D ai tempi della loro scoperta nella seconda metà del Settecento, sulle isole dell’arcipelago di Kerguelen aleggia un alone di mistero che dona a queste terre un’aura quasi mitica. Trovandosi a più di 3300 chilometri a sud del Madagascar, nell’Oceano Indiano meridionale, Kerguelen è uno dei luoghi più remoti al mondo. L’isola principale, Grande Terre, ha delle dimensioni comparabili a quelle della Corsica ed è contornata da una costellazione di isole più piccole, alcune larghe qualche chilometro, altre poco più grandi di uno scoglio. Sulla mappa Kerguelen ha la forma di una macchia, come se una tazza di vernice fosse stata gettata su una tela.
Su quest’ isola verità e finzione si confondono fin dal principio. Quando il bretone Yves Joseph de Kerguelen de Tremarec, partito dalla Francia nella seconda metà del Settecento alla ricerca della mitica Terra Australis Incognita, si imbatte nelle isole che in futuro porteranno il suo nome, forse spaventato dal loro aspetto arcigno e inospitale, decide di non scendere a terra. È il 1772 quando, tornato in patria, il navigatore francese racconta dell’esistenza di una terra ricca di risorse, boschi e suoli fertili, che battezzerà Francia Australe, venendo inizialmente celebrato come un moderno Cristoforo Colombo.
Pochi anni più tardi, sarà l’inglese James Cook a mettere piede per primo sull’isola. Partito alla volta degli oceani del sud per conto della Royal Society di Londra, raggiunge Kerguelen nel 1776. Dapprima la circumnaviga, per provare il fatto che si tratti proprio di un’isola, poi ne attesta i suoli sterili e le condizioni ostili, per nulla corrispondenti alla generosa Terra Australis Incognita descritta dal suo predecessore. Cook battezza quindi il luogo come “Isola della Desolazione”, e ancora oggi queste due spedizioni segnano la toponomastica dell’isola verso cui sono diretto e su cui soggiornerò per il prossimo mese assieme al fotografo Roberto Mondin e al film-maker Davide Marconcini.
Da poppa della nave da ricerca e logistica Marion Dufresne II guardo allontanarsi la costa dell’isola francese della Reunion, con i suoi picchi vulcanici, le sue calde e variopinte foreste tropicali e le sue frastagliate barriere coralline. La nave scivola pigramente sull’acqua e dei marinai in tuta arancione si gridano qualcosa in malgascio prima di scomparire in sala macchine. Il cielo azzurro è attraversato dalle sagome bianche di una coppia di fetonti codabianca (Phaeton lepturus), che con le loro lunghe code sembrano aquiloni soffiati dal vento. Intanto, sul ponte della nave l’atmosfera è festosa: ragazzi e ragazze poco più che ventenni si salutano, ridono e si abbracciano. Hanno un contratto di servizio civile in Francia e trascorreranno insieme l’hivernage, una residenza di quattordici mesi in isolamento su una delle tre isole remote delle Terre Australi Antartiche Francesi (TAAF): Crozet, Kerguelen o Amsterdam.
Le TAAF sono amministrate da un prefetto, di base alla Reunion. Dal 2019 grazie alla ricchezza di specie endemiche, in particolare di uccelli marini che abitano questi ecosistemi fragili, i territori amministrati dalle TAAF sono stati riconosciuti come patrimonio dell’UNESCO e rappresentano di fatto la riserva naturale più grande di Francia. I ragazzi alla prima esperienza di servizio civile ascoltano attenti i racconti dei più esperti, chi ha già avuto la possibilità di trascorrere su queste terre un periodo di tempo e si trova ora alla seconda o terza missione. Si sono candidati per due, tre e a volte quattro anni di fila prima di essere selezionati, e hanno dovuto superare una serie di esami medici e psicologici quasi infinita, mi racconta Nicola, uno dei ragazzi. Per molti sbarcare a Kerguelen è un sogno che diventa realtà.
I giorni si susseguono e si confondono in mare, in una routine fatta di pasti, organizzazione della spedizione e lunghe conversazioni che spaziano dai progetti di ricerca alle esperienze di vita personali. La composizione della nave è eterogenea, essendo costituita da ricercatori, personale delle TAAF, ragazzi in servizio civile e militari. E poi falegnami, fabbri, meccanici, un pilota di elicottero e altre figure lavorative fondamentali per rendere abitabile una stazione così isolata. Perché fino al successivo arrivo della Marion Dufresne II possono trascorrere cinque mesi, e le basi di ricerca funzionano come un sistema chiuso e autonomo. Gli unici scambi avvengono quando qualche peschereccio su rotte antartiche approda alla base per barattare del pesce con del pane o, a volte, con delle torte. Nulla di più.
Sull’isola di Kerguelen verità e finzione si confondono fin dal principio.
