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ualche settimana fa la rivista scientifica Nature sceglie, come nulla fosse, “Scioccante declino nell’abbondanza della vita sulla Terra” come titolo della rassegna stampa quotidiana. L’attuale crisi della biosfera è accertata e drammatica, con un tasso di estinzione che va dalle centinaia alle decine di migliaia di volte rispetto alla norma delle epoche geologiche immediatamente passate.
Ma tra le crisi che ci circondano, quella della biodiversità è forse quella di cui è più difficile dedurre i danni che, anche quando sono tangibili e globali come l’avvento di zoonosi quali la COVID-19, ne derivano in modo complesso e indiretto. Non sorprende troppo quindi che qualcuno non voglia guardare in faccia quello che è difficile e doloroso vedere. Il “negazionismo della sesta estinzione” è in ascesa, come denuncia un appello di agosto della rivista scientifica Nature Ecology & Evolution. Un’ondata di disinformazione e menzogna che ha radici profonde le cui origini potrebbero darci un altro punto di vista su di un problema più generale: perché neghiamo le crisi, e cosa fare al riguardo?
Gli Dei non sprecano
Prima ancora che venisse scoperto, il concetto stesso di estinzione era già stato negato. L’idea che le specie possano estinguersi è stata, fino a pochi secoli fa, semplicemente inconcepibile. I fossili erano noti fin dalla notte dei tempi, ma non erano interpretati come resti di specie estinte. Spesso i fossili erano considerati resti di creature mitologiche: memoria di un passato di giganti, ad esempio secondo gli autori greci Pausania e Flegonte di Tralles; o resti di draghi, cattivo presagio per i contadini nella cultura popolare della Cina antica.
Un’altra scuola di pensiero, promossa da intellettuali come Athanasius Kircher o Georg Agricola, li voleva emanazioni di una vis plastica che creava forme organiche spontaneamente nella roccia, simili ai cristalli (e alcune formazioni minerali imitano vagamente, in effetti, forme viventi). Secondo il naturalista francese Jean-Baptiste Robinet, nel suo De la nature del 1768, i fossili non erano testimonianze del passato, bensì gli schizzi preparatori delle forze naturali che avrebbero plasmato anche i viventi: una biblioteca di possibilità biologiche mai realizzate o da realizzarsi in futuro. Continuando su questa strada, il naturalista creazionista britannico Philip Henry Gosse giunse alla conclusione, nel suo Omphalos pubblicato ormai nel 1857, che i fossili sono i riverberi onirici dell’immaginazione divina, febbri creative tramutate in roccia; la sequenza precisa delle flore e delle faune nient’altro che uno sguardo cristallizzato nel dormiveglia di Dio.
Dio non poteva sprecare la sua creazione, formando una pletora di viventi per poi spazzarli via senza lasciarne che le ossa e le conchiglie. Anche durante il Diluvio Universale si preoccupa che un’arca salvi le sue creature. Più in generale, l’estinzione era in contrasto con la fede in una cosiddetta “economia della natura” in cui tutto si trasforma e si riutilizza, senza che nulla vada mai perduto o creato. Ai naturalisti che, nel Diciassettesimo secolo, iniziarono a congetturare la possibilità di specie estinte, come Robert Hooke, veniva risposto che tali specie dovevano esistere ancora in qualche angolo del pianeta. Nel 1697, analizzando i resti dell’alce preistorica Megaloceros, Sir Thomas Molyneux esordiva seccamente:
Nessuna vera Specie di Creature Viventi è così completamente estinta da essere stata completamente perduta dal Mondo, da che le specie sono state Create; questa è l’opinione di molti Naturalisti; ed è fondata su di un Principio della Provvidenza, che si prende Cura in generale degli Animali che Produce, così buono da meritare il nostro assenso. È possibile però che grandi Vicissitudini possano aver influito sulle Opere della Natura… e che intere Specie di Animali, precedentemente Comuni, anzi addirittura numerose in certi Paesi siano diventate, nel Proseguire del tempo, così perfettamente perdute da essere, in quel luogo, del tutto sconosciute…ma di cui la specie è stata accuratamente preservata in qualche altra parte del mondo.
