L a storia scientifica delle ricerche sull’evoluzione umana è costellata di scoperte spiazzanti, di litigi e ripensamenti. Ogni bravo scienziato deve sapersi esporre all’ignoto, è vero, ma nel campo della biologia evolutiva e della paleoantropologia, la scienza delle nostre origini, sembra esserci qualche azzardo in più. D’altra parte si tratta di una disciplina che per forza di cose si basa, molto più di altre, sulla prudenza, sull’incertezza, sui dubbi, le supposizioni e l’intuito dei ricercatori, oltre che sul confronto con le altre scienze. In Noi, umani (Iperborea, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo) Frank Westerman racconta alcune di queste storie: trionfi e dissidi di una manciata paleoantropologi attorno a un mucchio di ossa.
Nell’ottobre del 2004, sulle pagine di Nature compare un articolo sorprendente: riferisce del ritrovamento dei resti di un piccolissimo essere umanoide il cui scheletro è stato rinvenuto qualche mese prima, in mezzo a resti animali e manufatti in pietra, in una grotta immersa nella vegetazione tropicale a Flores, un’isola a metà strada tra Indonesia e Australia. Si tratta di un individuo di sesso femminile, corporatura minuta, circa un metro, e cervello piccolo, molto più piccolo di quello di qualsiasi altro resto con cui si prova a confrontarlo. Non c’è nulla di simile nella documentazione fossile umana, scrivono i ricercatori. Un’altra cosa sorprendente è la datazione: i resti avrebbero solo 18.000 anni, un’età che in termini paleoantropologici è un battito d’ali. Fino a quel momento eravamo convinti che 18.000 anni fa non ci fosse ormai altro che noi, Homo sapiens, che fossimo noi gli unici rappresentanti della nostra famiglia. Questi resti, invece, non sembrano poter appartenere a un esemplare di Homo sapiens. Sbagliavamo, allora? Abbiamo convissuto, molto a lungo di quello che pensassimo, accanto a altri ominidi, altri rami della nostra stessa evoluzione?
Lo scheletro viene chiamato amichevolmente Flo o, più scientificamente, LB1, dalla grotta in cui viene ritrovato, in località Liang Bua. Passano i mesi e si scopre che Flo non è sola: ci sono altri resti, lì nei dintorni. E anche la datazione cambia, ora oscilla ora tra 10.000 e 100.000, che sembra tanto ma rimane comunque poco, almeno per i paleoantropologi: Homo neanderthalensis, l’altro ominide con cui sappiamo aver diviso la Terra, è vissuto tra i 200.000 e i 40.000 anni fa. Homo sapiens è comparso circa 300.000 anni fa. (Sono tutte date, come si sarà capito, da prendere con il beneficio del dubbio). Grazie anche a questi nuovi ritrovamenti, che infittiscono il mistero piuttosto che risolverlo, l’interesse mediatico esplode, e la storia di Flo viene raccontata ovunque, su giornali e riviste, a volte con approssimazioni e sensazionalismi. Forse anche in reazione a tutta questa visibilità, considerata eccessiva, nella comunità scientifica nasce la perplessità di una fazione di studiosi. Una frangia di scienziati in particolare cerca di smentire alcune delle conclusioni, o delle supposizioni, che sono state ormai tracciate attorno alla storia e l’origine di Flo. Quello scheletro è un membro della nostra specie, dicono gli scettici: le stranezze si spiegano in altro modo, forse siamo davanti a un esemplare (o a diversi esemplari) di pigmei, e si può ipotizzare che fossero anche affetti da qualche patologia che ha bloccato la loro crescita. Ma comunque Flo è Homo sapiens.
Nel frattempo però l’equipe internazionale che ha trovato i resti lancia il cuore oltre l’ostacolo: ci sono troppe cose fuori dalla norma, non si può trattare di umani moderni, siamo davvero di fronte a una nuova specie, una specie sconosciuta e ormai estinta, affetta da nanismo insulare: Homo floresiensis. Nasce così una battaglia di ricerche e contro-ricerche, paper, ipotesi azzardate, smentite e accuse (mentre scrivo questo articolo, per esempio, è tornata in voga l’idea, fantastica e ancora poco solida, che esemplari di Homo floresiensis possano essere ancora in vita, nascosti in qualche anfratto di qualche altra isola). Per la cronaca, oggi l’interpretazione più corretta dei resti sembra quella fornita dagli scienziati che hanno fatto la scoperta.
Westerman trasforma questa storia scientifica in una storia poliziesca, o meglio nell’anatomia di una storia poliziesca: perché il libro, con una scelta quantomeno insolita, gira attorno a una lezione che lo stesso Westerman dà all’università di Leida, durante il suo corso di reportage, in cui racconta proprio le vicende di Flo e il suo viaggio per ricostruirle. Il lettore segue quindi la lezione, i dubbi degli studenti, le risposte del professore. Lo storytelling di una lezione di storytelling. La scrittura è quella ormai tipica dei libri di Westerman: tanti capitoli che come in un bulbo di cipolla tornano ogni volta indietro aggiungendo uno strato, cercando di mettere sempre più a fuoco alcune domande fondamentali. In questo caso: come cambia la percezione che abbiamo di noi stessi quando impariamo qualche dettaglio in più sulle nostre origini?