Uno schermo nella sala di ricerca della nave segnala la posizione e la temperatura dell’acqua. Discendiamo verso sud con una velocità costante di 15 nodi. Il mare, fino ad ora calmo, inizia ad animarsi una volta entrati i 40 gradi sud di latitudine, noti come i “40 ruggenti”. La quiete sulla nave è interrotta di tanto in tanto dalla voce al megafono del primo ufficiale di bordo che informa i passeggeri della presenza di una balena australe o di una megattera, segnalata da un soffio lontano. In quei momenti, l’atmosfera altrimenti sonnacchiosa a bordo della nave si anima all’improvviso e i suoi ottanta passeggeri si materializzano sul ponte a scandagliare l’orizzonte con binocoli e macchine fotografiche. A poppa, di giorno, la nave è seguita da albatri urlatori (Phaeton lepturus), albatri fuligginosi (Phoebetria fusca) e albatri dal sopracciglio scuro (Thalassarche melanophris) che, senza battere le ali, planano tra le onde come piccoli alianti alla ricerca di calamari e seppie. Di notte, invece, la scia spumosa della nave si illumina con un gioco di luci nell’acqua scura: è il plancton bioluminescente, mi spiega Narissa Bax, una ricercatrice neozelandese, specializzata nello studio degli ecosistemi marini antartici.
Dopo circa una settimana di navigazione arriviamo alle Crozet, due isole basaltiche e scure: l’Isola dell’Est e l’Isola della Possessione. La prima è riserva integrale e dal 1985 nessuno ci mette più piede, sull’altra esiste una stazione scientifica che ospita circa 40 ricercatori durante l’estate e 25 durante l’inverno. A poche miglia nautiche di distanza si trova la più piccola Île aux Cochons, anche quella riserva integrale, che ospita una delle colonie di pinguini reali (Aptenodytes patagonicus) più grandi al mondo: circa 500.000 coppie. Tuttavia, con l’ultimo censimento aereo del 2017 il numero di coppie è crollato a 60.000, mi spiega Antoine, biologo che da anni studia l’effetto dell’aumento delle temperature terrestri sulle strategie alimentari e sull’ecologia dei pinguini reali. “Il problema è che non abbiamo idea di cosa sia successo”, mi dice. “Poiché ai ricercatori non è permesso l’accesso sull’isola, la popolazione di pinguini non è stata monitorata. Non sappiamo se è stata una riduzione di popolazione progressiva o un crollo improvviso”. La riflessione sulla presenza umana in queste isole remote sarà un tema centrale durante il nostro viaggio nell’Oceano Indiano del Sud.
Paul, biologo che studia la popolazione di orche di Crozet, scruta il mare con il binocolo. Mi indica una megattera (Megaptera novaeanglie): è una madre con il piccolo. Nuotano placidamente a poche centinaia di metri dalla costa. Paul viene a Crozet da diversi anni e ha visto la popolazione di orche diminuire a ogni nuova visita. “Le orche di qui”, mi spiega, “spesso rubano i pesci ai pescherecci, e i pescatori usano fucili per allontanarle o ucciderle. In questo senso, è un bene che la Francia abbia la sovranità su questi territori e che difenda le acque di Crozet dai pescatori illegali. Senza la presenza, anche se solo sporadica, della marina francese a fare da controllo delle acque della riserva, il numero di orche uccise sarebbe più alto. Purtroppo, le orche non conoscono confini e spesso escono in acque internazionali, dove non possono essere protette. Qualche anno fa, un esemplare maschio è sparito dalle acque di Crozet per qualche tempo, e quando è ritornato aveva un foro di proiettile nella pinna dorsale”.
Il giorno prima dell’arrivo a Kerguelen, ci prepariamo alla discesa in sala biosicurezza, ovvero una stanza della nave con tre aspirapolveri e dei lavandini. Ogni passeggero deve aspirare il contenuto delle tasche e delle pieghe del tessuto dei propri indumenti, per evitare che semi, pollini o altro materiale biologico non nativo dell’isola possano introdursi a Kerguelen. Nonostante mi senta come in un film di fantascienza mentre setaccio l’interno delle mie scarpe, ci trovo effettivamente una ricca biodiversità di pollini provenienti dai miei spostamenti precedenti e che viaggiano come passeggeri nascosti tra i miei indumenti.
Durante la mia permanenza a Kerguelen, quella della biosicurezza diventerà una routine, un gesto familiare. Per ogni spedizione, prima di partire, passeremo in sala biosicurezza a strofinare gli stivali e ad aspirare le tasche delle giacche e dei pantaloni per ridurre il rischio di introdurre specie non native che potrebbero diventare invasive, compromettendo i fragili ecosistemi locali. Di fatto, il numero di specie alloctone già presenti a Kerguelen è tre volte quello delle specie native, col rapporto che sale fino a sei volte sull’isola di Amsterdam, dove accanto alle 17 specie vegetali native della riserva crescono oramai 103 specie introdotte.
All’alba del quarto giorno di navigazione da Crozet arriviamo finalmente a Kerguelen. Dalla nebbia emergono sinistramente delle falesie scure a strapiombo sul mare, mentre al di sotto le onde si infrangono spumeggiando contro la roccia basaltica nera. L’isola si manifesta in tutta la sua aura di cupo mistero: qui, non a caso, grandi romanzieri dei secoli passati come Edgar Allan Poe e Jules Vernes hanno ambientato i loro racconti Le avventure di Arthur Gordon Pym (1838) e La Sfinge dei Ghiacci (1897).