Traccia di questa difficoltà a credere all’estinzione resta oggi nella cultura della criptozoologia, la ricerca di animali sconosciuti, che sebbene sia anche una disciplina scientificamente rigorosa, è nota per le sue deviazioni irragionevoli, tipo la ricerca di creature come il mostro di Loch Ness o il sasquatch come prove della sopravvivenza di dinosauri o antropoidi ancestrali. Allo stesso modo numerosi naturalisti e appassionati continuano ostinatamente a cercare tracce di animali carismatici quasi sicuramente estinti da decenni, come il tilacino o ‘lupo marsupiale’ australiano.
Quando Georges Cuvier, alla fine del Settecento, dimostrò finalmente l’esistenza di specie estinte in passato, scoprì anche che nel corso del tempo si sono susseguiti, sul nostro pianeta, dei mondi. Mondi che Cuvier immaginava, senza andare troppo lontano dalla verità, separati da catastrofi. Un cambiamento nella nostra visione del mondo simile alla rivoluzione copernicana, ma che è stato messo in ombra dalla conseguente scoperta dell’evoluzione per selezione naturale da parte di Darwin.
Joel Black, nel bellissimo contributo The hermeneutics of extinction: denial and discovery in scientific literature (Comparative Criticism 13: Literature and Science, ed. E. S. Shaffer (Cambridge University Press, 1991), pp. 147–69), nota come al rifiuto dell’ipotesi dell’estinzione seguì la repressione della scoperta: messa in disparte, resa secondaria dalla filosofia gradualista di geologi come Charles Lyell secondo cui nel grande schema delle cose tutto cambia affinché nulla cambi, le specie si estinguono e risorgono in un flusso che è, in ultima analisi, monotono – l’idea che la storia della vita sia stata punteggiata da crisi repentine come le estinzioni di massa non tornerà in auge fino agli anni Ottanta del Ventesimo secolo.
Prima ancora che venisse scoperto, il concetto stesso di estinzione era già stato negato. L’idea che le specie possano estinguersi è stata, fino a pochi secoli fa, semplicemente inconcepibile.
La storia della Terra rivelata da Cuvier cozza completamente con la nostra idea istintiva di un mondo, nelle sue grandi linee, immutabile nel tempo. L’estinzione di massa lavora su scale a noi non accessibili: è portatrice di rivoluzione inimmaginabile e allo stesso tempo è impercettibile, diluita com’è in anni, secoli, millenni (eccetto i casi in cui un asteroide cambia tutto in un attimo). È un evento enorme eppure fuori dalla nostra portata.
Scricchiolii
Però sappiamo che le cose stanno cambiando. Lo sa chi studia il problema, chi vede le specie e gli ecosistemi scomparire; ma lo dicono anche, appunto, le fiamme della California o la pandemia in corso. Sentiamo i primi scricchiolii, vediamo le prime crepe che potrebbero spalancare il buco nero di un pianeta completamente mutato, sia dal punto di vista del sistema-Terra sia della nostra società.
Questo buco nero di cui non conosciamo l’interno e da cui una volta caduti non si torna indietro è, inutile girarci intorno, conseguenza diretta della struttura economica, politica, sociale dell’umanità. Non stiamo continuando a passo fermo su questa strada: stiamo accelerando la nostra caduta nel buco nero. Sterzare per evitare le crisi (o almeno tamponarne le conseguenze) significa cambiare radicalmente le strutture in cui viaggia il nostro mondo.
