Q uando la filosofa Jenann Ismael aveva dieci anni suo padre, un professore dell’Università di Calgary di origine irachena, comprò a un’asta un grande mobile di legno. Frugandoci dentro, Jenann trovò un vecchio caleidoscopio, dal quale rimase totalmente rapita e, dopo ore di sperimentazione, riuscì a capire come funzionava. “Non dissi nulla a mia sorella per paura che lo volesse lei” ricorda.
Guardando nel caleidoscopio e ruotandone il tubo, si vedono sbocciare forme multicolori che volteggiano, si fondono e si muovono imprevedibilmente senza un’apparente spiegazione razionale, quasi come se esercitassero un’inquietante azione a distanza le une sulle altre. Ma più le si osserva meravigliati, più si notano delle regolarità nel loro moto. Le forme che si trovano alle estremità opposte del campo visivo cambiano all’unisono, e la loro simmetria ci dà un indizio di ciò che accade in realtà: le forme non sono oggetti reali, sono immagini di oggetti, e in particolare di frammenti di vetro colorato che ruzzolano in un tubo rivestito di specchi. “Un’unica perlina di vetro è rappresentata in maniera ridondante in diversi punti dello spazio” spiega Ismael. “Se però ci si concentra sullo spazio in cui è immerso il caleidoscopio, cioè sulla sua descrizione tridimensionale, si ottiene una spiegazione razionale e causale. C’è un pezzo di vetro, questo pezzo di vetro si riflette sugli specchi, e così via”. Visto per ciò che è realmente il caleidoscopio non è più misterioso, pur rimanendo impressionante.
I fenomeni non locali escono dallo spazio, non trovano posto entro i suoi confini, e suggeriscono un livello di realtà più profondo.
Qualche decennio più tardi, mentre preparava un seminario di fisica quantistica, Ismael ripensò a quel caleidoscopio e decise di comprarsene uno nuovo di zecca, uno scintillante tubo di rame custodito in un lussuoso astuccio di velluto. Il caleidoscopio era una metafora della non-località in fisica. Forse le particelle di un esperimento di entanglement o le galassie ai confini dell’universo conosciuto non sono altro che proiezioni – o, se si preferisce, creazioni secondarie – di oggetti che in realtà esistono in un dominio molto diverso. “Nel caso del caleidoscopio sappiamo quel che dobbiamo fare: dobbiamo vedere il sistema nel suo insieme, capire come si crea lo spazio immagine” spiega Ismael. “L’analogo per gli effetti quantistici è vedere lo spazio che conosciamo – lo spazio quotidiano, quello in cui vediamo eventi di misura localizzati in regioni spaziali diverse – come una struttura emergente. Forse quando guardiamo due regioni diverse stiamo in realtà guardando lo stesso evento. Stiamo interagendo con lo stesso pezzo di realtà, da due regioni diverse dello spazio”.
Bisogna insomma mettere in dubbio l’ipotesi, fatta da quasi tutti i fisici e filosofi da Democrito in poi, che lo spazio sia la base ultima della realtà fisica. Come un copione descrive le azioni degli attori a teatro presupponendo l’esistenza di un palcoscenico, così le leggi della fisica hanno sempre dato per scontata l’esistenza dello spazio. Oggi sappiamo che l’universo è qualcosa di più che un insieme di oggetti ubicati nello spazio. I fenomeni non locali escono dallo spazio, non trovano posto entro i suoi confini, e suggeriscono un livello di realtà più profondo, in cui le cose che ci appaiono distanti sono in realtà vicine o sono forse la stessa cosa che si manifesta in più di un luogo, come le immagini multiple dello stesso pezzetto di vetro in un caleidoscopio. Se pensiamo in questi termini, i legami tra particelle ai lati opposti di un banco da laboratorio, tra l’interno e l’esterno di un buco nero, o tra punti alle estremità opposte dell’universo visibile non ci sembrano più così inquietanti. “Se si accetta che il livello fondamentale della fisica non sia locale tutto diventa naturale, perché le due particelle distanti l’una dall’altra stanno in realtà esplorando lo stesso livello fondamentale non locale. Per loro lo spazio e il tempo non importano” spiega Michael Heller, fisico, filosofo e sacerdote all’Accademia pontificia di Teologia di Cracovia. Solo quando cerchiamo di visualizzarli in termini di spazio – il che è perdonabile, perché per noi è difficile pensare in altro modo – questi fenomeni appaiono incomprensibili.