La riflessione sulla presenza umana in queste isole remote sarà un tema centrale della nostro viaggio a Kerguelen.
Col pensiero a quei racconti e un vento gelido che mi sferza il volto, mi accodo anch’io alla fila indiana per salire sull’elicottero che ci depositerà a Port aux Francais, unica base di Kerguelen, amministrata dal Disker, l’equivalente locale di un sindaco. Quando l’elicottero si alza dalla nave, vedo Kerguelen dall’alto: montagne innevate e scure fanno capolino tra le nuvole, i picchi arcigni del monte Ross sovrastano la catena montuosa, mentre il sole riflette sui tetti degli edifici in lamiera di Port aux Francais, una trentina in tutto. A terra ci attendono gli abitanti della base, con musica techno ad alto volume e del tè caldo. Alcuni ballano, con il cappuccio in testa. Il Disker, che indossa la fascia tricolore francese, ci dà il benvenuto stringendoci pomposamente la mano.
Quel pomeriggio assistiamo alla cerimonia dell’alzabandiera. Il disker arriva marciando sulle note della marsigliese, si ferma di fronte a un drappello di militari in uniforme ed esegue un saluto di rito. Alle loro spalle, gli elefanti marini di Kerguelen ruttano e strillano, mentre un gabbiano osserva la cerimonia dal centro della strada. A un cenno del Disker, due militari innalzano la bandiera francese, che sospinta dal forte vento di Kerguelen svolazza rumorosamente. In un contesto del genere, il tutto assume un aspetto comico e quasi grottesco. Alcuni dei ragazzi appena arrivati sorridono, altri alzano gli occhi al cielo, altri ancora si portano la mano al petto, emozionati.
Come sarà sempre più chiaro nel mese e mezzo successivo, al di là della difesa della natura e degli ecosistemi selvaggi subantartici, a Kerguelen la Francia ha interessi geopolitici non indifferenti. Da Kerguelen può infatti controllare le rotte navali in tutto l’Oceano Indiano meridionale, ed è per questo motivo che, tra elefanti marini e pinguini, risiede permanentemente un piccolo manipolo di militari con l’obiettivo di garantire la sovranità francese sull’isola. “Se così non fosse, Australia e SudAfrica potrebbero reclamarne la sovranità”, mi confida Michael, un militare della marina francese. Michael si è iscritto alla marina per desiderio di viaggi e di avventura, ora è a Kerguelen per un anno e qui si occupa di elettrotecnica. Ma mi confessa che non è sicuro di voler rimanere nella marina, una volta che sarà tornato in Francia. “Dopo aver passato qui un anno, molti militari lasciano l’esercito”, racconta.
Eppure, nonostante l’isolamento, la base sembra offrire tutti i confort necessari per una lunga permanenza: su tutti, molte serate di festa, e per i militari pochissimo lavoro da fare. Per loro, gran parte delle giornate sono occupate a fabbricare vestiti per le feste notturne in maschera che sull’isola sono un appuntamento fisso. “Quella della feste e delle attività ricreative comuni è una pratica estremamente importante”, mi spiega il Disker. “Passare quattordici mesi in isolamento a Kerguelen può essere psicologicamente estenuante. Al di là delle condizioni atmosferiche complesse, durante un lungo isolamento anche le relazioni umane possono essere difficili. Per limitare le tensioni sociali è quindi imperativo che non si formino gruppi o clan, e che persone con incarichi diversi come ricercatori e militari stringano relazioni di fiducia reciproca e di amicizia”.
Nell’edificio centrale della base, sopra la mensa, osservo i volti di chi ha preso parte alle passate missioni su Kerguelen. Alcune foto sono recenti, altre sbiadite, alcune in bianco e nero. I ragazzi con cui viaggiamo rappresenteranno la settantaquattresima missione dalla prima instaurazione della base di ricerca permanente a Port aux Français. In pochi giorni familiarizzo con le strutture della base: esploro la palestra, la mensa, la biblioteca, e visito il presidio medico, il cinema, la chiesa e le officine. E poi ancora, il bar e la sala comune, con i biliardi e i comodi divani. La sera, a volte, quando abbandono il piacevole tepore della sala comune per tornare in camera, il vento è così forte che quasi toglie il respiro.
Una delle prime cose che imparo a Kerguelen è che i giorni senza vento sono rari e preziosi. Col tempo ti abitui a camminare in un fluido a densità diversa, ogni passo costa fatica, eppure a Kerguelen si cammina moltissimo. Non avendo strade, le missioni avvengono rigorosamente a piedi, o a volte in barca, quando la spedizione prevede il pernottamento in una delle piccole isole del golfo di Morbhain, a sud della base. Nonostante il vento, però, camminare a Kerguelen è una delle attività che tutti svolgono con maggior piacere: un po’ per allontanarsi dalla routine della base che alla lunga tende a diventare asfissiante, e un po’ perché il rischio di ipotermia e congelamento su quest’isola è costante, e camminare è una pratica di sopravvivenza.
