N on più tardi di un anno e mezzo fa, le conseguenze del riscaldamento globale sulle regioni di montagna sembravano oggetto di dibattito soltanto tra specialisti ed esperti, o al centro degli interessi delle poche comunità locali dove il loro impatto era già evidente. Poi qualcosa è cambiato. All’inizio della stagione sciistica del 2021, i media austriaci hanno pubblicato le foto di alcune piste da sci che, innevate in modo artificiale, spiccavano con il loro candore nel paesaggio circostante verde e marrone. Non erano le prime immagini a documentare il fenomeno, ma sono state tra le prime a diventare virali.
Qualche mese più tardi sono girate molto altre foto, quelle delle olimpiadi invernali di Pechino 2022. Oltre alle piste di sci alpino innevate artificialmente in un panorama brullo, ha colpito molti anche il trampolino costruito a fianco ai resti di una vecchia acciaieria in disuso. Quelle immagini riuscivano a far dialogare insieme un simbolo della modernità, il complesso industriale dismesso, e uno della “post modernità”, il trampolino innevato artificialmente, dando così voce al discorso sull’Antropocene come eredità spettrale dell’utopia moderna. Nell’estate dello stesso anno, un seracco di ghiaccio si è staccato dal corpo della Marmolada ed è rovinato a valle, portando con sé le vite di 30 persone. Nessuno ha potuto fare a meno di notare che il crollo si era verificato dopo settimane di temperature ben al di sopra delle medie del periodo. L’ondata di calore a cui è stato attribuito il crollo sulla Marmolada non ha più smesso di accompagnarci. Tramutata in siccità, è diventata un tema ricorrente della cronaca e una presenza fissa nel panorama mediatico degli ultimi mesi.
A marzo, il mese in cui, secondo le serie storiche, si verifica il picco degli accumuli di neve, il 2023 ha fatto segnare un decremento del 63% rispetto a quelle che sono le medie attestate del periodo. A essere maggiormente in crisi a causa della siccità sono le Alpi, la più imponente riserva d’acqua a disposizione del nostro Paese. Gli effetti di questa prolungata e drammatica assenza di precipitazioni si sono già fatti sentire in tutta la loro portata sistemica. A preoccupare, infatti, non è solo la prospettiva di una seconda estate di razionamenti di acqua potabile e per uso domestico, ma anche le difficoltà che si trovano ad affrontare fin da ora sia il comparto agroalimentare che quello idroelettrico. Due settori su cui ha ripercussioni considerevoli anche l’instabilità globale generata dalla decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina.
Diventa perciò evidente come il riscaldamento globale operi come una forza in grado di moltiplicare le crisi in atto a livello globale, complicandone la già intricata rete di relazioni. Tra le diverse crisi che si intrecciano intorno alla prolungata siccità che il nostro Paese sta attraversando c’è anche, e non potrebbe essere altrimenti, quella dell’industria dello sci e degli sport invernali. Un comparto messo a durissima prova dalla mancanza di precipitazioni e che, mai come in questa stagione, è apparso fragile di fronte alla portata degli effetti del riscaldamento globale.
Nata negli anni Trenta del Novecento ed esplosa grazie al boom economico, l’industria dello sci ha iniziato a mostrare i suoi limiti di sostenibilità in relazione al cambiamento climatico fin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il primo inverno senza neve sulle Alpi si è verificato infatti nel 1981 e, da allora, la quantità della neve caduta si è progressivamente ridotta. Oggi, perciò, si discute con sempre maggior frequenza dell’opportunità di mantenere attive tutte quelle stazioni sciistiche poste al di sotto dei 2000 metri di quota, il cui declino appare ormai irreversibile a dispetto degli investimenti sostenuti fin qui per contrastare gli effetti del riscaldamento globale attraverso la costruzione di impianti di innevamento artificiale.
I primi sono entrati in funzione durante la stagione invernale ’88-’89 e sono stati inizialmente presentati come soluzione per gli inverni poveri di neve e in seguito potenziati come modalità di innevamento capace di garantire il controllo sulla qualità della neve stessa. Una soluzione tecnologica dall’elevato impatto ambientale – per generare la neve artificiale gli impianti consumano una notevole quantità di energia e acqua, oltre ad aver bisogno di una pesante infrastrutturazione per poter operare – che, oggi mostra limiti sempre più evidenti.
A un secolo dalla sua nascita, l’industria dello sci e degli sport invernali sembra destinata a doversi ripensare alla luce delle mutate condizioni climatiche che stiamo vivendo.
