C he cos’è l’empatia? La psicologa Stephanie Preston dell’Università del Michigan, con i colleghi Melanie Ermler, Yuqing Lei e Logan Bickel, ha raccolto le molteplici definizioni che vengono fornite dalla letteratura scientifica. Nella loro analisi si legge, così, che “empatia” è un termine usato in maniera generale per tutti i processi – tra i quali la simpatia, l’attenzione sociale, la comprensione dell’emozione, il rispecchiarsi nel sentire altrui – che implicano l’immedesimarsi con l’altro o il comprendere lo stato dell’altro.
Quando si parla di empatia, però, oggi si finisce per parlare quasi sempre dei celebri neuroni specchio, ovvero quei neuroni localizzati nell’area premotoria del nostro cervello che hanno dimostrato di attivarsi non solo durante l’esecuzione di azioni semplici aventi uno scopo (per esempio raccogliere un oggetto da terra) ma anche quando quelle stesse azioni vengono solo osservate (vedere un’altra persona raccogliere un oggetto da terra). La scarica di tali neuroni registrata con precisione a livello neurofisiologico, costituisce la prova della loro implicazione in quell’azione, sia essa eseguita o osservata. Negli ultimi anni l’interesse della ricerca si è esteso all’attivazione concomitante di neuroni in altre regioni cerebrali e facenti parte di uno stesso sistema funzionale.
I neuroni specchio hanno dimostrato di attivarsi non solo durante l’esecuzione di azioni semplici ma anche quando quelle stesse azioni vengono solo osservate.
Lo psicologo Paul Bloom, nel libro Contro l’empatia. Una difesa della razionalità, fa riferimento al ruolo che è stato attribuito ai neuroni specchio nel corso della ricerca delle basi neuroscientifiche dell’empatia. Bloom chiama in causa l’ormai nota “legge di Godwin”, quella che dice che più una discussione online si allunga e diventa accesa, più è probabile che venga fuori un paragone con Hitler. Allo stesso modo, scrive Bloom, in qualsiasi discussione sulle capacità psicologiche (inclusa l’empatia), non c’è da aspettare a lungo prima che qualcuno ricordi al gruppo che è già disponibile una spiegazione perfettamente valida: tutto è reso possibile dai neuroni specchio. Ma è davvero così?
Tornando al recente lavoro di Stephanie Preston e collaboratori, si possono identificare tre processi separati nell’empatia: il riconoscere, il sentire, il pensare. In primo luogo, quando osserviamo qualcuno che soffre dobbiamo prestarvi attenzione, percepire e riconoscere quello stato. Questo processo è basato sulle nostre esperienze, su quello che abbiamo osservato e appreso in passato: possiamo riconoscere la sofferenza dell’altro solo se attiviamo queste conoscenze e rappresentazioni apprese. A partire da queste rappresentazioni interne possiamo comprendere e sentire le emozioni degli altri attraverso l’empatia emotiva. Infine, l’empatia cognitiva ci permette di pensare e di assumere in modo intenzionale e controllato la prospettiva dell’altro per immedesimarci nello stato emotivo dell’altro, indipendentemente dalla sua presenza.
Questa classificazione viene applicata dall’autrice e colleghi a tre disturbi dell’empatia: il disturbo borderline di personalità, il disturbo narcisistico di personalità e la demenza fronto-temporale, facendo riferimento alle aree cerebrali che potrebbero essere implicate e opportunamente senza dare spazio ai famosi e specifici neuroni specchio. E, infatti, può davvero l’empatia, questa definizione così complessa di empatia, essere ridotta a funzione di un unico tipo di neuroni del nostro cervello?
Quando si parla di empatia vengono spesso tirati in ballo i neuroni specchio. Ma capacità così complesse possono essere ridotte a funzione di un unico tipo di neuroni?
Probabilmente no, ma parallelamente al corso scientifico e alle nuove analisi e scoperte che si sono aggiunte, negli anni, su queste interessanti cellule motorie, si è sviluppato un filone che potremmo definire puramente narrativo, e che le ha rese molto popolari, alleggerendole però del loro significato scientifico: ai neuroni specchio vengono così attribuiti i più svariati fenomeni cognitivi, clinici, sociali, legati all’apprezzamento di eventi sportivi e di prodotti artistici, al linguaggio e all’imitazione.
Un po’ di storia
I neuroni specchio sono stati scoperti negli anni Novanta durante gli studi sperimentali che venivano condotti all’Università di Parma sulla corteccia premotoria di alcuni macachi, attraverso elettrodi intracranici posti nella regione frontale inferiore del cervello. I ricercatori guidati da Giacomo Rizzolatti, analizzando la risposta dei neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, ne riscontrarono l’attivazione non solo quando la scimmia eseguiva un’azione con l’arto superiore (ad esempio afferrare un oggetto) ma anche quando la stessa azione veniva svolta dallo sperimentatore e quindi era soltanto osservata.