Al di là della difesa della natura e degli ecosistemi selvaggi sub-antartici, a Kerguelen la Francia ha interessi geopolitici.
Me ne rendo presto conto durante una spedizione di quattro giorni alla colonia di pinguini reali di Ratmanoff, nella penisola Courbet. Sebbene il gruppo sia costituito da camminatori esperti, il vento gelido e la pioggia orizzontale mette tutti a dura prova. Camminiamo per otto ore, trascinandoci tra deserti di pietra, guadando torrenti e attraversando infinite torbiere, dove affondiamo con gli stivali fino alle ginocchia. Inizio a prendere sul serio quello che uno dei ragazzi della missione 73 mi ha spiegato il giorno precedente, a cena: “a Kerguelen cammini di continuo, perché se ti fermi muori assiderato”. Ci arrestiamo soltanto per un pasto veloce, accucciati e fradici, dietro una dolina di un metro, sperando che ci schermi dalla pioggia, ma dopo pochi minuti il freddo intenso prende il sopravvento, e per scaldarci riprendiamo a camminare.
Le fatiche sono ripagate quando arriviamo al bivacco. Accendiamo una stufa, cerchiamo di asciugare gli abiti zuppi e beviamo un tè caldo. Dalla finestra, un gruppo di pinguini reali ci scruta con interesse, mentre una coppia di skua (Stercorarius antarcticus), da qualche parte lontano nella tundra, saluta l’arrivo della notte con un lamento melanconico. Il giorno successivo ci sveglia all’alba il gorgoglio della caffettiera che Axel, uno dei ragazzi, ha messo sul fuoco. Ancora assonnati, dividiamo delle fette di un vecchio pandoro trovato nella dispensa del bivacco. Poi, dopo aver indossato controvoglia gli abiti umidi del giorno precedente, ci dirigiamo alla colonia di pinguini reali, a circa venti minuti dal bivacco. Il frastuono che proviene dalla colonia è assordante e l’odore pungente che riempie le narici dà quasi il capogiro. L’orizzonte costituito da sagome e colori di migliaia di pinguini è interrotto ogni tanto dal corpo di qualche grosso elefante marino che riposa sul bagnasciuga, come una larva smisurata. Alcuni maschi si combattono tra le onde, mentre skua e petrelle giganti (Macronectes giganteus) planano sulla colonia, alla ricerca di qualche pinguino o elefante marino defunto di cui cibarsi.
A poca distanza dalla colonia, ci imbattiamo in un albatro urlatore (Diomedea exulans), l’uccello con l’apertura alare più ampia al mondo. “Vivono a lungo, fino a 65 anni”, mi dice Aurelian, uno dei ragazzi in servizio civile che si occupa di raccogliere dati sulle popolazioni di uccelli di Kerguelen. “Alcuni albatri hanno un anello, e possiamo conoscere la loro età”. L’albatro ci osserva con curiosità, senza timore, e anche noi ci fermiamo a contemplare da vicino questa creatura incredibile: per più di trent’anni l’albatro che ho davanti ha attraversato in lungo e in largo l’Oceano Indiano per tornare a nidificare nello stesso luogo. Un formidabile senso dell’orientamento e una mappa mentale estesa, plasmata da milioni di anni di selezione naturale, ha guidato l’animale qui, dove anch’io mi trovo.
Il pomeriggio, di ritorno al bivacco, scorgiamo un gruppo di renne, mentre un gatto ci taglia velocemente la strada. I conigli selvatici sono invece ovunque, e al nostro passaggio scappano per la tundra a grande velocità. Conigli, renne, gatti, ratti e topi sono specie invasive, portate dall’uomo sull’isola. Ratti e topi furono introdotti involontariamente, passeggeri delle navi cargo. I gatti, importati invece volontariamente nel 1951 per controllare il numero dei roditori, si sono ormai diffusi ovunque, cibandosi delle molte specie di uccelli marini che nidificano sull’isola. Le renne furono introdotte nel 1955, come riserva potenziale di carne per i pochi abitanti dell’isola. Non esiste un censimento preciso della loro popolazione, ma stime indicative di un decennio fa suggeriscono l’esistenza di circa 6.000 renne a Kerguelen. I primi animali a essere introdotti furono però i conigli, nel 1850: in pochi decenni la crescita della loro popolazione si impennò al punto che, a un secolo dall’introduzione, si tentò senza successo di controllarla con diffondendo una malattia fungina del coniglio, la mixomatosi.