La nostra struttura sociale, politica, economica è una casa, familiare e artificiale come gli esagoni di un alveare per le api. A differenza delle api, possiamo creare moltissimi tipi di strutture sociali ed economiche, possiamo cambiare. Ma ancora più difficile da afferrare e immaginare è proprio la necessità di dover cambiare il nido che ci siamo costruiti, di dover cambiare noi stessi. E dovrà cambiare parecchio: il lockdown ha dimostrato che perfino fermare buona parte della nostra società per mesi ha permesso solo un minimo di sollievo dal punto di vista delle emissioni di CO2.
Cambiare casa fa paura, però – specie per chi in quella casa era confortevole e aveva una stanza comoda, molto probabilmente a spese altrui. La nostra società infatti non è una società armonica, ma è paradossalmente abbastanza simile agli ecosistemi che divora, che non conoscono l’armonia, non conoscono l’equilibrio. Viviamo un flusso di conflitti – di classe, di identità, economici – e alleanze, che verranno scardinate in ogni caso dallo schianto con l’Antropocene. La famosa vignetta di Joel Pett dove uno si alza a un summit sul clima e chiede “E se tutto questo fosse una bufala e avessimo creato un mondo migliore per niente?” espone un paradosso solo apparente. Un mondo migliore per tanti dovrà togliere privilegi ad alcuni. Come dice il Comandante Waterford nel Racconto dell’ancella di Margaret Atwood: “Meglio non significa mai il meglio per tutti”. Per chi rischia di perdere la propria ricchezza o la propria identità, c’è solo un imperativo.
Nulla cambierà il mio mondo
I negazionismi non sono quasi mai semplici dinieghi letterali della realtà: sono narrazioni che vogliono evitare la realtà. Il sociologo Stanley Cohen, in Stati di negazione: la rimozione del dolore nella società contemporanea. (Carocci, 2002) ha identificato tre livelli di negazionismo.
Il primo e più semplice è quello letterale: non sta succedendo. La temperatura media della Terra non si sta alzando, la pandemia non esiste, eccetera. Di norma è il primo a essere messo sul piatto, quando le evidenze della crisi in atto possono ancora essere discusse, ed è quindi anche quello più fragile – a un certo punto quasi nessuno potrà, in buona fede, negare l’evidenza davanti all’opinione pubblica. Il secondo livello è detto interpretativo. Come nella gag della moglie che trova il marito a letto con l’amante, “posso spiegarti tutto, non è quello che sembra”. Il cambiamento climatico c’è ma è solo una fluttuazione naturale; le specie si stanno estinguendo ma non è veramente colpa nostra, eccetera.
Molti sono naturalmente portati a credere che la soluzione a un problema causato dalla tecnologia sia un’altra tecnologia. Ma confondiamo un fattore necessario con un fattore sufficiente.
Il terzo livello è quello implicativo, ovvero in cui non si nega la questione ma se ne rifiutano le conseguenze. La crisi sta passando, o se è una crisi ne verremo fuori con qualche aggiustamento, qualche bacchetta magica che consentirà a tutto il resto di andare avanti come prima. Il cambiamento climatico lo risolveremo a suon di carbon capture o di energia nucleare; per la crisi della biosfera basterà proteggere qualche ambiente particolarmente in pericolo; per la pandemia basta proteggere gli anziani nelle RSA e aspettare il vaccino.
A fomentare questa visione è il fatto che siamo una specie tecnologica di successo e molti, specie nelle scienze e nell’ingegneria, sono naturalmente portati a credere che la soluzione a un problema causato dalla tecnologia sia un’altra tecnologia. Il che non è necessariamente falso: abbiamo e avremo bisogno di tecnologia avanzata per uscire dalla crisi mantenendo un livello accettabile di vita (pensiamo alla ricerca sulle energie rinnovabili). Ma confondiamo un fattore necessario con un fattore sufficiente. La tecnica non basta senza immergerla in un contesto, in un piano globale.
