N el bel mezzo della più grave emergenza sanitaria della sua storia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) rischia di fare la fine del vaso di coccio che – narrava la favola di Esopo – dopo un naufragio si ritrova in balia della corrente tra due grossi vasi di ferro che minacciano di schiacciarlo. Quei vasi di ferro sono le due superpotenze mondiali, Cina e Stati Uniti, già ai ferri corti per la guerra dei dazi e oggi impegnate a scontrarsi sul terreno della pandemia.
L’OMS non poteva che finirci in mezzo: il 15 aprile il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato la sospensione dei fondi destinati all’agenzia delle Nazioni Unite, accusata di avere ritardato l’allarme e, quel che è peggio, di essere troppo filocinese – China-centric, nel linguaggio trumpiano. La decisione ha sollevato molte critiche. Richard Horton, direttore della prestigiosa rivista medica Lancet, non ha esitato a definirla “un crimine contro l’umanità”. Mettere in discussione il ruolo dell’OMS nel corso di un’emergenza che ormai coinvolge il mondo intero, ha rincarato Horton, costituisce “un immane tradimento della solidarietà globale”.
In effetti, in gioco sembra esserci molto più di una scaramuccia fra superpotenze o del goffo tentativo di Trump di trovare un colpevole esterno per la mala gestione dell’emergenza che, dopo aver messo in ginocchio l’economia americana, adesso minaccia anche la sua rielezione. Con il riaccendersi del nazionalismo di cui Trump è un alfiere – un processo accelerato dal dilagare della COVID-19 – l’ordine mondiale da cui era nato l’OMS, costruito sulle macerie del secondo dopoguerra, oggi sembra sgretolarsi.
Cina e Stati Uniti, già ai ferri corti per la guerra dei dazi e oggi impegnate a scontrarsi sul terreno della pandemia, a scapito della solidarietà globale.
L’OMS è stata fondata nell’ambito delle Nazioni Unite il 22 luglio 1946 per promuovere la salute globale, in un momento storico in cui l’internazionalismo faceva sognare un futuro di cooperazione politica ed economica. Alla fine degli anni Settanta, grazie a un ambizioso programma di vaccinazione, l’OMS ottenne il suo primo grande successo: l’eradicazione del vaiolo, una malattia infettiva che negli anni Cinquanta uccideva ancora milioni di persone. Come racconta Stephen Buranyi sul Guardian, quel successo fu costruito giocando con scaltrezza le carte della diplomazia con le superpotenze dell’epoca: nel 1959 l’OMS riuscì infatti a convincere l’Unione Sovietica a produrre 25 milioni di dosi del vaccino e a quel punto, per non essere da meno, gli Stati Uniti donarono milioni di dollari per finanziare il programma di vaccinazione. Vent’anni più tardi, nel 1979, l’OMS poté annunciare al mondo che il vaiolo era stato eradicato e non avrebbe più contagiato nessuno: del virus restano solo alcuni campioni custoditi nei laboratori di massima sicurezza di Atlanta (Stati Uniti) e Koltsovo (Russia).
A fare dell’OMS la sentinella globale contro le malattie infettive fu tuttavia un’altra vicenda, molto più recente. È il novembre 2002 quando nella provincia cinese del Guangdong viene scoperta una misteriosa malattia respiratoria. Il governo di Pechino mantiene l’informazione segreta finché, quattro mesi più tardi, grazie ai suoi canali diplomatici e ad alcuni contatti locali, l’OMS non ne viene a conoscenza. A quel punto le vittime del nuovo morbo, che in seguito diventerà famoso come SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), sono già un centinaio. L’OMS accusa la Cina di avere nascosto la minaccia, costringendo Pechino a condividere le informazioni.
Non è certo qualcosa che rientra nei poteri dell’OMS, ma poco importa: dal 1998 l’organizzazione con sede a Ginevra è sotto l’energica direzione di Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro della Norvegia per quasi un decennio, quindi presidente della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite a cui dobbiamo la definizione di sviluppo sostenibile. Brundtland ha capacità diplomatiche da vendere: nel marzo 2003, quando la SARS ha ormai raggiunto Hong Kong, il Vietnam e il Canada, prende una seconda iniziativa che all’epoca travalicava il mandato dell’OMS e dirama un’allerta ai viaggiatori diretti verso le zone più colpite dall’epidemia, scoraggiando così gli spostamenti aerei.
