
Il linguaggio bellico è così pervasivo da farci credere che non si possano immaginare alternative, che invece esistono, sebbene rivestano ruoli comprimari nella rappresentazione delle epidemie. Un esempio è offerto dalla metafora della detective story: perché non si parla infatti di casi sospetti da rintracciare e mettere in quarantena, o di numerosi indizi che portano ai pipistrelli nel tentativo di risolvere il mistero dell’origine del coronavirus? La metafora della guerra, tra le altre cose, impedisce di concepire le malattie infettive nell’ambito delle relazioni ecologiche in cui gli agenti patogeni emergono e si diffondono, che includono la popolazione umana, gli altri esseri viventi e l’ambiente che noi stessi contribuiamo ad alterare aumentando il rischio di nuove pandemie.
Il linguaggio bellico è così pervasivo da farci credere che non si possano immaginare alternative, che invece esistono.
Forse è il momento di chiederci se il linguaggio bellico sia adeguato a descrivere quel che stiamo vivendo, partendo dall’unico punto fermo: le epidemie non sono una guerra. Non c’è nessuna guerra là fuori. Chi per mestiere è chiamato a raccontare ciò che accade, oggi dovrebbe domandarsi se valga la pena di rappresentare l’epidemia di COVID-19 mediante un linguaggio militare ottocentesco, con il rischio di acuire la conflittualità in un momento in cui avremmo invece bisogno di collaborazione internazionale, solidarietà ed empatia per la sofferenza causata a tante persone. Medici e infermieri sono lavoratori da tutelare, non eroi da spedire al fronte senza protezioni adeguate. E la perdita dei nostri cari non può essere assimilata alla contabilità di un bollettino di guerra. Forse è arrivato il momento di demilitarizzare il linguaggio delle epidemie.
Al termine di L’Aids e le sue metafore, Sontag confessa che, fra tutte le metafore attribuite alla malattia, quella che è impaziente di veder scomparire è la metafora militare:
Nessuno ci sta invadendo. Il corpo non è un campo di battaglia. I malati non sono né le vittime né il nemico. Noi – la scienza medica, la società – non siamo autorizzati a passare al contrattacco con qualsiasi mezzo… E per quanto riguarda la metafora in questione, quella militare, io direi, se mi è concesso parafrasare Lucrezio: rendetela a chi fa la guerra.