U na donna, seduta, batte energicamente un sasso contro l’altro facendo saltare via alcune schegge di pietra. Sta cercando di ottenere un bordo affilato, simile a un coltello. Nelle settimane precedenti si è esercitata diligentemente e ora riesce a produrre un’ascia olduvaiana abbastanza efficiente. I coltelli in pietra Oldowan – così chiamati perché ritrovati la prima volta nella Gorgia di Olduvai in Tanzania – risalgono a un periodo che si estende fra 2,5 milioni e 250.000 anni fa. La donna di cui parliamo, però, è una nostra contemporanea: è seduta in un laboratorio dell’Università dell’Indiana e indossa una cuffia da cui spuntano decine di fili elettrici collegati a un macchinario.
Sta partecipando a uno studio che mette alla prova alcune teorie sull’evoluzione della cognizione umana moderna. Questo, nello specifico, è un esperimento che punta a capire se le strutture neurali che guidano la costruzione delle asce di pietra si sovrappongono almeno in parte a quelle del linguaggio (nel nostro cervello di Homo sapiens contemporaneo e presumibilmente anche in quello dei nostri antenati paleolitici). Secondo l’ipotesi al momento più in voga fra gli studiosi del campo, infatti, i processi cognitivi richiesti per la lavorazione degli utensili in pietra sarebbero stati poi nel corso della nostra storia evolutiva utilizzati anche per il linguaggio.
A differenza di altri lavori simili, l’ultimo studio di Shelby Putt non ha rilevato alcuna sovrapposizione di questo tipo nel nostro cervello. La ricerca (pubblicata su Nature Human Behaviour) si inserisce però in un neonato e promettente settore chiamato neuroarcheologia. Il suo “scopo specifico”, spiega la stessa Putt a il Tascabile, “è quello di esplorare l’evoluzione del sistema cognitivo al fine di comprendere meglio la condizione umana”. Secondo i suoi sostenitori potrebbe aiutare ad affrontare problemi che neuroscienze e archeologia separatamente non sono riuscite a risolvere, e “aiutarci a dirimere alcune grandi questioni: cosa ci rende umani, come e perché abbiamo sviluppato un sistema cognitivo che ci permette di parlare, costruire e manipolare strumenti…”.
La neuroarcheologia, al momento accolta favorevolmente dagli archeologi (specialmente nell’ambito dell’archeologia sperimentale), è ancora poco considerata dai neuroscienziati, ed è ancora troppo presto, in generale, per dire se siamo di fronte alla nascita di un nuovo e influente filone di ricerca o se si tratti di un nuova voce nella lista delle tante “neuro-qualcosa” apparse in questi ultimi decenni e rimaste poi sullo sfondo. Le promesse, però, sono molto interessanti.
Unendo i metodi e le teorie delle neuroscienze a quelli dell’archeologia, ci sono buone possibilità di capire come e perché siamo diventati Homo sapiens.
In base ai reperti sappiamo che Homo sapiens è apparso, secondo le ultime ricerche, 300.000 anni fa. Gli aspetti comportamentali del nostro stato di “menti sapienti” sono emersi un bel po’ dopo, in particolar modo con l’esplosione culturale dell’alto paleolitico. Perché tutto questo tempo? Stabilire “quando” e “dove” siamo diventati umani, per quanto affascinante e importante, non basta per comprendere la nostra natura. Serve sapere anche, e soprattutto, “come” e “perché”. Unendo i metodi e le teorie delle neuroscienze a quelli dell’archeologia, credono in molti, abbiamo buone possibilità di arrivarci.