Alla fine si conteranno circa ottomila contagi in 26 Paesi e 774 vittime ma, grazie all’allerta dell’OMS e alla limitata contagiosità del coronavirus della SARS, la pandemia viene scongiurata. Un successo ottenuto in assenza di farmaci e vaccini, grazie al contact tracing per identificare e isolare ogni persona infetta, alla condivisione delle informazioni e a una comunicazione del rischio tempestiva e trasparente.
Negli anni Settanta l’OMS ottenne il suo primo grande successo: l’eradicazione del vaiolo, ma è stata la gestione dell’emergenza SARS a eleggerla a sentinella globale contro le malattie infettive.
Nel 2008, tuttavia, scoppia la crisi finanziaria. L’OMS è costretta a decurtare quasi un miliardo di dollari dal suo bilancio annuale e a licenziare centinaia di funzionari. Occorre fare delle scelte dolorose e l’agenzia delle Nazioni Unite decide di investire sulla lotta alle malattie croniche come le cardiopatie o il diabete; a farne le spese sono le risorse dedicate alle malattie infettive, il cui bilancio viene dimezzato. L’OMS cerca di compensare questa perdita esortando i singoli Stati a rafforzare le loro capacità di risposta alle epidemie, mantenendo per sé una funzione di coordinamento. Una strategia che forse avrebbe potuto funzionare per le nazioni a economia avanzata, ma come se la sarebbero cavata i Paesi più poveri, con sistemi sanitari vulnerabili e scarse risorse per affrontare un’emergenza?
La risposta arriverà due anni più tardi, nel 2014, quando l’Africa occidentale è scossa da una terribile epidemia di Ebola. Senza un budget adeguato e capacità operative sul campo, l’OMS scopre di non avere le risorse per intervenire di fronte alla rapida diffusione del contagio che, in un mondo sempre più interconnesso, non trova ostacoli. I funzionari dell’OMS, tuttavia, sembrano impreparati a questa criticità: nonostante fossero stati informati dell’avanzata dell’epidemia in Guinea già alla fine di marzo, la dichiarazione di emergenza sanitaria di rilevanza internazionale (in inglese Public Health Emergency of International Concern o PHEIC, che purtroppo si pronuncia come fake), un’allerta che obbliga tutti i Paesi a reagire seguendo le indicazioni dell’OMS, arriva soltanto l’8 agosto, quando le vittime sono ormai 961. A emergenza finita, due anni più tardi, il bilancio nei Paesi più colpiti, Guinea, Liberia e Sierra Leone, sarà di 11.310 morti.
L’OMS è costretta ad ammettere non solo di avere sbagliato nel ritardare l’intervento, ma anche di non avere i mezzi per contrastare la prossima, inevitabile, pandemia. Da allora, tuttavia, non cambia granché. Ancora oggi, nonostante l’enorme responsabilità di coordinare la gestione di un’emergenza sanitaria destinata a cambiare il mondo, l’OMS resta un’agenzia tecnica senza grandi poteri. Dal 2005 il Regolamento sanitario internazionale (IHR) impegna i governi a seguire le indicazioni dell’OMS per reagire alle minacce pandemiche, segnalando l’emergere di eventuali focolai e condividendo le informazioni disponibili. Si tratta di uno strumento legalmente vincolante, ma a differenza di altri organismi delle Nazioni Unite, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio o l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’OMS non ha strumenti per sanzionare chi viola gli impegni. E neppure dispone di medici e infermieri da inviare sul campo come “caschi blu” in supporto ai fragili sistemi sanitari dei Paesi più poveri.
Non ultimo, l’OMS dipende dai finanziamenti dei 194 Stati affiliati alle Nazioni Unite, destinati a soddisfare un gran numero di progetti di ricerca e campagne di salute pubblica. Il grosso del budget – che per il biennio 2020-2021 ammonta a circa 4,8 miliardi di dollari, una cifra inferiore a quella di cui può disporre un grande ospedale universitario statunitense – proviene tuttavia da contributi volontari di privati e fondazioni, spesso vincolati a cause specifiche che stanno a cuore ai donatori ma che non sempre corrispondono a effettive priorità di salute pubblica. In questo quadro, l’annuncio di Trump di tagliare i fondi all’agenzia è una minaccia seria per l’operatività dell’OMS, di cui gli Stati Uniti, con oltre 400 milioni di dollari all’anno (dieci volte la somma versata dalla Cina), sono il principale finanziatore.