Guerra per la biosfera
Spesso si dipingono i negazionismi come pseudoscienze, e le pseudoscienze come un mero problema di sfiducia nella scienza. È una semplificazione, nella migliore delle ipotesi. È vero però, come spiega Antonio Sgobba, che in questi casi è in pericolo il monopolio della cosiddetta autorità epistemica, ovvero delle istituzioni o persone che hanno la capacità di imporre un punto di vista su un determinato argomento (non necessariamente esperti, ma anche comunicatori della scienza) sostituito da un conflitto tra autorità alternative. Spesso separate prima da linee ideologiche e poi scientifiche, in cui ciascuno segue i colori della propria bandiera.
Di fronte alle crisi, la disgregazione del monopolio è guidata da fazioni che cercano disperatamente di autopreservarsi. Chi vede il pericolo e decide di preservare l’umanità, e chi invece vuole preservare un preciso stile di vita e una struttura sociale, se non i propri privilegi economici. E se il destino è contro di noi, peggio per lui. Non è necessariamente una reazione ridicola: di fronte alla crisi rischiamo di dover rinegoziare diritti e libertà che finora davamo per scontate. Una delle manifestanti di Berlino contro le restrizioni anti-COVID ha dichiarato “Crisi del coronavirus o no, dobbiamo difendere le nostre libertà”, e sebbene sia risibile pensare che stiamo “perdendo la libertà” mettendoci una mascherina al supermercato, non è di per sé stupido stare in guardia per evitare restrizioni davvero inaccettabili.
La nostra impossibilità di fare i conti con l’iperoggetto-crisi, buio, inaccessibile, incerto e spaventoso, è reale, ma è il substrato su cui prospera una guerra epistemica. Tale conflitto non è necessariamente una limpida lotta tra le “Scienze del Bene” e le “Fake News del Male”: la scienza a volte è un pretesto ideologico per entrambi i contendenti. Ma di fronte a crisi del clima, biosfera e pandemia la linea è abbastanza netta. Da un lato c’è chi riconosce la necessità di reagire al pericolo e dall’altro chi ci mette a rischio per profitto a breve-medio termine. Sapendo bene che le nostre distorsioni cognitive e concettuali giocano dalla loro parte: abbiamo la tendenza a pensare che lo status quo sia preferibile a un mutamento potenzialmente pericoloso; abbiamo la tendenza a non voler abbandonare ciò che ci è familiare. Siamo da sempre capaci di ignorare i segnali di pericolo finché non diventa troppo tardi; è quello che viene chiamato la normalizzazione della devianza. Se finora è andato tutto bene, allora andrà sempre tutto bene: è così che, ad esempio, lo Space Shuttle Challenger è esploso nel 1986. Non vogliamo lasciare la nostra casa, anche se la casa brucerà; preferiamo perire con essa.
Quando parlo di guerra, intendo una metafora fino a un certo punto. Basta leggere il documentatissimo Mercanti di dubbi di Naomi Oreskes e Erik M. Conway (Edizioni Ambiente, 2019) per sapere che sono esistite ed esistono davvero campagne di disinformazione, massicciamente finanziate, che cercano in tutti i modi di negare problemi e crisi in atto (soprattutto quelle ambientali), o quantomeno di insinuare un “ragionevole dubbio” allo scopo di proteggere industrie insostenibili, da quella del tabacco a quella dei combustibili fossili. Sforzi che hanno avuto successo nel rallentare o indebolire gli sforzi per rimediare alle crisi in atto, anche se possono fallire sul lungo periodo (oggi pressoché nessuno nega più che il fumo sia dannoso per la salute, per esempio). In molti casi è sicuro che, senza queste campagne, tale disinformazione sarebbe meno diffusa e meno importante.