Secondo l’interpretazione originaria e che ha ricevuto più conferme scientifiche (Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese e Rizzolatti 1992), i neuroni della corteccia premotoria rivelano un comune meccanismo di selezione dell’azione che entra in gioco sia in base alle caratteristiche di uno stimolo, sia in base allo scopo dell’azione osservata. Si tratta di un esempio di serendipità che ha portato a un’importante scoperta per le neuroscienze e all’apertura di un nuovo campo di ricerca.
L’entusiasmo per questa scoperta e per le sue potenzialità aumentò gradualmente nel decennio successivo fino al 2000, quando il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran affermò che “i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”. Negli anni seguenti il numero degli studi condotti sui neuroni specchio e sul loro ruolo in diversi fenomeni psicologici è notevolmente aumentato, passando da due decine di articoli nel 2001 a oltre 200 articoli pubblicati nel 2013, in base a quelli indicizzati sulla piattaforma PubMed. La ricerca è continuata sia attraverso la sperimentazione animale sia su soggetti umani, per trovare le conferme necessarie a consolidare le conoscenze acquisite. Nella maggior parte dei casi, però, la metodologia di questi studi è stata messa in discussione (ad esempio il numero di soggetti studiati è esiguo, le interpretazioni si basano su correlazioni che quindi non dimostrano relazioni di causa-effetto) e molti risultati non hanno retto alle verifiche e alle repliche. Il numero di pubblicazioni è andato via via riducendosi fino ad arrivare a poco più di 90 articoli pubblicati l’anno scorso e a una trentina nei primi sei mesi di quest’anno (sempre secondo i dati di PubMed).
I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia, si diceva venti anni fa; una profezia che non si è avverata.
Sebbene i neuroni specchio sembrino avere un ruolo nell’imitazione di azioni semplici e finalizzate, oggi non è ancora stato dimostrato che siano alla base della comprensione dell’azione. Riprodurre un’azione semplice a livello neurale non equivale a immedesimarsi con i complessi stati psicologici dell’altro. La funzionalità esclusiva dei neuroni specchio non è sufficiente a spiegare l’imitazione, dal momento che sono implicati altri sistemi neurali e, inoltre, la lesione nelle aree della loro localizzazione non ha come conseguenza l’incapacità di riconoscere e comprendere le azioni degli altri, come accade nei pazienti con lesioni fronto-parietali.
Secondo Bloom una delle chiavi per capire il successo popolare dei neuroni specchio è proprio nel loro essere accostati al concetto di empatia, e quindi a una comunicazione e informazione emotiva e non razionale. (Più in generale, per Bloom, il ricorso alla forza dell’empatia anziché alla razionalità, nelle nostre decisioni e azioni morali, può essere dannosa. Provare empatia è insufficiente a renderci migliori dal punto di vista morale, scrive: nel soffrire con l’altro possiamo scegliere di non agire se non per allontanarci e distogliere lo sguardo riducendo così soltanto la nostra sofferenza. Inoltre, l’empatia è condizionata dalle nostre esperienze, dalle nostre idee e dai nostri pregiudizi e tende a rivolgersi a singoli individui più che a gruppi di individui che siano a noi affini per idee, valori, cultura, colore della pelle).
Comunque sia, localizzare l’empatia nei neuroni specchio è senz’altro suggestivo per la narrazione divulgativa perché si individuano in singole cellule le basi di una rappresentazione complessa della realtà. Proprio la semplicità di questa spiegazione ha contribuito alla popolarità della scoperta, dal momento che nel discorso pubblico non è più richiesta una definizione precisa di quella rappresentazione: si può parlare di empatia, di comportamento sociale, di creatività, di coaching, e così via. Inoltre, è possibile continuare ad arricchire il piano della rappresentazione, senza che abbia più rilievo l’effettiva dimostrazione sperimentale a livello neurofisiologico di un’attività dei neuroni specchio correlata.
Questa coesistenza della complessità dei più svariati stati psicologici con l’irrilevanza della prova dell’implicazione dei neuroni specchio viene accettata, per quanto avventatamente, nella comunicazione popolare ma non sarebbe ammessa in un contesto scientifico internazionale.