Dopo la crisi del 2008, l’OMS si è ritrovata senza un budget adeguato e con poche capacità operative sul campo.
E così, mentre l’OMS si trova a gestire l’emergenza, è costretta anche a difendersi dalle accuse della superpotenza che più contribuisce al suo risicato budget. Trump è convinto che l’OMS sia stata troppo accomodante con la Cina: prima ha sorvolato sui ritardi nell’avvertire il mondo del nuovo coronavirus, quindi si è fidata delle rassicurazioni delle autorità cinesi sulla mancanza di prove che la malattia potesse trasmettersi da persona a persona, infine ha ritardato la dichiarazione di emergenza internazionale, arrivata soltanto il 30 gennaio, quando i casi accertati erano ormai quasi ottomila e si erano già registrati contagi in altri 18 Paesi.
Durante ogni epidemia l’OMS diventa un facile bersaglio. È criticata se enfatizza l’allarme, come accadde per l’ultima pandemia del 2009, causata dal virus H1N1 dell’influenza suina. Ed è criticata se, al contrario, non lo enfatizza, come accadde per l’epidemia di Ebola nel 2014. Un compito quasi impossibile se si considera che gli esordi di ogni epidemia sono sempre contrassegnati da un elevato grado di incertezza, come abbiamo sperimentato anche di fronte al nuovo coronavirus SARS-CoV-2.
Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, accusato esplicitamente di compiacenza con il regime di Pechino. Tedros, che è nato in Etiopia, dove ha ricoperto la carica di ministro degli esteri, è stato eletto alla direzione dell’agenzia nel luglio 2017 grazie al sostegno della Cina e dei Paesi dell’Unione Africana. Quando il 28 gennaio si è recato a Pechino per incontrare Xi Jinping ha espresso parole di grande apprezzamento per i sacrifici fatti dalla Cina nel tentativo di contenere l’epidemia, chiudendo però un occhio sulla gestione autoritaria dell’emergenza a Wuhan e arrivando persino a elogiare la trasparenza dei funzionari cinesi.
L’OMS è costretta a muoversi con cautela sul palcoscenico della diplomazia internazionale, dove è sempre stato difficile tracciare una netta separazione fra le ragioni della salute pubblica, dell’economia e della politica.
D’altro canto, a causa della mancanza di effettivo potere e della dipendenza dai Paesi finanziatori in eterno conflitto fra loro, l’OMS è costretta a muoversi con cautela sul palcoscenico della diplomazia internazionale, dove è sempre stato difficile tracciare una netta separazione fra le ragioni della salute pubblica, dell’economia e della politica. Quando, l’11 marzo, è stata dichiarata ufficialmente la pandemia, Tedros non ha potuto esimersi da un rimprovero per “l’allarmante livello di inazione” di molti Paesi, ma si è ben guardato dall’esplicitare a chi si riferisse; in quel caso, tuttavia, in cima alla lista non potevano che esserci gli Stati Uniti.
Al tempo stesso, in quei giorni drammatici l’OMS non poteva neppure alienarsi la collaborazione di Pechino, che possedeva la maggior parte delle informazioni sulla natura del nuovo coronavirus. Come ha infatti ricordato lo storico Yuval Noah Harari sulle pagine del Financial Times, in assenza di farmaci e vaccini la nostra miglior difesa contro una pandemia è la condivisione delle informazioni a livello internazionale. “Questo è il grande vantaggio degli esseri umani. Un coronavirus in Cina non può scambiarsi informazioni con un coronavirus negli Stati Uniti su come infettare le persone. Ma la Cina può insegnare agli Stati Uniti come affrontare il virus. Quello che un medico italiano scopre a Milano la mattina, la sera può salvare vite a Teheran”. Ma affinché accada, osserva Harari, serve uno spirito di fiducia e collaborazione globale.