A quanto pare non funzionò: oggigiorno i conigli sono dappertutto e intorno alla base quasi si rischia di calpestarli mentre escono da un tombino o si nascondono sotto un cumulo di legna. Poiché si nutrono con grande voracità della vegetazione nativa, hanno contribuito a desertificare alcune aree dell’isola e a mettere a rischio diverse specie vegetali locali. Tra queste c’è il cavolo di Kerguelen (Pringlea antiscorbutica), una pianta ad alto contenuto vitaminico, utilizzata storicamente dai cacciatori di foche e balene per contrastare lo scorbuto. Per controllare la popolazione di specie introdotte, ogni anno, accanto ai ragazzi che svolgono il servizio civile, arrivano a Kerguelen anche dei cacciatori. Il loro compito è abbattere le specie invasive, dai gatti alle renne. Tuttavia, la loro presenza a Kerguelen è fonte di continue discussioni e polemiche.
Da un lato infatti, i dati scientifici a livello globale suggeriscono chiaramente che l’introduzione di specie non native è spesso causa di gravi scompensi degli ecosistemi, fino a rappresentare uno dei fattori principali dell’attuale crisi della biodiversità mondiale, anche nota come sesta estinzione di massa. Dall’altro, gli ecosistemi sono ambienti complessi, costituiti da un’intricata trama di connessioni e retroazioni, spesso imprevedibili, tra gli attori che li popolano. In questo senso, quindi, non tutte le specie non-native introdotte sono necessariamente problematiche per un ecosistema, e non tutte diventano per forza di cose invasive. Dipende da caso a caso, dal ruolo ecologico della specie introdotta e da molti altri fattori.
Ogni anno arrivano a Kerguelen dei cacciatori col compito di abbattere le specie invasive, ma la loro presenza sull’isola è fonte di continue discussioni.
Me lo spiega molto chiaramente Francesco, ricercatore in biologia ed ecologia del CNRS francese, mentre beviamo una tisana calda davanti alla stufa nel bivacco. Francesco è molto critico riguardo alla cristallizzazione delle due categorie: specie native o autoctone “buone”, e specie non-native o alloctone “cattive”. Nonostante la dicotomia sia utile almeno inizialmente ai fini della conservazione, bisogna sempre studiare ogni caso particolare, mi dice. “Dobbiamo fare più ricerca. Ed essendo i fondi limitati, è importante indirizzarli verso l’obiettivo giusto, senza scelte ideologiche. Mentre, per esempio è chiarissimo che ratti, topi e gatti siano un problema gigantesco per le popolazioni di uccelli marini, attaccando le uova e spesso anche i pulcini, sull’effetto delle renne si sa ancora poco”.
Il tema della complessità delle trame ecologiche di un ecosistema è ben illustrato dal caso dei mufloni di Kerguelen: introdotti inizialmente introdotti nel 1957 su una piccola isola del golfo, l’Isola Alta, con l’obiettivo era di avere carne biologica per sostenere la vita a Kerguelen, negli anni Ottanta la popolazione raggiunse i 300 individui. Nel frattempo, però, insieme a erba e fieno importati per nutrire i mufloni sull’Isola Alta si diffusero anche molte specie di piante graminacee. Quando negli anni 2000 si decise di sopprimere i mufloni, in quanto specie invasiva, le piante graminacee, non avendo più erbivori a ridurne la diffusione, si diffusero su tutto il golfo, andando a competere con le piante locali.
Quello dei mufloni, riflette Francesco ad alta voce, non rappresenta solamente un caso isolato. “A volte ho la sensazione”, mi confessa, “che si prendano scelte per difendere e ricreare un concetto di natura vergine idealizzata, di wilderness antecedente alla presenza degli esseri umani su queste isole, ma concentrandosi solamente su alcune specie e non su altre. Mentre la presenza dei mufloni strideva con un concetto di natura vergine, nessuno aveva considerato l’effetto sulle piante locali”. Stimolato da Francesco, mi domando anch’io se abbia senso parlare di un ritorno alla natura incontaminata in un periodo storico in cui l’impatto umano sugli ecosistemi mondiali è onnipervasivo. Dopotutto, i concetti di natura selvaggia incontaminata e di wilderness sono una concezione occidentale, romantica e coloniale, che ha una radice storica nel pensiero conservazionistico americano. In nome della wilderness, popoli nativi sono stati cacciati e continuano a essere allontanati dalle loro terre in quasi tutti i continenti. D’altro canto, Kerguelen è stata una delle poche terre del pianeta che non ha conosciuto presenza umana fino ai tempi della scoperta due secoli fa da parte dei navigatori europei.
Nei giorni seguenti ne parlo anche con Damien, geologo francese che da 25 anni fa ricerca a Kerguelen. Damien è forse una delle poche persone a conoscere profondamente l’isola e i suoi segreti ed è una delle memorie storiche viventi di questo luogo. Nelle sue spedizioni a Kerguelen ha esplorato ogni valle e ogni montagna e si è trovato più volte costretto a ripararsi dalle intemperie in grotte di fortuna, adoperate soltanto dai cacciatori di foche e dai naufraghi dei secoli passati. Lo seguo per un giorno di lavoro e pernottiamo in uno dei bivacchi storici dell’isola, chiamato Jacky, in memoria di un giovane ucciso per errore da un compagno durante una battuta di caccia al muflone nei primi anni 2000. “Mi piace ricordare come ogni tentativo di addomesticare Kerguelen e di renderla produttiva sia fallito”, mi confida Damien dopo cena, mentre sorseggia pensieroso un bicchiere di whisky.
