N el corso dell’ultimo secolo la scoperta di nuovi metodi di datazione ha spinto indietro l’origine del pianeta Terra fino a 4,54 miliardi di anni fa, un tempo molto più antico e remoto di quanto credessero i primi geologi e naturalisti. “Se condensassimo tutta la storia inconcepibilmente lunga della Terra in un solo giorno”, scrivono Simon Lewis e Mark Maslin in Il pianeta umano (Einaudi, 2019), “i primi esseri simili a noi comparirebbero a meno di quattro secondi dalla mezzanotte”. Commensurato allo sterminato silenzio che l’ha preceduto, il recente clangore della civiltà umana è come lo stridulare di una formica nell’universo.
Eppure da quando abbiamo iniziato a mettere assieme i pezzi – età della Terra, comparsa di Homo sapiens, danni agli ecosistemi – ci siamo presto resi conto di quanto fosse pesante l’impronta impressa dalla nostra specie. Come notano Lewis e Maslin, “già nell’Ottocento i geologi e gli studiosi di geologia discutevano del periodo ecologico più recente come dell’epoca umana”. Oggi le prove dell’impatto umano sul sistema Terra abbondano. Come le placche tettoniche, le eruzioni vulcaniche e gli impatti di meteoriti, secondo molti scienziati noi umani siamo diventati un agente geologico, una forza tellurica e straripante, capaci di modificare l’evoluzione del pianeta. Per questo, dicono, è arrivato il momento di introdurre l’Antropocene nella scala dei tempi geologici: viviamo in una nuova epoca geologica, l’epoca umana.
La definizione formale di Antropocene e della sua data di inizio rimangono controversi, però, e il dibattito che si è creato attorno a questo termine è una discussione non solo scientifica, ma anche, inevitabilmente, storica e politica.
Tempo profondo
Tra i libri che il giovane Darwin portò con sé nel suo viaggio da naturalista intorno al mondo spiccava Principi di geologia, di Charles Lyell (1832). Quanto era vecchia la Terra?, si domandava Darwin leggendo Lyell. Quanto tempo aveva avuto la vita per diversificarsi nel visibilio di forme esistenti, osservabili in natura, e di forme estinte, fossili senza nome incastonati nella roccia? Il primo tentativo di calcolare sperimentalmente l’età della Terra era stato condotto soltanto mezzo secolo prima dal conte di Buffon, il quale si era persuaso che i pianeti fossero in origine blocchi di materia incandescente che si staccarono dal Sole e raffreddarono in migliaia, forse milioni di anni. Cercando di riprodurre in laboratorio un simile processo di raffreddamento con piccole sfere di metallo fuso, Buffon calcolò che la Terra si fosse formata esattamente 74.832 anni prima del suo esperimento. In Les Époques de la nature (1778), il conte arrivò addirittura a ipotizzare che una Terra così vecchia avesse attraversato almeno sette diverse epoche geologiche, ultima delle quali si ardì profeticamente a chiamare l’Epoca dell’Uomo, quella in cui “l’intera faccia della Terra reca l’impronta del potere umano”.
Già nell’Ottocento gli studiosi di geologia discutevano del periodo ecologico più recente come dell’epoca umana.
Nel corso dell’Ottocento la scienza delle rocce progredì enormemente rispetto i rudimentali esperimenti di Buffon, e con essa le stime sull’età della Terra si fecero di gran lunga più profonde, ma rimase intatta l’idea che nell’ultima epoca geologica le azioni antropiche fossero diventate la causa primaria di cambiamenti permanenti. In Europa, i geologi Thomas Jenkyn, Samuel Haughton e Antonio Stoppani suggerirono di chiamare l’epoca in corso “antropozoica”, mentre negli Stati Uniti il coevo James Dwight Dana propose l’etichetta di “età della mente” o, in alternativa, di “era dell’uomo”. Alla fine però, fu Lyell a spuntarla e ad imporsi sulla nomenclatura geologica coniando il termine Olocene, ossia “del tutto recente”, per designare i dieci millenni di storia che dalla fine dell’ultima grande glaciazione (detta würmiana) portano alla scoperta dell’agricoltura e da lì alla civiltà moderna. Secondo Lyell la Terra era vecchia di milioni di anni, un tempo sufficiente a validare la teoria dell’evoluzione delle specie di Darwin. Di converso, fu proprio la comparsa di una nuova specie fossilizzata negli archivi stratigrafici – assieme a un cambiamento repentino nella chimica delle rocce – a diventare il principale marcatore per la suddivisione dei tempi geologici: ai mutamenti dell’ambiente corrispondono sempre fluttuazioni della vita, storia delle rocce ed evoluzione delle specie sono intrecci di una fabula medesima.
