L’ operatore risponde in francese, anche se si seleziona l’inglese dal menù pre-impostato del centralino. Ma questo è il minore dei fastidi. Il tracing center nazionale del Belgio per il coronavirus ha il compito di registrare tutti i nuovi casi positivi nel Paese, avvisare i contatti stretti delle persone registrate e fornire loro un voucher per un test. Dovrebbe anche avere i risultati dei tamponi che ha prescritto. O forse no, meglio chiamare il call center della regione di Bruxelles, suggeriscono.
Gli stranieri che vivono nella capitale ma non hanno la residenza possono farsi testare agevolmente, senza bisogno di prescrizione medica. Poi però devono navigare nei meandri della burocrazia federale per conoscere il risultato. Il numero verde regionale è inaccessibile da telefoni stranieri e, soprattutto, registra soltanto gli esiti dei possessori di una tessera sanitaria belga. Per sapere se si è contratto il virus bisogna chiamare direttamente l’ospedale dove si è effettuato il test. Che però “non può rilasciare telefonicamente questo tipo di informazione”, nemmeno al diretto interessato. Non resta che presentarsi di persona allo sportello, violando la quarantena che lo stesso tracing center ha imposto.
Dopo un’estate di relativo sollievo, all’inizio dell’autunno il Belgio comincia a intravedere segnali di cedimento nel sistema allestito per combattere la pandemia. I numeri dei contagi giornalieri superano di nuovo quota mille, si moltiplica il tempo d’attesa per un test e i giornali riportano le storie di voli atterrati carichi di persone infette.
A settembre il Belgio allenta le misure: la mascherina diventa obbligatoria solo nei luoghi affollati, si possono invitare fino a dieci persone insieme a casa.
A settembre i belgi possono però godersi un mese sereno, perché il clima è stranamente asciutto e le giornate incredibilmente calde rispetto al solito. Ma anche perché il governo nazionale guidato da Sophie Wilmès ha deciso di allentare le misure di contenimento: la mascherina diventa obbligatoria solo nei luoghi affollati, si possono invitare fino a dieci persone insieme a casa ed entrare in stretto contatto con cinque diverse al mese. La quarantena è ridotta a sette giorni e non prevede un tampone negativo per il via libera, mentre all’ingresso sul territorio nazionale si controlla solo chi proviene da zone rosse. Gli abitanti sono sollevati e al tempo stesso sospettosi. Perché il Belgio rilassa le misure mentre gli altri Paesi europei fanno il contrario?
“L’obiettivo era ottenere un maggiore rispetto delle regole” spiega a Il Tascabile il virologo Steven Van Gucht, a capo della task force anti COVID-19 dell’Istituto di sanità nazionale, Sciensano. Con il senno del poi, un chiaro errore di valutazione. “Il problema non è stato tanto affievolire le norme esistenti, quanto non imporne di più stringenti. Abbiamo aspettato troppo e questo ritardo può aver cambiato le dinamiche della seconda ondata”. Le autorità belghe notano un progressivo aumento dei casi a inizio settembre, spiegandolo con il rientro dalle vacanze di molti connazionali. Il 23 settembre, giorno dell’annuncio delle nuove misure, sono positive nella media delle ultime due settimane 153 persone ogni 100mila abitanti (in Italia, nello stesso periodo, 34).
Quando ci si decide a intervenire, è troppo tardi. Il Paese ha ormai subito il démarrage, l’impennata dei contagi, che nella notte fra il 5 e il 6 ottobre quadruplicano, arrivando a 5.249. La situazione si fa presto fuori controllo, come ammette il 19 ottobre lo stesso ministro della Salute Frank Vandenbroucke, che parla di “uno tsunami in arrivo”. Il 20 il sistema di controllo alza bandiera bianca: stop ai test a tutti gli asintomatici, anche quelli che vengono da zone rosse e anche quelli che sono stati a stretto contatto con un positivo. La nuova regola è una quarantena “autonoma”, dieci giorni di auto-isolamento, senza però nessuna registrazione e basata soltanto sulla buona fede dei cittadini. Dal 27 comincia un mese da incubo, con oltre 100 morti al giorno tutti i giorni, mentre il 28 ottobre si registra il picco di contagiati, oltre 22mila. All’apice della seconda ondata si arriva fino a 1.817 infetti ogni 100mila abitanti e il tasso di positività sui test effettuati in quel periodo è del 21,3%, più del doppio di Italia e Francia. In alcuni punti del Paese il sistema sanitario è al collasso, tanto che negli ospedali di Liegi vengono chiamati in corsia anche i medici positivi alla COVID-19. A fine mese scatta un nuovo lockdown nazionale.