Sensazionalismi e suggestioni
Spiegare i fenomeni psicologici ricorrendo ai neuroni specchio è un azzardo, specialmente se si tratta di cognizione sociale e empatia. La mancanza di chiarezza e precisione sulla definizione stessa di empatia ha portato molti ricercatori a usare strumenti di misura insufficientemente validi. Un esempio sono le tante ricerche che hanno sostenuto che le persone con autismo non provino empatia. “Il mito di un deficit di empatia nell’autismo è ora così ben radicato, che per una persona con autismo che partecipa a una ricerca, riferire che non manca di empatia significa o mettere in discussione le opinioni della grande maggioranza di clinici e scienziati, o addirittura negare la propria diagnosi. Pertanto, può riportare un deficit di empatia anche quando prova spesso sentimenti empatici”. Lo scrivono Sue Fletcher-Watson e Geoffrey Bird nell’articolo Autism and empathy: What are the real links? pubblicato a novembre 2019 sulla rivista Autism. I due ricercatori britannici aggiungono che “se non separiamo i sentimenti di empatia dagli altri fattori sociali e cognitivi, sottostimeremo l’empatia nelle persone autistiche, senza riuscire a sviluppare e testare una teoria sistematica dell’empatia”.
Tornando ai nostri protagonisti, non solo non ci sono prove scientifiche che un danno ai neuroni specchio sia la causa dell’autismo, come sostenuto da alcuni ricercatori, ma tali ipotesi sono state ampiamente smentite da ricerche più rigorose. Un analogo discorso va fatto per l’attribuzione dell’emiplegia e di altri esiti dell’ictus nei bambini e negli adulti a un danno ai neuroni specchio. In ambito clinico le smentite sono essenziali perché eticamente non possono essere proposti percorsi riabilitativi privi di evidenze scientifiche in alternativa a interventi riabilitativi codificati e validati.
Non ci sono prove scientifiche che un danno ai neuroni specchio sia la causa dell’autismo, come sostenuto da alcuni; tali ipotesi sono state anzi ampiamente smentite da ricerche rigorose.
Fare chiarezza su quali sono le basi scientifiche effettive di questa fondamentale scoperta e su quali invece sono le suggestioni narrative evocate è importante per una comunicazione scientifica responsabile, per allenare il pensiero critico e per indirizzare con saggezza l’assegnazione di fondi pubblici.
Perché, per esempio, è anche recentemente capitato, nel 2017, che la prima edizione del Premio Internazionale “Lombardia è Ricerca” da un milione di euro sia stata assegnata proprio a Giacomo Rizzolatti con la seguente motivazione: “per la scoperta dei neuroni specchio e della funzione a specchio del nostro sistema nervoso centrale. […] La funzione a specchio costituisce la base neurologica dell’empatia e della capacità di comunicare a livello profondo fra esseri umani”. Tralasciando l’imprecisione della dicitura “a specchio” nel documento ufficiale di una commissione scientifica, è sorprendente come la motivazione si basi su credenze e suggestioni più che sulle solide evidenze derivanti dai dati empirici replicati.
Inoltre, come è ormai comune conclusione di molti articoli di neuroscienze e di psicologia, si fa riferimento a un ipotetico impatto clinico dei risultati presentati senza che ve ne siano né i presupposti né le condizioni per verificarlo. In altri termini, allo scopo di rendere la propria ricerca finanziabile, si attribuisce ad ogni fenomeno osservato in uno studio scientifico il potere di curare le più complesse condizioni neurologiche e neuropsichiatriche. A questo potere curativo non sfuggono i neuroni specchio, se la stessa commissione concludeva: “La scoperta di questi circuiti neurologici ha aperto e aprirà sempre di più la strada alla cura delle patologie del comportamento, come le malattie dello spettro autistico”. Come sappiamo, invece, le implicazioni del sistema dei neuroni specchio nell’autismo non solo non sono state dimostrate ma sono state screditate e non è affatto dimostrato che tale sistema sia alla base dell’empatia o di un qualche processo empatico. “Ora che il clamore sui neuroni specchio ha iniziato a dissolversi, sarà interessante vedere che ruolo avranno queste curiose cellule” ha scritto nel 2016 JohnMark Taylor nel post Mirror Neurons After a Quarter Century: New light, new cracks.
Per Gregory Hickok, autore del libro Il mito dei neuroni specchio, pubblicato nel 2014, è tempo di rinunciare all’ipotesi dei neuroni specchio come sistema di comprensione dell’azione, e abbandonare le esagerazioni nella loro divulgazione. Dello stesso anno è anche l’articolo di Cook, Bird, Catmur, Press e Heyes, Mirror Neurons: from Origin to Function, che metteva in discussione il ruolo specifico attribuito ai neuroni specchio nei processi socio-cognitivi e la loro stessa presenza negli esseri umani e richiamava – scatenando un’accesa disputa con il gruppo di Parma – a un approccio di ricerca più rigoroso, dalla formulazione delle ipotesi alla sperimentazione. Non è un caso che dal 2014 in poi le pubblicazioni sui neuroni specchio abbiano evidenziato un declino.