Storia antica per una scienza nuova
Non sono passati nemmeno dieci anni da quando, per la prima volta, si è sentita l’esigenza di far confluire archeologia e neuroscienze in una disciplina ibrida. L’occasione è stata il simposio, dal titolo “The sapient mind: archaeology meets neuroscience”, tenutosi all’Università di Cambridge, che ha riunito i ricercatori che fino a quel momento si erano mossi in maniera più o meno implicita al confine fra le due discipline. Un “atto di fondazione” da cui sono emersi subito alcuni personaggi chiave, tra cui gli organizzatori della conferenza, Colin Renfrew, archeologo, paleolinguista ed esperto di datazione al radiocarbonio dell’Università di Cambridge, e Lambros Malafouris, neuroscienziato con grande interesse per l’archeologia dell’Università di Oxford. Renfrew e Malafouris sono stati anche i curatori di un numero speciale della rivista Philosophical Transactions B (edita dalla Royal Society Publishing), che di quell’incontro ha raccolto i contributi più significativi, gettando le basi per gli sviluppi futuri di queste ricerche.
“Sotto molti punti di vista, la neuroarcheologia”, spiega a Il Tascabile Dietrich Stout, un’altra figura di spicco nel settore, “è semplicemente l’ultima incarnazione della tradizione inaugurata dall’archeologia cognitiva”. Stout, professore di antropologia dell’Università Emory, negli Stati Uniti, ha condotto numerose ricerche sulla costruzione degli strumenti in pietra ed è autore, insieme a Erin Hecht (che di Stout è stata studente di dottorato e ora lavora alla Georgia State University), di uno dei pochi capitoli dedicati alla neuroarcheologia inseriti in un testo per corsi universitari: “Human Paleoneurology”, edito da Springer.
Sotto molti punti di vista, la neuroarcheologia è l’ultima incarnazione dell’archeologia cognitiva, che si propone di desumere gli schemi mentali a partire dagli studi archeologici.
Come spiega Stout, l’archeologia cognitiva, nata intorno agli anni Sessanta e Settanta, si propone di desumere le capacità mentali e gli schemi di pensiero a partire dagli studi archeologici usando le teorie e i metodi delle scienze cognitive. La neuroarcheologia, in modo simile, introduce ulteriore rigore sperimentale, nuovi metodi di indagine high-tech e maggiore attenzione al substrato biologico (il cervello) oltre che alle funzioni cognitive (la mente).
Nelle profondità del tempo
La prospettiva evolutiva è oggi un elemento fondamentale in qualsiasi scienza biologica. Nella ricerca sul cervello esiste una lunga tradizione di studi comparativi che, confrontando cervello e cognizione umana con quelli di altre specie, hanno contribuito enormemente a ricostruire alcune tappe dell’evoluzione del nostro sistema cognitivo. Rimangono però molte lacune: “si può certo individuare l’ultimo antenato comune privo di una certa struttura cerebrale o funzione cognitiva, come gli scimpanzé che non possiedono le specializzazioni cerebrali umane per il linguaggio, l’uso degli strumenti e la cognizione sociale,” spiega Stout, “ma questo non risponde alla domanda su come e quando nei successivi 7-8 milioni di anni queste specializzazioni siano emerse”.
La neuroarcheologia potrebbe colmare questi vuoti, grazie al supporto dei metodi e delle teorie archeologiche: “L’archeologia può infatti documentare la cronologia, la geografia e il contesto in cui emergono nuovi comportamenti nella nostra specie – e in quelle antenate”, precisa Stout.
Per chiarire i passaggi, è utile un esempio concreto. La lateralizzazione cerebrale è una caratteristica importante del nostro cervello: le funzioni cognitive sono distribuite in maniera asimmetrica, con le aree del linguaggio poste principalmente nell’emisfero sinistro. La predominanza dell’uso della mano destra è un indizio visibile di questa lateralizzazione. Possiamo allora chiederci se siamo stati sempre destrimani o se questa specializzazione è emersa a un certo punto nel corso della nostra storia evolutiva. Per rispondere a questa domanda è possibile osservare i reperti archeologici. Secondo uno studio di Nicholas Toth, del 1985, la forma delle asce preistoriche risalenti a 1,5 milioni di anni fa dimostra una leggera preferenza nell’uso della mano destra (circa il 56%), mentre l’analisi di record più recenti, le pitture rupestri risalenti a circa 30.000 anni fa ritrovate in Francia e Spagna, mostrano che circa il 75% degli individui che le hanno disegnate usava la mano destra. Queste e altre osservazioni supportano l’idea che la preferenza per la mano destra si è evoluta nel corso della storia umana, suggerendo la possibilità di una lateralizzazione cerebrale progressiva, con conseguenze forse sullo sviluppo del linguaggio.