Il passaggio dall’Adeano all’Archeano, avvenuto grossomodo 4 miliardi di anni fa, è ad esempio segnato dalla comparsa dei primi esseri viventi sul pianeta Terra, batteri e archei. Dall’Archeano al Proterozoico, 2 miliardi e mezzo di anni fa, entrano in scena i cianobatteri, organismi multicellulari all’origine del cosiddetto “grande evento ossidativo” che liberò ossigeno nell’atmosfera e creò le premesse per la comparsa di esseri in grado di utilizzarlo come principale fonte di energia, gli eucarioti. Il passaggio al successivo Fanerozoico ha invece origine con l’esplosione cambriana e la comparsa sulla terra di un tripudio di forme complesse di vita animale, come i vermi priapulidi che a partire da 541 milioni di anni fa lasceranno impressa negli archivi geologici la tipica forma a “U” della loro tana.
Leggendo Darwin, Lyell si convinse a sua volta che l’Olocene avesse avuto origine con la comparsa di una specie animale inedita, uno scherzo della natura destinato a cambiare irreversibilmente il profilo geologico del pianeta: noi stessi, gli umani. Oggi sappiamo che si sbagliava, è oramai comprovato che Homo sapiens si separò dalle altre specie del genere Homo circa 200.000 anni fa, e non all’inizio dell’Olocene.
Soltanto nel 2008 l’Olocene, con ratifica ufficiale dell’Unione Internazionale di Scienze Geologiche, venne riconosciuto formalmente quale epoca geologica iniziata 11.650 anni BP (before present) e tuttora in corso. Il suo chiodo d’oro, il marcatore che ne segna l’inizio, non è la comparsa nei sedimenti di una nuova forma di vita ma una firma chimica, un cambiamento della concentrazione di deuterio in una carota di ghiaccio della Groenlandia settentrionale. Inaspettatamente la definizione scientifica dell’Olocene non fu controversa, i cambiamenti nei sedimenti terrestri nel passaggio dall’ultima grande glaciazione a condizioni temperate interglaciali erano evidenti, e tuttavia l’originaria connotazione semantica di “epoca umana” finì per smarrirsi.
Antropocene o no?
Negli ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidali e polimeri plastici dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superfice terrestre con una tecnosfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo. Abbiamo condotto all’estinzione l’83% delle specie animali viventi e dimezzato la popolazione di alberi del 50%. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione nell’atmosfera è oggi il più alto degli ultimi tre milioni di anni. Se dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi. “Questo cambiamento permanente del sistema Terra”, commentano laconici Lewis e Maslin, “resterà nei sedimenti geologici per sempre”.
Perché, allora, per designare l’epoca geologica in corso – l’epoca umana, appunto – nel 2008 l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche propese per il termine Olocene, che non cita esplicitamente gli esseri umani quali causa importante del cambiamento geologico e climatico? Del resto, nei primi anni Duemila l’etichetta Antropocene era senza dubbio già nota alla comunità scientifica. Dopo alcuni usi del termine in contesti informali sin dagli anni ’80, furono il Nobel per la chimica Paul Crutzen e il limnologo Eugene Stoermer a recuperare dall’oblio il concetto di “epoca umana”, introducendo per primi la parola Antropocene in un documento con finalità scientifiche, la newsletter dell’International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP). E tuttavia, con la scelta di ratificare l’ingresso dell’Olocene nella scala dei tempi geologici, l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche scelse di minimizzare e marginalizzare le preoccupazioni ambientali, optando per un termine che Lewis e Maslin dicono più ovvio, e molto meno controverso, di Antropocene come nome geologico dell’epoca attuale. “Olocene era il termine che un accademico che preparava i futuri geologi a vivere nell’industria petrolifera o mineraria avrebbe scelto per quieto vivere”.