Se, come è accaduto quest’inverno, mancano le condizioni climatiche per permettere loro di operare, gli impianti di innevamento artificiale sono del tutto inutili a garantire quella continuità di utilizzo delle piste da sci per cui erano stati progettati e costruiti. A dispetto della natura non lineare dei fenomeni climatici che, nelle prossime stagioni, potrebbe dar luogo a sporadiche nevicate di eccezionale portata, tra gli esperti vi è un sostanziale accordo nel sostenere che non vi sia alcuna possibilità che la dinamica di deglaciazione in atto sulle Alpi possa invertirsi.
A un secolo dalla sua nascita, l’industria dello sci e degli sport invernali sembra perciò destinata se non a tramontare, quanto meno a doversi ripensare alla luce delle mutate condizioni climatiche che stiamo vivendo. Un compito non facile, che presupporrebbe, da parte degli operatori del settore e della politica, almeno una capacità di accettazione del cambiamento che però, fin’ora, è mancata. A questa conclusione arrivano anche le storie raccolte da Maurizio Dematteis e Michele Nardelli in un volume, Inverno Liquido, pubblicato all’inizio del 2023 per i tipi di DeriveApprodi. All’interno dei venti reportage che compongono il libro, gli autori cercano di mettere a fuoco un fenomeno, la “fine della stagione dello sci di massa”, alla luce dell’impatto che la crisi climatica sta avendo sulle terre alte. Nel farlo, la coppia di autori va anche alla ricerca dei modi in cui alcune comunità locali stanno provando a reagire al cambiamento in atto, per andare oltre l’industria dello sci e degli sport invernali e garantirsi così la capacità di sopravvivere alla scomparsa di quello che è stato, per decenni, il principale e spesso unico modello economico possibile in montagna: quello appunto del turismo invernale di massa.
Un modello a cui si contrappone, con sempre maggior frequenza, un approccio al turismo lento e dolce, che prova ad accordare alla domanda di evasione contemporanea i ritmi di vita che caratterizzano le comunità delle terre alte, da est a ovest delle Alpi e da nord a sud dello Stivale. È la strada che ha scelto di intraprendere un manipolo di operatori turistici della Valpelline, la più estesa valle laterale della Valle d’Aosta. Un territorio privo di impianti di risalita di grandi dimensioni che è rimasto al di fuori delle traiettorie del turismo invernale, conservando alcuni dei suoi caratteri estremamente distintivi. In particolare il ruolo centrale dell’agricoltura di montagna come attività economica e il recupero dell’architettura tradizionale che hanno permesso di conservare una spiccata identità alpina.
È nata così Naturavalp, un’associazione di promozione del territorio in grado di valorizzarne non solo i caratteri antropici (la cultura, l’identità e le produzioni locali) ma anche quelli naturali (i sentieri, i ghiacci, i prati, i laghi, le foreste, le distese di rocce e pietre) attraverso attività come l’escursionismo e lo scialpinismo, rivolte a “viaggiatori in grado di apprezzare un territorio vissuto da gente di montagna, in grado di trasmettere valori spesso altrove dimenticati”. Il progetto si è rapidamente ampliato, arrivando a coinvolgere oltre il 90% delle strutture ricettive della valle. Uno sforzo condiviso che nel corso di poche stagioni, nel solo comune di Bionaz, ha sì fatto passare le presenze turistiche dalle 12465 registrate nel 2012 alle quasi 21000 del 2016, ma senza per questo snaturare l’identità e della valle, puntando invece sui suoi caratteri distintivi di territorio alpino. Un risultato che è valso all’associazione Naturavalp il riconoscimento come uno dei migliori esempi di turismo dell’avvenire da parte dell’Organizzazione Mondiale del Turismo.
Un analogo percorso è quello intrapreso anche da un piccolo territorio della Provincia Autonoma di Bolzano, la Val di Funes. Posta ai piedi del Gruppo montuoso della Odle, la Val di Funes non ha mai rinunciato al carattere silvo-pastorale della sua economia, resistendo alle sirene del turismo di massa per sviluppare una forma di turismo basata sulle relazioni con il territorio e i suoi abitanti. La valle si offre al visitatore con forme di ospitalità diffusa, che mettono tutti gli attori locali al centro dell’esperienza, valorizzando le produzioni e le attività tradizionali, con l’obiettivo di mettere il turista a contatto con forme e modi di vita che non ricalcano l’esperienza urbana. L’attenzione alle relazioni al centro di questi esempi di turismo dolce rompe con la consolidata alternanza di stagione invernale ed estiva e mira a proporre una fruizione del territorio alpino capace di prolungarsi anche nella primavera e nell’autunno, accordandosi ai cambiamenti indotti dal riscaldamento globale senza doverli per forza contrastare con soluzioni tecnologiche dall’elevato impatto ambientale e dalla dubbia sostenibilità.