Gli strumenti dell’archeologia, intrecciati a quelli delle neuroscienze, permettono di formulare ipotesi sui comportamenti legati agli oggetti e raccontano una storia che altrimenti non sarebbe stato possibile ricostruire.
Gli strumenti dell’archeologia, che grazie alla replicazione sperimentale e all’analogia etnografica permettono ai ricercatori di formulare ipotesi sui comportamenti che gli oggetti implicano (l’uso della mano destra o sinistra), si intrecciano con quelli delle neuroscienze (le conoscenze sulla lateralizzazione cerebrale) e ci permettono di raccontare una storia che con altri metodi non sarebbe possibile ricostruire.
L’oggetto è tutto
L’archeologia ha sviluppato metodi precisi e codificati per dedurre i comportamenti umani dallo studio degli oggetti. Questo “focus” sull’oggetto potrebbe essere la carta che la neuroarcheologia può giocarsi per guadagnare una posizione di rilievo all’interno delle neuroscienze. Per capire questo passaggio è forse utile un breve ripasso nella storia recente degli studi scientifici su mente e cervello.
Nella seconda metà del secolo scorso dominava l’approccio cognitivista: la mente è un sistema di elaborazione di simboli astratti. Le informazioni raccolte dai sistemi sensoriali, che mantengono una forma di analogia con il mondo materiale, vengono codificate ed elaborate in forma simbolica, astratta, del tutto slegata dalla natura materiale dell’input. Pensiero e mondo esterno sono perciò cose del tutto diverse.
In reazione a questo approccio negli ultimi decenni, a partire diciamo dagli anni Novanta, ha preso piede un nuovo paradigma, solitamente identificato con il termine di embodied cognition, cognizione incorporata (ma si parla anche di grounded cognition, di extended mind, ecc.) che dà grande risalto all’aspetto “materiale” della cognizione umana. Secondo questo approccio, la mente anche a livello di codifica ed elaborazione mantiene un’analogia con la stimolazione sensoriale (o l’output motorio). Secondo le teorie incorporate per esempio, quando dobbiamo comprendere la parola che indica un colore nel nostro cervello si attivano anche le aree percettive che elaborano il colore.
Le neuroscienze più recenti vedono nel mondo materiale un elemento fondante delle funzioni cognitive, al punto che gli oggetti creati dall’uomo sarebbero allo stesso tempo prodotti ed estensioni del sistema cognitivo.
Appare dunque chiara l’importanza degli oggetti nelle neuroscienze più recenti, che vedono nel mondo materiale un elemento fondante delle funzioni cognitive. Secondo le versioni più “spinte” di questi approcci, gli oggetti creati dall’uomo sarebbero allo stesso tempo prodotti ed estensioni del sistema cognitivo. “Come le tavolette micenee”, spiega Stout, utilizzate come documenti contabili, “che diventano, secondo alcuni studiosi, estensioni della memoria di un sistema cognitivo che include lettura e scrittura fra le sue funzioni”.
Alcuni neuroscienziati “di razza” hanno già fatto incursioni “neuroarcheologiche”, come Ramachandran Vilayanur, che nel 2000 ha suggerito che l’esplosione culturale dell’alto paleolitico possa essere spiegata con i neuroni specchio (che avrebbero favorito l’apprendimento per osservazione).
“Il futuro della neuroarcheologia come una semplice nicchia all’interno dell’archeologia o come una scienza a sé stante alla fine dipenderà dalla sua rilevanza rispetto ai problemi e alle agende scientifiche dei neuroscienziati”, spiega Stout. Che aggiunge scherzando: “Se lo chiedete a me naturalmente vi dirò che non ci sarà mai abbastanza attenzione. Ma, seriamente, devo dire che mi fa molto piacere vedere come la curiosità stia aumentando e, soprattutto, che ci sia sempre maggiore interesse da parte della comunità scientifica a collaborare con noi neuroarcheologi”.