D a qualche mese è uscito il libro in cui racconto del mio tentato suicidio, un volo di quattro piani dovuto a una depressione post partum a sua volta causata da un disturbo bipolare che non mi era stato diagnosticato prima. Mi sembra sia trascorso molto più tempo, forse per via delle tante reazioni dalla pubblicazione ad oggi. È come se avessi scoperchiato un enorme vaso di Pandora: molti familiari di suicidi o aspiranti tali vengono alle presentazioni, decine e decine di pazienti psichiatrici mi chiedono sui social che farmaci prendo, come mai non mi hanno fatta ingrassare, e se credo che guariranno. In genere, oltre a rimandarli al proprio medico, rispondo che esiste senz’altro una cura in grado di farli convivere dignitosamente col proprio disturbo psichiatrico.
Ne sono sempre più convinta, e tuttavia mi ritrovo spesso a parlare con intellettuali, scrittori, addirittura medici, che non riescono a evitare di citare l’antipsichiatria. Minimizzano il problema, come se fosse un vezzo attribuibile a una mancanza di volontà, considerano gli psicofarmaci al pari di droghe, e utilizzano un linguaggio che non posso non reputare inappropriato. L’altro giorno, un amico con molti dubbi sulla psicofarmacologia era in una biblioteca a consultare lo psichiatra americano Allen Frances per il suo prossimo libro. Gli ho consigliato di non assumere posizioni estreme, dal momento che Frances, noto per aver redatto con la sua équipe di esperti la quarta versione del DSM, ovvero la “Bibbia di classificazione della patologia psichiatrica”, è tuttavia diventato in seguito uno dei principali detrattori della versione successiva del manuale, raccogliendo in un testo dal titolo eloquente (Primo, non curare chi è normale: contro l’invenzione delle malattie) le sue perplessità. L’imperativo del titolo sembra sostituirsi al giuramento di Ippocrate, il principio-guida Per prima cosa, non nuocere, applicabile ad ogni branca della medicina e con cui ogni medico assicura che, nell’esercitare la professione, privilegerà nella scelta terapeutica quella con meno controindicazioni per il paziente. In sintesi, Allan Frances definisce la sua come “la ribellione di uno psichiatra all’eccesso di diagnosi e alla conseguente medicalizzazione della normalità”. Già, ma cosa sarebbe quest’ultima?
Naturalmente la mia esperienza e la mia storia clinica influenzano la posizione che ho in merito. Quando circa quarant’anni fa andavo a scuola, in Italia non esistevano ancora diagnosi di disturbo dell’attenzione e gli insegnanti intervenivano solo nei casi più eclatanti, quelli in cui il disturbo o il deficit dell’alunno compromettevano del tutto la socialità o l’adeguarsi al programma didattico. Oggi sappiamo che esistono pressoché infinite declinazioni di BES (sigla che sta per Bisogni Educativi Speciali) e conseguenti piani didattici personalizzati, secondo una visione che amplia lo sguardo verso le esigenze formative di ogni individuo. L’enorme fetta di bambini con vari disturbi dello spettro autistico, o ancora affetti da iperattività, dislessia, disgrafia, discalculia e chi più ne ha più ne metta, rientrava prima nella cosiddetta “normalità”, a fronte di enormi sforzi e infinita frustrazione. Quando ci preoccupiamo delle troppe diagnosi in bambini in età scolare e del conseguente utilizzo di farmaci che ne contengano l’agitazione o li aiutino a concentrarsi ci stiamo davvero mettendo nei loro panni? O parliamo per principi generali, solo perché vogliamo “salvaguardare” una diversità psichica che senza qualche ausilio risulta molto faticosa per chi di questa diversità è portatore?
Trovo ci sia un grande bisogno di letteratura che racconti queste condizioni dal di dentro, attraverso memoir e opere autobiografiche di chi ne è portatore o le vive da vicino.
Affinché la neurodiversità non sia più relegata ai margini, dobbiamo imparare a rapportarci a essa e dobbiamo cominciare a raccontarla, soprattutto considerando che la patologia psichiatrica fatica ancora ad essere riconosciuta e accettata, mentre i disturbi dello spettro autistico, fino ad alcuni anni fa, ci erano del tutto sconosciuti. Trovo ci sia un grande bisogno di quella letteratura che racconta queste condizioni dal di dentro, attraverso memoir e opere autobiografiche di chi ne è portatore o le vive da vicino. A questo proposito, mi ha colpita profondamente il bellissimo film di Gabriele Salvatores Tutto il mio folle amore, tratto dal romanzo di Fulvio Evras sul rapporto di un padre col figlio autistico, e mi sono ritrovata nell’esperienza di Elisabetta Romersi, che solo da adulta ha scoperto di essere un’aspie – ovvero affetta dalla sindrome di Asperger, grazie alla diagnosi fatta a suo figlio di otto anni, quando afferma di conoscere “la tragedia di un’infanzia senza aiuto”.
Se grazie alle continue scoperte neurofisiologiche la nostra mente non rappresenta più una scatola nera, la neurodiversità può imporsi alla nostra attenzione attraverso narrazioni efficaci che la mettano al centro, raccontandola per come si manifesta, e che aprano un varco alla comprensione e alla conoscenza. Non è la prima volta che questo accade: nel suo saggio Proust era un neuroscienziato Jonah Lehrer arriva addirittura a sostenere che autori come lo stesso Proust o Virginia Woolf si siano addentrati nel funzionamento psichico anticipando molti temi delle neuroscienze. In particolare, il saggista americano evidenzia attraverso studi scientifici come Proust abbia penetrato i misteri della memoria immergendosi nei suoi ricordi e mettendoli in relazione con il gusto e l’olfatto. Solo successivamente si è scoperto che questi due sensi, di fatto collegati all’ippocampo, svolgono un ruolo importante sia nella formazione dei ricordi che nella loro evocazione.
In molti, a mio avviso anche in troppi, mi dicono che sono stata coraggiosa a pubblicare un libro del genere, quando uno dei motivi per i quali ho deciso di raccontare la mia esperienza era proprio un tentativo di “normalizzare” quest’ultima, restituendole dignità discorsiva. Mi sono limitata a trasporre in forma letteraria quello che mi è successo, azzardando ipotesi e procedendo a ritroso, raccontando il modo in cui la mia testa condiziona la mia vita e la mia quotidianità.
Da una parte ci siamo noi, i neuro-diversi, pazienti affetti da disturbi neurologici o psichiatrici di vario tipo, dall’altra i normotipici: l’opinione pubblica che stenta a comprendere e il mondo accademico/scientifico (talvolta neppure questo ci è alleato). Forse allora non dovremmo preoccuparci tanto di medicalizzare la normalità quanto di normalizzare la patologia, facendola uscire dalla zona d’ombra. Bisogna raccontarla, ma prima ancora bisogna accettare che possa manifestarsi in forme più o meno eclatanti, da contenere e curare con gli strumenti che la scienza ci mette a disposizione.
Un’anticipazione dal nostro incontro “Raccontare la mente”, con Paolo Pecere e Fuani Marino: il 21 febbraio, alle 18, a Roma, in Piazza della Enciclopedia Italiana 4, per riflettere sul rapporto tra l’attività cerebrale e l’identità di un individuo nella letteratura e nella saggistica degli ultimi anni.
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