Dietro al negazionismo dell’estinzione esistono allo stesso modo interessi economici in gioco, almeno da un secolo. Nel 1921 Willoughby Devar denunciava alla Royal Society of Arts come i commercianti di piume –all’epoca un articolo di moda richiestissimo, e che richiedeva l’uccisione di numerosi uccelli anche rari – negassero gli effetti delle proprie attività:
I sostenitori del commercio, naturalmente, rispondono con un opaco diniego quando parliamo dei pericoli dello sterminio [di uccelli]. Esclamano che non possiamo puntare a nessuna singola specie di uccello che loro abbiano spazzato via dalla faccia della Terra […] Mancano il punto della nostra crociata. Non vogliamo punire, vogliamo prevenire […] Se i cacciatori di piume non hanno ancora ucciso l’ultima coppia di una determinata specie, quello che vogliamo è impedire loro di farlo in futuro.
Il 22 maggio 2019, all’indomani della pubblicazione del famoso rapporto IPBES sulla crisi ecologica, il Congresso americano ha invitato tra gli altri due spin doctors, Patrick Moore e Marc Morano, i quali hanno rifiutato le conclusioni del rapporto chiamandolo “propaganda” e “una tattica di terrore per spaventare il pubblico”. Moore e Morano sono noti per essere sulla prima linea del negazionismo climatico, e tra le altre cose lavorano in collaborazione con due cosiddetti think tank, l’Heartland Institute e il Committee for a Constructive Tomorrow (CFACT), che a loro volta sono generosamente finanziati, nell’ordine di centinaia di migliaia o milioni di dollari, da aziende del petrolio o del carbone, come ExxonMobil, e da trust anonimi conservatori come DonorsTrust.
Quando i contanti non bastano, c’è il sangue. Attivisti e giornalisti sul fronte di questo conflitto, dove si scontrano interessi economici, conservazione ambientale e tutela dei lavoratori, pagano con la vita. 212 attivisti ambientalisti sono stati uccisi nel 2019, e 13 giornalisti che si occupavano di ambiente sono stati uccisi negli ultimi 10 anni.
Doomscrolling
I venditori di dubbi negazionisti sperano di essere abbastanza privilegiati da cavarsela, o cinicamente non si curano di danni che pagheranno le generazioni future. Ma, come disse Petrarca durante una crisi simile a quella attuale, “è accaduto spesso che una fuga dalla morte diventi una fuga verso la morte”. Prima o poi i nodi verranno al pettine, e del resto il significato originario del termine Apocalisse è “disvelamento, rivelazione”. Le crisi globali dell’Antropocene stanno iniziando a rivelarsi e si riveleranno. Sembra di vedere Gog e Magog che combattono comunque con l’Anticristo contro il Signore, anche se sanno – devono sapere – che saranno sconfitti.
La prospettiva futura non è serena, non abbiamo un’idea precisa di quali saranno le conseguenze finali, tra un secolo, delle crisi che iniziano a disvelarsi ora, ma tutto fa pensare non saranno buone. Dalle fiamme di una crisi climatica sorgerà un mondo più povero, affamato, assetato e instabile; a sua volta reso fragile e malsano dall’estinzione di massa e dallo sfaldarsi della biosfera. Questa pandemia non sarà l’ultima. Tenere in mente questo è deprimente, ma è realistico. Non è una coincidenza, forse: la depressione, forse, è uno stato più coerente con una visione lucida della realtà. È la tesi del cosiddetto “realismo depressivo”: proposta nel 1979, era già stata affermata dal filosofo e psicologo americano William James, quando scrive:
Non c’è dubbio che la salute mentale sia una dottrina filosofica inadeguata, perché gli orrori che si rifiuta di prendere in considerazione sono una porzione non trascurabile della realtà; e potrebbero anche essere la chiave migliore per comprendere il significato della vita, e forse gli unici strumenti per accedere a un livello più profondo della realtà.