È tempo di rinunciare all’ipotesi dei neuroni specchio come unico sistema di comprensione dell’azione, e abbandonare le esagerazioni nella loro divulgazione.
Secondo i critici, la tendenza ad attribuire ai neuroni specchio ogni fenomeno psicologico e l’atteggiamento talvolta fideistico di parte della comunità scientifica sull’argomento sarebbero costati il Nobel a Rizzolatti per la scoperta dimostrata nei primati non umani. Quel che è certo è che continuando ad attribuire i più diversi stati psicologici ai neuroni specchio, si è generato qualcosa di simile alla volgarizzazione di un marchio aziendale che, quando diventa parte del gergo comune per denominare genericamente dei processi, riduce il suo legame originario con i significati specifici e in questo caso con le evidenze scientifiche. Si è anche aperto un nuovo settore di mercato con lo slogan dei neuroni specchio e le cui promozioni – dal coaching all’architettura, dai corsi di empatia alle mostre d’arte, dalla riabilitazione al calcio – sono garantite anche da scienziati di rilievo.
Come per la felicità, le offerte proposte per accrescere l’empatia si basano sul presupposto che ne difettiamo e non andiamo bene individualmente, e questo – ci dicono – potrebbe dipendere da qualche neurone che non funziona bene. Intendiamoci, è sempre possibile che qualche neurone non ci funzioni ma la storia è più complessa di quelle raccontate sui neuroni specchio.
Il fatto è che si tende ad attribuire la disumanizzazione di una società al singolo individuo e allo stesso tempo se ne stigmatizza lo stato psicologico, che però può essere riparato con la vasta offerta di prodotti in saldo. La potenza della narrazione fa il resto, essendo uno tra gli elementi fondamentali che rendono la persuasione efficace, anche nelle decisioni dei comitati scientifici di enti finanziatori.
Da solisti a elementi dell’orchestra
I neuroni specchio contribuiscono a sistemi funzionali complessi, anziché dominarli o agire in solitaria. Il loro contributo si realizza al livello percettivo più basso, ad esempio nella discriminazione di un movimento del corpo, anziché nella lettura delle intenzioni di chi esegue quel movimento. Inoltre si tratta di processi che non restano immutabili dalla nascita, ma acquisiscono e modificano le proprietà specchio attraverso l’apprendimento senso-motorio.
Sono queste le conclusioni della revisione di tutti gli studi scientifici pubblicati sui neuroni specchio negli ultimi dieci anni. Cecilia Heyes e Caroline Catmur (tra le autrici anche dell’articolo del 2014 già citato) in What happened to mirror neurons – articolo in corso di revisione per la pubblicazione – elencano lo stato delle evidenze rispetto ai vari processi attribuiti ai neuroni specchio. Per quanto riguarda la comprensione delle azioni altrui, i diversi studi condotti con la risonanza magnetica funzionale, con la stimolazione cerebrale e sui pazienti con lesioni nelle aree interessate portano alla conclusione che i neuroni specchio siano implicati nell’elaborazione di basso livello delle azioni osservate, come la discriminazione e il riconoscimento del movimento e del tipo di presa di un oggetto, mentre non è dimostrato un loro coinvolgimento nei processi di alto livello come l’inferenza delle intenzioni di chi esegue le azioni osservate. Non ci sono prove di un ruolo dei neuroni specchio nel linguaggio parlato ma è dimostrato un coinvolgimento del sistema motorio, incluse le aree premotorie dei neuroni specchio e la corteccia motoria, nella discriminazione del linguaggio in condizioni percettivamente rumorose.
Solo quando i neuroni specchio vengono studiati nel contesto di un sistema funzionale sono in grado di contribuire a spiegare processi complessi come la categorizzazione dei movimenti del corpo.
In riferimento all’imitazione, ci sono prove evidenti di una maggiore risposta delle aree dei neuroni specchio durante la riproduzione di movimenti osservati. Infine, per l’autismo, la complessità degli studi ha tentato ma fallito di dimostrare che possa essere rintracciata una disfunzione dei neuroni specchio nelle sue manifestazioni comportamentali. Per le due autrici, solo se sono studiati nel contesto di un sistema funzionale, i neuroni specchio possono contribuire a spiegare processi complessi come la categorizzazione dei movimenti del corpo, alcuni aspetti della percezione del linguaggio e le basi neurologiche dell’imitazione.
Sarà dunque quando potremo assistere – leggendo un articolo scientifico o il suo commento sui media – alle esecuzioni di tutta l’orchestra e non alle recite dei solisti che potremo saperne di più sul ruolo effettivo dei neuroni specchio. Senza distorsioni o esagerazioni, senza continuare a presentarli come i responsabili dei nostri comportamenti, del nostro essere prosociali, empatici e altruisti.