L’idea di un livello più profondo sembra naturale perché, dopo tutto, è ciò che i fisici cercano da sempre: ogni volta che non afferrano qualche aspetto del mondo ipotizzano di non avere scavato ancora abbastanza. E allora prendono la lente d’ingrandimento e cercano i mattoni fondamentali. È un mistero, per esempio, che l’acqua possa trasformarsi in vapore se riscaldata, o in ghiaccio se raffreddata. Ma queste trasformazioni diventano perfettamente comprensibili se liquido, solido e vapore cessano di essere sostanze elementari e diventano forme diverse di un’unica sostanza.
Se non possiamo più dare per scontato lo spazio, dobbiamo spiegare che cos’è e come nasce, da solo o congiuntamente al tempo.
Aristotele considerava i diversi stati dell’acqua come altrettante incarnazioni della cosiddetta “materia prima”, mentre gli atomisti (precorrendo i tempi) credevano che si trattasse di diverse ridistribuzioni di atomi in strutture più o meno compatte. Nel loro insieme, i costituenti dell’acqua acquistano proprietà che non possiedono se presi singolarmente. Una molecola d’acqua non è umida e un atomo di carbonio non è vivo ma, presi in grande quantità e combinati nella maniera giusta, lo possono diventare. Allo stesso modo lo spazio potrebbe essere fatto di elementi che di per sé non sono spaziali, e che potrebbero essere smontati e rimontati per formare strutture non spaziali quali quelle suggerite dai buchi neri o dal big bang. “Lo spazio non può essere fondamentale”, secondo Nima Arkani-Hamed. “Deve emergere da qualcosa di più basilare”.
Questo punto di vista rovescia completamente la fisica. La non-località non è più un mistero, e descrive come stanno realmente le cose: il vero enigma è la località. Se non possiamo più dare per scontato lo spazio, dobbiamo spiegare che cos’è e come nasce, da solo o congiuntamente al tempo. Chiaramente costruire lo spazio non sarà facile come mettere insieme tante molecole per fare un fluido. Quali potrebbero essere questi costituenti elementari? Normalmente si presume che i mattoni siano più piccoli degli oggetti che si costruiscono usandoli. Un mio amico e sua figlia una volta hanno costruito un modellino della Torre Eiffel usando stecchini da ghiacciolo: non hanno certo dovuto spiegare che i bastoncini erano più piccoli della torre. Quando si parla di spazio, tuttavia, il concetto di “più piccolo” salta, perché le dimensioni sono di per sé un concetto spaziale. I costituenti elementari non possono presupporre lo spazio, se lo devono spiegare. Non possono avere dimensioni, ma nemmeno una posizione. Dove sarebbero? “Quando parliamo di spazio-tempo emergente, dobbiamo immaginare di partire da un contesto molto lontano da quello a cui siamo abituati” spiega Arkani-Hamed.
Nella tradizione filosofica occidentale, quello esterno allo spazio è sempre stato considerato un dominio metafisico, il piano dell’esistenza di Dio nella teologia cristiana. All’inizio del settecento le monadi che Gottfried Leibniz immaginava come elementi primitivi dell’universo esistevano, come Dio, fuori dallo spazio e dal tempo. La teoria di Leibniz si avvicinava in un certo senso al concetto di spazio-tempo emergente, ma era ancora metafisica, e dotata di un legame molto vago con il mondo degli oggetti concreti. Se i fisici vogliono riuscire a spiegare lo spazio come emergente, devono impossessarsi del concetto di aspazialità.
Estratto da Inquietanti azioni a distanza, Adelphi 2019, traduzione di Franco Ligabue.
© 2015 George Musser
Published by arrangement with Scientific American / Farrar, Straus and Giroux, New York and The Italian Literary Agency
© 2019 Adelphi Edizioni S.p.A. Milano