Kerguelen rappresenta una storia di tentativi andati male, è un’isola che rimane ostinatamente selvaggia, dura e misteriosa, e questo è precisamente il motivo per cui Damien ne è profondamente innamorato. “Dopo la scoperta, Kerguelen attirò l’interesse dei cacciatori di foche e di balene di Nantucket e d’Inghilterra per esportare carne di otaria (Arctocephalus gazella) e olio di balena. Nei primi anni del Novecento la caccia intensiva iniziò però a sostituire quella di sussistenza. Venne costruita una stazione baleniera per la produzione di olio, Port Jeanne D’Arc, nel golfo di Morbihan. La popolazione di balene crollò e la stazione fu abbandonata nel 1926. Oggi, le sue mura rappresentano una memoria storica del tentativo fallito di rendere economicamente produttiva quest’isola”.
“E tuttavia ciò non bastò”, aggiunge Damien ridendo. “Il desiderio di estrarre profitto da questa terra non si estingueva. Introdussero le pecore per esportare carne in Europa, ma i costi erano troppo alti. Il progetto fallì e le pecore furono successivamente abbattute in quanto specie invasiva. E ancora, negli anni Ottanta, tentarono di allevare salmoni. Hanno costruito una stazione ittica nel lago d’Armor, liberando avannotti di salmone di Coho (Oncorhynchus kisutch) e di salmone Chinook (Oncorhynchus tshawytscha), ma una volta cresciuti, gli adulti non sono tornati al lago e anche questo progetto è stato definitivamente abbandonato”.
Non tutte le specie introdotte sono necessariamente problematiche per un ecosistema, e non tutte diventano per forza di cose invasive.
Le settimane a Kerguelen passano veloci e con l’arrivo dell’estate australe le giornate si allungano. A volte la notte è illuminata dalle sagome proteiformi dell’aurora australe, che dà vita a visioni lisergiche e magnifiche nel cielo buio. Una mattina di metà dicembre, la routine alla base è interrotta dal ritorno della Marion Dufresne II. Dopo cinque settimane di estremo isolamento, la vista della nave che ci riporta a casa produce sensazioni contrastanti. Scorgerne il profilo familiare è rassicurante, perché quella nave rappresenta l’unico cordone ombelicale che lega Kerguelen al resto del pianeta. D’altro canto, il suo arrivo risulta quasi invadente e molti mi confidano di sentirsi angosciati dall’imminente incontro con nuove persone. Il lungo isolamento funziona così, e spesso ipertrofizza la componente più introversa delle persone.
Il giorno della partenza è anche il giorno dei saluti. In linea con la tradizione di Kerguelen, davanti alla pedana dell’elicottero viene portato l’impianto con la musica techno. La gente balla, piange e si abbraccia, mentre l’elicottero porta via a piccoli gruppi chi lascia l’isola. Il gruppo danzante si riduce, fino a che intorno alle casse rimane solo chi resta e chi si fermerà per i prossimi 10 o 14 mesi. Arriva il mio turno: mentre l’elicottero si alza in volo, vedo la base di Port aux Fracais allontanarsi dall’alto e farsi sempre più piccola. Sul sedile dell’elicottero provo quella sensazione, che spesso coglie dopo il risveglio, di commistione tra sonno e veglia, come se la mia permanenza sull’isola fosse stata la trama di un sogno, bello e strano. Una volta atterrati sulla nave, salgo sul ponte principale e mi unisco agli altri ragazzi, che con un cappuccio in testa per proteggersi dal forte vento osservano il la costa, sbracciandosi per salutare chi è rimasto sull’isola.
Mentre la nave si allontana, i ragazzi alla base accendono dei fumogeni rossi. Il fumo, spazzato dal forte vento, crea disegni in cielo, mentre le sirene della nave riecheggiano nel golfo e noi scendiamo in cabina. Mi riabituo in fretta ai comfort familiari della nave. Il tempo è buono e la Marion Dufresne II è diretta all’isola di Amsterdam, prima di fare rotta nuovamente verso la Reunion, alle latitudini tropicali. I giorni in nave si susseguono rapidi e le condizioni in mare sono clementi. Attraversiamo i 40 ruggenti senza grandi onde. Salendo verso nord l’aria si scalda, giorno dopo giorno. Anche il colore dell’oceano muta: da blu scuro, quasi nero a Kerguelen, l’acqua sembra schiarirsi via via che guadagniamo gradi di latitudine. La mattina del quinto giorno di navigazione mi alzo all’alba. A prua mi accoglie la vista delle falesie surreali di Entrecasteau, che delimitano il versante sud-ovest dell’isola di Amsterdam. Una parete di 750 metri di basalto, quasi verticale, si tuffa nelle acque turchesi dell’isola.