Chiunque abbia avuto esperienza della depressione sa però che la depressione non è esattamente uno stato mentale in cui vi sia urgenza di agire, anzi, è l’assenza di interesse verso sé stessi e il mondo. È facile abbandonarsi al doomscrolling, l’assorbimento masochistico nella timeline infinita dei social network che sprofonda da una pessima notizia alla successiva, fino al punto di restare paralizzati e insonni dall’ansia. L’ansia e la depressione stancano. Lo stato di allerta permanente sfinisce: lo vediamo adesso con la pandemia, quanto sia difficile parlare nuovamente di lockdown e misure di sicurezza di fronte alla seconda ondata. Stare a ripetersi che saremo soverchiati dall’apocalisse finisce per avere solo due risultati: o farci rifiutare quanto accade, o rassegnarci ad attendere. Come dice il filosofo nigeriano Bayo Akomolafe, forse l’Antropocene è il segnale che dobbiamo venire a patti con il nostro essere transienti:
I riti di passaggio sono modi di morire con saggezza […] accogliere la perdita e la transitorietà dell’esistenza, accorgersi di noi stessi in una rete vitale che non privilegia i corpi umani o il feticcio della sopravvivenza […] Qualcosa di antico ci chiede di dare conto della nostra centralità.
Qualcosa deve morire: noi, la nostra normalità, le specie viventi che coabitano con noi. Questa morte va gestita. Come scrive Francesco d’Isa in Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020), citando la Terror Management Theory della psicologia:
La maggior parte degli atti umani è, in ultima analisi, un tentativo di gestire la morte… Molte delle sovrastrutture umane deriverebbero dalla ricerca di significato, a sua volta dovuta al tentativo di gestire l’ansia per la nostra mortalità.
Scommettere su una crisalide
E se usassimo quest’ansia per costruire? La vecchia fantascienza anglosassone dipingeva le catastrofi come lirica propaganda per lo spirito dell’umanità, rinsaldata finalmente di fronte all’avversità. Si sbagliava; per ora le crisi hanno portato divisione, rimozione, inazione. Possiamo ritrovare quella narrazione? Reagire non è agire: reagire è essere il Nero nell’apertura di una partita di scacchi, che deve rispondere all’apertura del Bianco. Prevenire, ancora peggio, di per sé non porta alcuna gloria, perché il risultato di una prevenzione eccellente è che non accada assolutamente niente. Stare in trincea in difesa è frustrante e passivo. È chiaro che, se continua così, negare il problema sarà sempre la soluzione più rassicurante. Quello che ci serve è andare all’attacco.
Di “ecologismo all’attacco” si parla da tempo, ma finora lo si fa nei circoli tecnovisionari come quello di Stewart Brand che cerca soluzioni tecnologiche all’estinzione sperando di clonare i mammut (a suo modo, un esempio di negazionismo implicativo della crisi ecologica: la de-estinzione come bacchetta magica). Quello che invece serve è una visione organica e globale di un’economia e società che siano compatibili con il pianeta e con la nostra felicità, una rivoluzione sotto ogni punto di vista per creare un mondo nuovo.
Serve una visione organica e globale di un’economia e società che siano compatibili con il pianeta e con la nostra felicità.
Le rivoluzioni non sono un pranzo di gala, non sarà un pacifico tenersi per mano in un girotondo intorno agli alberi, ci saranno probabilmente rabbia, dolore e paura, e sarà una metamorfosi in cui è certamente possibile rimanere impigliati, come nella tragica morte di una farfalla che non si libera dal bozzolo. Ma se impigliarsi è un rischio, la metamorfosi è l’unica possibilità di salvezza: il bruco che vi rinuncia muore e non lascia niente dietro di sé.
Credo che la nostra unica possibilità sia costruire un orizzonte di utopia, perché senza un obiettivo di cui essere fieri non si costruisce niente. Nella storia della Terra le estinzioni di massa sono spartiacque tra mondi diversi. Al di qua e al di là di un’estinzione di massa ci sono due Terre che non solo sono popolate da specie differenti ma di cui sono diversi i cicli geochimici, le strutture degli ecosistemi, i modi di vita possibili e impossibili. Possiamo essere noi a decidere che mondo vogliamo. Possiamo lasciarci naufragare nel buco nero o cercare un’altra orbita. Dal buio della crisalide, precaria e preziosa, deve nascere la farfalla.