“Ipotizziamo che il boom di inizio ottobre sia coinciso con l’inizio dei corsi universitari, migliaia di studenti affluivano nelle grandi città, tornando a casa per il fine settimana”, afferma Van Gucht. Che poi elenca una serie di fattori congiunturali per cui il Belgio sarebbe esposto alla pandemia molto di più di altri Paesi: uno Stato densamente abitato nel cuore dell’Europa, con confini terrestri difficilmente controllabili; una popolazione incline a viaggiare molto; una forte presenza di lavoratori stranieri, tra cui gran parte dei 43mila dipendenti delle istituzioni europee.
La spiegazione istituzionale però non convince tutti. Secondo il virologo Marc Van Ranst, direttore di immunologia all’Università di Leuven, la genesi della seconda ondata va cercata in piena estate. “A fine luglio c’era un focolaio importante ad Anversa, inizialmente tenuto sotto controllo. Ma un certo relax nei comportamenti, aggravato dal rientro dei turisti dalla Spagna, ci ha portati a questo punto”, dice a Il Tascabile Van Rast, che in Belgio è famoso per sferzare le abitudini dei suoi concittadini.
Si ipotizza che il boom di inizio ottobre sia coinciso con l’inizio delle università, ma c’è chi punta il dito contro il relax nei comportamenti iniziato già d’estate.
“I belgi hanno un’attitudine al rispetto delle regole molto italiana. Se non fosse che gli italiani in questa crisi si sono comportati molto meglio di noi”. Anche se l’accusa suona come un cliché, il virologo cita l’esempio dei Paesi scandinavi, dove la popolazione generalmente approva l’operato dei propri governi. Difficile confermare empiricamente questa tesi, anche se la stampa belga riporta tra ottobre e novembre una raffica di lockdown party interrotti dalla polizia. “Ogni stereotipo ha un fondo di verità. in Belgio c’è una frangia di persone incline alla disobbedienza, che appena viene stabilita una nuova norma pensa subito a come aggirarla”. Un recente sondaggio sembra dargli ragione: un belga su tre avrebbe intenzione di violare le regole per celebrare il Natale.
Spesso però sono le norme stesse a non brillare per chiarezza o distinguersi per severità. Mentre gli italiani si chiudono in casa in primavera, ad esempio, gli abitanti del Belgio possono uscire in qualsiasi momento per compiere attività motoria, incluse camminate e pedalate in bicicletta. Il risultato è il “paradosso della panchina”, come racconta a Il Tascabile una studentessa italiana di Bruxelles. “Le persone potevano fare sostanzialmente ciò che volevano, pic-nic all’aperto inclusi: avvistata una pattuglia o un agente in lontananza, bastava alzarsi e camminare oppure fingere esercizi ginnici. L’unica cosa vietata era farsi trovare seduti su una panchina, ma anche in quel caso di solito ce la si cavava con un rimprovero”. Pure durante il confinamento autunnale si ha diritto a una “bolla sociale”, persone in numero variabile che si possono incontrare, e persino a un “compagno di coccole”, il knuffelcontact, che per i single può anche aggiungersi e non sostituirsi a un partner occasionale.
A completare il quadro ci sono le complicazioni endemiche di un Paese storicamente amministrato in modo non lineare, con un alto grado di autonomia territoriale. Ci sono tre comunità, distinte tra loro su base linguistica (fiamminga, francofona e germanofona) e tre regioni (Fiandre, Vallonia e Bruxelles capitale), a loro volta ripartite in dieci province. La suddivisione però non coincide, ma si sovrappone, intersecando le diverse competenze degli enti regionali e di quelli comunitari. In alcuni casi le istituzioni vengono accorpate, come nelle Fiandre, dove il territorio regionale coincide con quello della comunità fiamminga. In altri no: succede così che oltre al ministro della Salute federale, ce ne siano in tutto il Belgio altri otto, ognuno dei quali “non conosce il nome degli altri sette”, secondo un refrain molto popolare fra i belgi.
“Siamo un Paese complicato anche in tempi tranquilli. Figuriamoci nel mezzo di una crisi”, spiega Van Rast, che punta il dito sia contro la lentezza dei processi decisionali dovuta alle tante teste da mettere d’accordo, sia contro le misure differenziate. “A un certo punto non si poteva fare fitness a Bruxelles, ma nelle Fiandre sì. Quindi chi voleva andare in palestra si spostava, incrementando la mobilità e favorendo il contagio”. In questo caso anche Steven Van Gucht dell’istituto Sciensano ammette che uno stato federale rende più complicato il controllo di una pandemia, con “diversi dipartimenti, che devono mettersi d’accordo a diversi livelli”.