Paul è già sul ponte, binocolo in mano, e mi indica un gruppo di sette orche, a poppa. Scorgo la larga pinna di un maschio adulto, alcuni esemplari giovani, delle femmine e un cucciolo mentre nuotano pigramente alle prime luci dell’alba, emergendo regolarmente per respirare. Mi faccio assorbire completamente dalla scena. Poi alcuni ragazzi, dal ponte, puntano il dito verso la falesia: quelli che sembravano essere dei minuscoli puntini indistinguibili sulla roccia, quando inquadrati con il binocolo, si rivelano essere albatri. Impossibile contarli, saranno diverse decine di migliaia. Si tratta di albatri dal becco giallo (Thalassarche carteri ), mi spiega Jeremie, ricercatore in epidemiologia del CNRS francese. E sulla falesia che stiamo guardando nidificano i due terzi della popolazione mondiale di questa specie.
L’aria intorno è calda: oggi ci si aspettano 25 gradi di temperatura, dice Jeremie di buon umore. In effetti, ci troviamo ora a 37 gradi di latitudine, nella fascia temperata dell’oceano. Nuovi suoni e nuovi odori danno forma a sensazioni olfattive e sonore inedite, alleggerendo i pensieri reduci da settimane di vento freddo alle latitudini sub-antartiche. Alcuni marinai preparano le nasse per la pesca delle aragoste, che nel mare intorno all’isola di Amsterdam raggiungono densità elevatissime. Essendo area di pesca speciale francese, in queste acque solo pochi vascelli hanno l’autorizzazione ufficiale a pescare.
Nel pomeriggio veniamo sbarcati in elicottero ad Amsterdam, che con i suoi 55 chilometri quadrati di superficie è poco più che un grosso scoglio nell’Oceano Indiano. Sull’isola il lamento delle otarie, con i loro latrati e ululati, è onnipresente e all’inzio quasi assordante. Alla piattaforma di atterraggio la responsabile della base ci accoglie indossando la fascia tricolore francese: le otarie mordono, avverte, e ci consiglia di avere sempre un bastone con noi, per allontanare gli animali più aggressivi.
Kerguelen rappresenta una storia di tentativi andati male, è un’isola che rimane ostinatamente selvaggia, dura e misteriosa.
Trascorro la mattina seguente insieme a Jeremie e alla sua assistente Lucy lungo le coste rocciose dell’isola. I due, con grande efficienza, catturano diversi skua a cui prelevano un campione di sangue e feci prima di rilasciarli: cercano tracce di influenza aviaria e di colera. Quest’ultimo, in particolare, causato dal batterio Pasteurella multocida, dagli anni Ottanta sta infliggendo un duro colpo alla popolazione di albatri dal becco giallo. “Nell’ultimo decennio la situazione sta peggiorando”, mi racconta Jeremie, “in alcuni anni la sopravvivenza dei piccoli sull’isola è prossima allo zero”. Il gruppo di ricerca per cui Jeremie lavora ha sviluppato un vaccino per ridurre la mortalità dei piccoli di albatro. “Calarsi sulla scogliera a picco sull’oceano per centinaia di metri per vaccinare albatri è un lavoraccio ma è una corsa contro il tempo”, mi dice il ricercatore corrugando la fronte, “perché la specie è in forte declino”.
Il pensiero di una corsa contro il tempo per lo sviluppo di un vaccino non può che farmi tornare alla mente gli anni dell’emergenza Covid-19. È strano pensare che, lontano da tutto, nelle isole più remote degli oceani, da decenni molte specie di uccelli marini vivono una crisi pandemica simile a quella che abbiamo recentemente sperimentato noi umani. Chiedo a Jeremie che cosa abbia scatenato l’epidemia di colera ad Amsterdam: “non è certo ancora”, mi dice, “ma l’ipotesi più plausibile è che sia stata introdotta sull’isola dai ratti, portati inavvertitamente dalle navi, e che ora sono una specie invasiva”. I ratti mordono i piccoli di albatro, trasmettendo il batterio del colera con un vero e proprio spillover, un salto di specie. “Il 2024 sarà l’anno decisivo”, sospira Jeremie: “dopo anni di studio, è stato approvato un piano per l’eradicazione completa dei ratti dall’isola, per proteggere e salvare la popolazione di albatri e altri uccelli marini dal colera. Dobbiamo solo sperare che funzioni”.
Lascio Jeremie e Lucy a lavorare sulla scogliera. Bastone in mano, mi inerpico per un sentiero tra i prati che porta al cratere Antonelli. Mentre cammino, scorgo qualche cespuglio di Phyllica arborea, l’unica pianta legnosa nativa delle isole subantartiche, che un tempo copriva gran parte di Amsterdam ma che gli incendi hanno ridotto a pochi ettari di superficie. È una sensazione strana, quasi di sollievo, dopo mesi senza incontrare un singolo albero. All’interno del cratere mi aspetta una sorpresa: tra le pareti verticali di basalto si nasconde un piccolo bosco. Lentamente scendo all’interno del cratere e mi siedo tra gli alberi. Il silenzio è avvolgente, ma anche insolito. L’assenza di suoni e di canti di uccelli in un bosco crea un effetto dissonante, inaspettato e innaturale. Su Amsterdam, essendo l’isola così lontana da ogni costa continentale, non esistono uccelli canori. Lontani e portati dal vento, solo i lamenti delle otarie si confondono con il suono delle onde.