Da questo punto di vista, i governi avrebbero molto da imparare dal mondo della ricerca scientifica che, grazie alla cooperazione fra i laboratori di tutto il mondo – compresi quelli cinesi che per primi hanno isolato la sequenza genetica del virus SARS-CoV-2 e l’hanno resa pubblica – ha unito le forze nell’urgenza di comprendere la sfuggente natura del coronavirus. La ricerca di una cura, tuttavia, rischia di prendere tutta un’altra piega, con una corsa al vaccino che già ricorda quella agli armamenti. E non solo per il linguaggio bellico a cui hanno fatto ricorso i leader del mondo per mobilitare le risorse contro la COVID-19, ma anche e soprattutto per le risorse messe in campo da Cina, Stati Uniti ed Europa al fine di garantirsi il vantaggio strategico che spetterà a chi troverà per primo una cura. Perché se già oggi è evidente il tentativo di sfruttare gli aiuti internazionali come arma diplomatica, niente potrà eguagliare la disponibilità di un rimedio capace di rilanciare l’economia, ridefinire alleanze e sfere di influenza e, in definitiva, ridisegnare la geopolitica del dopo-pandemia, come fecero gli ordigni atomici dopo la seconda guerra mondiale.
“C’è un nemico comune sul pianeta, dobbiamo combatterlo insieme”, ha detto Tedros. Ma la comunità internazionale appare più divisa che mai e a uscirne vincitore potrebbe essere il nuovo coronavirus. Dopo averci costretto a rinunciare alla nostra socialità per proteggerci dal contagio, dopo avere tratto vantaggio dalla globalizzazione per spostarsi da un continente all’altro e superare in pochi giorni barriere geografiche un tempo insormontabili, dopo avere fatto a pezzi un sistema economico sempre più interdipendente, adesso rischia di esasperare le spinte nazionalistiche e la conflittualità tra le potenze in competizione nella corsa al vaccino, togliendoci l’unica difesa per trovare più in fretta possibile un rimedio alla COVID-19: la cooperazione internazionale. Divide et impera, dicevano gli antichi. SARS-CoV-2 non può conoscere il motto latino, eppure sembra saperlo sfruttare a meraviglia.
Prima di smantellarla, faremmo bene a chiederci come sostituire quest’organizzazione a cui settant’anni fa abbiamo affidato la custodia della salute globale e che ancora oggi costituisce la nostra migliore risorsa contro le malattie infettive.
Come scriveva già nel 2014 Paolo Vineis, epidemiologo dell’Imperial College di Londra, nel saggio La salute senza confini (Codice edizioni), di fronte a una minaccia globale, le frontiere delle nazioni non offrono possibilità di difesa e perciò non resta che perseguire una soluzione mediante interventi sovranazionali. Oggi è già evidente che per averla vinta sulla COVID-19 non basta chiudere i confini e spegnere i focolai al proprio interno: in un mondo globalizzato e interdipendente, finché esisterà un luogo del pianeta in cui il nuovo coronavirus continuerà a circolare, nessuno potrà sentirsi al sicuro. I rischi globali richiedono soluzioni globali.
Mai come oggi, in un mondo sempre più interconnesso, dove in una manciata di settimane un agente infettivo può diffondersi in ogni angolo del pianeta, abbiamo bisogno di un’agenzia internazionale capace di prevenire e gestire le minacce pandemiche, secondo molti esperti destinate a diventare sempre più frequenti. Persino tra le voci più critiche nei confronti dell’OMS si leva l’esigenza di poter contare su un’istituzione sovranazionale indipendente e con l’autorità per farsi rispettare da ogni governo quando arriva il momento di affrontare un’emergenza.
È vero: quell’istituzione non è l’OMS così come la conosciamo oggi. Eppure, come ha raccontato a Rolling Stone Kelley Lee, direttrice degli studi di salute globale presso la Simon Fraser University (Canada), “l’OMS ha fatto esattamente ciò per cui l’abbiamo creata, niente di più, niente di meno. Ci ha tenuti informati. Ha mobilitato gli scienziati e ha coordinato le loro ricerche. Ha raccolto le evidenze scientifiche e ha cercato di fornire indicazioni chiare su ciò che andrebbe fatto. La vera domanda è se gli abbiamo dato abbastanza autorità e risorse per agire nel modo in cui vorremmo che agisca”. Perciò, prima di smantellarla, faremmo bene a chiederci come sostituire quest’organizzazione a cui settant’anni fa abbiamo affidato la custodia della salute globale e che ancora oggi costituisce la nostra migliore risorsa contro le malattie infettive. SARS-CoV-2 è sempre là fuori che ci aspetta.