A completare il quadro ci sono le complicazioni endemiche di un Paese storicamente amministrato in modo non lineare, con un alto grado di autonomia territoriale.
Pur sostenendo che una quadra alla fine sia stata trovata, il responsabile della risposta nazionale alla pandemia non nega divergenze di vedute nei giorni in cui andavano prese decisioni cruciali. All’inizio dell’autunno il Presidente delle Fiandre è meno incline a reagire con misure stringenti, perché non vuole danneggiare oltremodo l’economia, visto che i casi registrati sul suo territorio sono di molto inferiori rispetto al Sud del Paese. Ma è solo questione di tempo, dopo due settimane le Fiandre raggiungono i numeri della Vallonia e di Bruxelles. “Nel mezzo di una pandemia, due settimane sono un sacco di tempo per agire”, si rammarica Van Gught.
Anche la gestione da parte della politica nazionale risente delle profonde differenze tra i territori del Belgio, che non a caso è il paese con il record mondiale di giorni consecutivi senza un governo. Alle elezioni per il Parlamento, i fiamminghi non possono votare gli stessi partiti dei valloni e viceversa: chi si presenta in una regione non entra nelle liste elettorali dell’altra. E se, come accade praticamente a ogni tornata elettorale, forze politiche di destra si impongono nelle fiandre e forze politiche di sinistra in Vallonia, è molto complicato dare vita a una coalizione. Se, come accaduto l’ultima volta, fra questi ci sono un partito di estrema destra separatista da una parte e uno di orientamento marxista dall’altra, la missione diventa impossibile.
Il risultato è che un Primo Ministro ad interim, Sophie Wilmès, si trovi a dover gestire lo scoppio di una pandemia, mentre aspetta che le forze politiche trovino un compromesso. L’accordo non può che partorire una frastagliata coalizione di sette partiti, ribattezzata “Vivaldi” perché tiene insieme tutti i colori delle stagioni: socialisti, liberali, verdi e cristiano democratici, ognuno declinato nelle diverse varianti territoriali. Anche il tempismo non è dei migliori: il governo di Alexander De Croo si insedia il primo di ottobre, proprio mentre monta la seconda ondata e servirebbe un esecutivo stabile e rodato per arginarla.
Anche se a fine novembre la situazione è migliorata, i dati complessivi del Belgio restano allarmanti in rapporto alle sue dimensioni. I casi totali dall’inizio della pandemia sono 608mila su 11 milioni e mezzo di abitanti, un terzo di quelli italiani, ma con un sesto della popolazione: è una delle quote pro-capite più alte d’Europa secondo i dati dell’European Center for Disease Prevention and Control. Paesi di proporzioni simili, come il Portogallo, hanno la metà dei positivi alla COVID-19 e solo la Repubblica Ceca mostra livelli simili di diffusione.
Paesi di proporzioni simili, come Portogallo e Grecia hanno meno della metà dei positivi alla COVID-19.
Ma c’è un numero che fa ancora più impressione. È quello dei morti, conteggiati sul totale della popolazione. Il Belgio è il primo Paese al mondo per tasso di mortalità da Covid19. I grandi malati del pianeta, dal Brasile agli Stati Uniti, registrano decessi di molto superiori in termini assoluti, ma nessuno Stato ha visto morire lo 0.15% dei suoi cittadini per questa pandemia. Con questa percentuale, in Italia le vittime sarebbero ora più di 93.000 (quasi 30.000 in più di quelle che sono al momento della scrittura di questo articolo).
Difficile giustificare un dato così, ma da Sciensano ci provano: “Abbiamo un sistema di conteggio molto preciso, che fornisce ogni giorno i dati di tutti i decessi per COVID avvenuti nelle case di cura. Pochi altri Stati lo possiedono”. Questa efficienza estrema stride con quella più discutibile del sistema sanitario, soprattutto nella prima ondata, in cui muore una persona su due di quelle finite in ospedale. E molte in ospedale non ci arrivano nemmeno, come racconta a Il Tascabile Laurence, operatrice in una casa di cura nei momenti più bui della pandemia. “Fra marzo e aprile chi si ammalava di COVID-19 non veniva quasi mai ricoverato. Ricordo vari pazienti trasportati in ospedale e riportati indietro dopo qualche ora”. Anche un report di Amnesty International denuncia questa pratica, sottolineando come, al contrario di quanto successo in tanti altri Paesi, le duemila terapie intensive del Belgio non siano mai state occupate tutte insieme. Un’altra delle contraddizioni che difficilmente troveranno risposta.