Una prospettiva, o almeno un tentativo, di scoperta e reinvenzione della montagna a cui fa eco anche la voce di Michil Costa. Originario della Val Badia, Costa è un “albergatore eretico”, un convinto ambientalista e un critico feroce del turismo massificato, per definire il quale ha coniato l’espressione “turismo porno-alpino”. Una formula con la quale Costa identifica i caratteri egemoni del turismo contemporaneo: l’infrastrutturazione e la cementificazione del territorio, che generano fenomeni di speculazione il cui risultato è la dislocazione della vita locale; la produzione ipertrofica di immagini stereotipate, che fonda falsi miti di purezza e produce uno standard funzionale alla vendita del territorio, e che retroagisce sulle comunità che lo abitano plasmando la loro identità in modo rigido e normativo; un concetto di ospitalità genuflesso a un’idea di viaggio che sacrifica al mero “andare in giro” la dimensione di scoperta e ritorno che dovrebbe essere propria a questo genere di esperienza.
È per opporsi alla dimensione “pornografica” che Costa ha distillato in un libro, FuTurismo, la sua visione del futuro del turismo di montagna. Presentato come un “accorato appello contro la monocoltura turistica”, FuTurismo si pone come atto di fondazione di una riflessione teorica fondata su un’idea di ospitalità come momento di verità e autenticità. Un momento all’interno del quale praticare forme di accoglienza che restituiscano al viaggio quella dimensione di lentezza che gli è propria e che permetta a questa attività di tornare a esprimere il suo potenziale di trasformazione e cambiamento delle relazioni tra esseri umani. Un doppio movimento in cui, alle nuove forme di fruizione turistica della montagna, corrisponderebbe l’emergere di nuove forme di vita autoctona, che Costa definisce con la parola “autoctomia”, un neologismo col quale indica una capacità di radicamento nel territorio che conserva però la libertà di saper circolare al suo interno, per esser partecipi di uno sviluppo che non avviene se non in relazione alla dimensione globale in cui il territorio è inserito.
In tutti questi esempi colpisce proprio il richiamo esplicito alla questione dell’autonomia, che sia nel libro di Costa sia in Inverno Liquido sembra affiorare come una delle questioni cardine per il futuro delle terre alte. Nel corso del Novecento, infatti, l’industria dello sci – e il turismo di massa che ne è stato conseguenza–, si sono sviluppati come forme di prolungamento (qualcuno si spingerebbe a dire colonizzazione) della città verso la montagna, che ha fatto della seconda un’appendice a servizio della prima.
Le terre alte sembrano vivere in un interregno gramsciano, in cui il vecchio sta morendo ma al nuovo non è ancora concesso nascere, perché l’attuale configurazione del potere è sbilanciata a favore del primo.
Oggi che l’impatto del riscaldamento globale mette alla prova tanto il pensiero quanto le forme che sono state proprie delle modernità, l’incapacità di abbandonare modelli di sviluppo che mostrano evidenti segni di esaurimento si scontra con i tentativi di gestire un cambiamento che non presenta ancora segni netti e definitivi. È il caso, citato tanto da Costa quanto da Dematteis e Nardelli, del piano di riconversione della località trentina di Passo Rolle, ideato e perorato dall’imprenditore trentino Lorenzo Delladio, proprietario del marchio di attrezzatura tecnica La Sportiva. Un progetto, quello della Sportiva Outdoor Paradise, che avrebbe ridefinito l’identità del luogo, affrancandola dalla sua ormai anacronistica immagine di località sciistica di bassa quota, non più sostenibile, per traghettarla verso un’idea di turismo di montagna più ampio e non incentrato sugli sci. Naufragato a causa dell’accesa opposizione di molti operatori turistici locali, contrari anche solo all’idea di demolire gli impianti di risalita, il suo fallimento mostra ancora una volta quanto le eredità della modernità pesino ancora sullo sviluppo di alternative capaci di mostrarsi resilienti agli effetti del riscaldamento globale.
A guardarle con la lente del pensiero politico, le terre alte sembrano perciò vivere in un interregno gramsciano, in cui il vecchio sta morendo ma al nuovo non è ancora concesso nascere, perché l’attuale configurazione del potere è sbilanciata a favore del primo. Di fronte a questa situazione emerge dunque la necessità di costruire policy e forme di governance che, nel contesto della crisi climatica, diano alle zone di montagna l’autonomia necessaria per garantire uno sviluppo che segua le esigenze delle comunità che le abitano. In che modo si potranno costruire questi strumenti di autogoverno?