I resti di Homo floresiensis sono stati descritti, in questi anni, in molti modi diversi, modi che spesso rivelano il pregiudizio dello sguardo di chi raccontava quel cumulo di ossa. Flo è stata raccontata come un pigmeo, un nano, un ominide che soffriva di microcefalia, un nuovo antenato di Homo sapiens mai scoperto prima, un nuovo tipo di Homo erectus. A partire da qui Westerman accumula storie, aneddoti e suggestioni.
DEVIANZA VS NORMA, scrissi sulla lavagna. Che cosa è “normale”? E come si stabilisce che cosa è normale?
A partire dai temi del libro, ho fatto qualche domanda a Frank Westerman sugli intrecci tra scienza e narrazione. Lo scrittore e giornalista nei prossimi giorni sarà in Italia, ospite, a Milano, di “I Boreali”, festival italiano interamente dedicato alla cultura del Nord Europa, ideato e organizzato da Iperborea.
Il suo è un libro sulla specie umana, su ciò che sappiano e ciò che non sappiamo di noi stessi, e sul modo in cui raccontiamo l’avventura della nostra evoluzione. Tra i tanti possibili approcci e punti di partenza per queste riflessioni, perché ha scelto proprio la storia scientifica di Homo floresiensis? In che modo è speciale?
La storia di Homo floresiensis è anche una storia di scontro di teorie scientifiche: non è la prima volta che lei ragiona e racconta questo tipo di conflitti intellettuali. Che cosa l’affascina nella rivalità tra scienziati?
C’è un’idea ricorrente nei suoi libri. È quasi un motto: i fatti non parlano da soli. È forse un punto di partenza inevitabile per uno scrittore che si interroga sulle narrazioni. Ma questo significa che secondo lei neanche la scienza può considerarsi una conoscenza oggettiva?
In un libro di qualche anno fa, Pura razza bianca, lei racconta diverse storie che ruotano attorno alla genetica. Una di queste storie è quella di Trofim Denisovich Lysenko. Nato da una famiglia di contadini ucraini, dopo qualche felice intuizione scientifica riuscì a farsi largo all’Istituto di genetica e all’Accademia delle scienze agrarie dell’Unione Sovietica. Fece carriera, divenne una delle figure più importanti e potenti della scienza sovietica. Ma legò il suo successo all’umiliazione del metodo scientifico: mosse violenti attacchi contro la genetica “classica” adottata da molti suoi colleghi, accusando la teoria stessa di non essere compatibile con il materialismo dialettico e di non aver dato per questo risultati economici di rilievo all’agricoltura russa. Piegò quindi la scienza all’ideologia: creò alcune sue teorie, una nuova genetica che potesse essere, in maniera decisamente non scientifica e forse neanche dimostrabile, compatibile con le idee sovietiche (ma, come ricorda Treccani, oggi “gli esperimenti che egli ha portato a sostegno delle sue opinioni non sono considerati probativi – manca ogni elaborazione statistica e ogni precauzione circa la purezza degli stipiti – dalla gran maggioranza dei biologi”). Insomma, Lysenko portò a una palese interpretazione errata delle teorie scientifiche, a una manipolazione politica a scopi di dominio e potere. Pensa che la scienza moderna, per come si è strutturata, permetta ancora questo genere di forzature? Che si tratti di distorsioni “di stato” o “di mercato”, può esserci da qualche parte un nuovo Lysenko, oggi?
Nonostante lei racconti spesso la fallibilità della scienza in quanto esperienza umana, mi sembra che anche il troppo relativismo la spaventi, anche nelle “società aperte”.
A proposito della potenza delle narrazioni: nel libro scrive che persino leggende come quella dello Yeti potrebbero non essere leggende, dopo tutto. C’è chi pensa che siano storie vere, tramandate oralmente, storie che raccontano avvistamenti realmente accaduti, ma di una specie animale che ormai, nel frattempo, è andata estinguendosi. Un’ipotesi simile esiste anche per le leggende del folklore dell’isola di Flores, che riguardano piccoli esseri pelosi che, secondo alcuni, sarebbero proprio esemplari di Homo floresiensis. Le origini evaporano e rimangono le storie, allora, i ricordi di incontri veri che si sono fatti leggenda. Mi sembra una teoria affascinante, che sottolinea anche un aspetto unico del modo in cui le storie si evolvono, si riproducono, mutano.
Qualcuno ha detto che Homo sapiens è un animale che racconta storie. Pensa che sia questa la cosa che ci rende diversi da tutti gli altri animali?
C’è qualche altra attività che rende tipica (o atipica) la specie umana?
Lei scrive della complessità dell’esistenza umana mescolando scienza e letteratura. Crede che riusciremo mai a comprendere appieno il modo in cui i fattori biologici e culturali interagiscono? Riusciremo mai a costruire una sorta di sociobiologia umana?
Frank Westerman sarà ospite dell’ottava edizione del festival “I Boreali”, al Teatro Franco Parenti di Milano, sabato 30 aprile alle 18, in dialogo con Andrea Staid.