Tornato alla base, Anna, sociologa dell’ambiente, mi si siede accanto su una panchina davanti alla sala comune. Mi chiede che sensazione mi abbia dato calarmi nel cratere. Si trova in viaggio nelle isole sub-antartiche francesi per studiare il rapporto tra l’umano e il nonumano. “Il cratere Antonelli è un luogo unico”, mi confida, un luogo fondamentale anche per la sua ricerca perché quel cratere è al centro di una controversia che sta monitorando da tempo. Il motivo dipende dal fatto che i cipressi di Lambert (Cupressus macrocarpa) all’interno del cratere sono una specie introdotta, e che secondo alcuni andrebbe perciò eliminata.
Tuttavia, a detta di molti ecologi, quei pochi cipressi piantati dall’uomo e protetti dal vento non sembrano costituire un rischio per la flora locale. Il problema però, rispondono allora i critici, è l’impatto paesaggistico dei cipressi: la loro presenza stona con quell’idea di natura selvaggia e pura, di wilderness, che si vuole restaurare sulle isole sub-antartiche francesi. D’altro canto, quegli alberi rappresentano invece una memoria storica e una presenza dall’importante valore spirituale-emozionale per chi abita, anche se temporaneamente, l’isola. Molti dei ragazzi di Amsterdam, per esempio, vanno al cratere per trovare pace tra gli alberi, quando l’isolamento e la nostalgia diventano troppo forti.
A differenza di Kerguelen, e nonostante la strabordante bellezza del luogo, ad Amsterdam le condizioni psicologiche possono essere più difficili. Molti dei ragazzi mi hanno spiegato che nelle isole più fredde, la gente tende a essere più unita. Ad Amsterdam le condizioni climatiche più favorevoli tendono invece a portare, paradossalmente, anche più solitudine e nostalgia. Nonostante la mia brevissima permanenza sull’isola, me ne rendo immediatamente conto: l’onnipresente vista dell’oceano turchese è un monito costante dell’estremo isolamento. Mi chiedo come debbano essersi sentiti i naufraghi che su quest’isola sono rimasti bloccati per mesi, a volte anni, osservando lo stesso mare ogni giorno e lottando per mantenere viva la speranza di una salvezza, di una partenza.
La presenza dei cipressi stona con quell’idea di wilderness che si vorrebbe restaurare sulle isole sub-antartiche francesi.
Alcuni hanno lasciato una testimonianza incisa sulle rocce. Un nome, una data, un pensiero, una traccia a testimoniare il tempo sospeso sull’isola. Amsterdam è piena di questi petroglifi: in passato sono stati censiti e archiviati da un gruppo di storici, ma se ne trovano continuamente di nuovi, mi dice la responsabile della base. Dopo pochi minuti mi porta un archivio fotografico: sono foto di alcuni petroglifi dell’isola. Uno in particolare cattura la mia attenzione, perché è una storia che ha dell’incredibile.
Si tratta di un’ incisione sulla roccia lasciata da alcuni dei superstiti del vascello Princess of Whales, naufragato nel 1821 sulla lontana isola di Crozet. I superstiti vennero recuperati nel 1823 da un peschereccio diretto ad Amsterdam, ma a seguito di una violenta discussione con il nuovo capitano, dieci di loro vennero abbandonati sull’isola. Dopo pochi mesi, un nuovo peschereccio ne recuperò solo tre, per problemi di spazio a bordo, mentre gli altri sette dovettero aspettare fino all’anno successivo, nel 1825, quando furono finalmente tratti in salvo.
Assieme ai miei compagni di viaggio Roberto, Davide e Francesco mi metto a cercare il petroglifo dei superstiti della Princess of Whales. L’erba è alta e, armati di bastoni per proteggerci dalle otarie, ci dividiamo per coprire più terreno, scoprendo a turno le grandi pietre di basalto in cui incappiamo. È un pomeriggio caldo, dal cielo azzurro e primaverile dell’emisfero australe, e si sta bene in maglietta. Il fruscio tra l’erba causato dai nostri passi è interrotto solamente, di tanto in tanto, dagli ululati melancolici delle otarie.
Le fotografie che accompagnano il reportage sono state scattate durante il soggiorno alle Kerguelen da Roberto Mondin e riprodotte su gentile concessione dell’autore. Dal viaggio nelle isole sub-antartiche francesi Ettore Camerlenghi e Roberto Mondin hanno tratto, assieme a Davide Marconcini, il documentario in fase di produzione The Last Layer (Caucaso Factory). Il viaggio è stato in parte sponsorizzato da Scientific Exploration Society (SES) e reso possibile grazie al premio e riconoscimento Neville Shulman Award for Expedition Filmmaking 2022 a Ettore Camerlenghi.