Perché per designare l’epoca geologica in corso è stato scelto il termine Olocene, che non cita esplicitamente gli esseri umani quali causa importante del cambiamento geologico e climatico?
Fu una decisione codarda, quindi, cautelosa e distorsiva? La comunità dei geologi provò a correggere il tiro solo un anno più tardi, nel 2009, con l’istituzione formale dell’Anthropocene Working Group (AWG), un manipolo di esperti incaricati dalla Sottocommissione Internazionale di Stratigrafia Quaternaria di raccogliere evidenze al fine di determinare se l’Antropocene fosse una realtà accertata o, al contrario, lo si potesse escludere dal dibattito scientifico. Tuttavia, per Lewis e Maslin l’equivoco rimane: “l’Olocene potrebbe sopravvivere alla decisione di definire formalmente l’Antropocene? E quindi difendere l’Olocene porta a opporsi alla definizione formale dell’Antropocene?”. Le ultime trentatré epoche geologiche hanno una durata media diciassette milioni di anni, con un minimo di qualche milione. Dovesse essere fissato ufficialmente l’inizio della nuova epoca, l’Antropocene, i soli 11.650 anni dell’Olocene rappresenterebbero un’anomalia, un’eccezione senza precedenti nella scala dei tempi geologici.
Come lavorano i geologi
A differenza di quanto avvenne per l’Olocene, in genere le dispute geocronologiche sono lunghe e conflittuali, con la scala dei tempi geologici che rimane giocoforza sempre aperta alla scoperta di nuovi marcatori e dunque a possibili rettifiche, talvolta spiazzanti. Nel loro libro, Lewis e Maslin ci portano dentro la “storia nascosta dell’Antropocene”, il complesso meccanismo decisionale con cui la comunità scientifica arriva a deliberare l’adozione formale di una nuova epoca geologica, secondo un farraginoso processo a quattro stadi:
Nel primo, l’appropriata sottocommissione della Commissione internazionale di stratigrafia (ICS) nomina il presidente di un comitato, chiamato gruppo di lavoro. Nel secondo stadio, il presidente sceglie i membri del gruppo in modo da avere la competenza necessaria per produrre una proposta formale di cambiamento della scala geologica dei tempi. Nel terzo stadio, la proposta del gruppo di lavoro viene votata da tre comitati: il gruppo di lavoro stesso, la sottocommissione che l’ha istituito e l’ICS. Il quarto e ultimo stadio è la ratifica da parte dell’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS), di cui l’ICS è membro, che promuove la cooperazione internazionale nella geologia. […] A decidere la futura definizione dell’Antropocene saranno in totale i voti di un’ottantina di persone.
Finora i geologi hanno fatto un buon lavoro applicando sistematicamente i medesimi criteri a centinaia di milioni di anni, scrivono Lewis e Maslin, “ma quando si arriva al periodo e all’epoca finali che comprendono il nostro tempo questo sistema smette di funzionare”.
Nel 2015, con una dichiarazione collettiva pubblicata sul Quaternary International, l’AWG indicò quale data di inizio della nuova epoca il 16 luglio 1945, giorno in cui la detonazione a scopo dimostrativo del primo ordigno nucleare della storia sparse nel mondo dei radionuclidi mai visti prima di allora. Dopo meno di un anno, però, l’AWG pubblicò su Science una nuova dichiarazione collettiva con cui metteva in discussione la necessità stessa di una definizione formale dell’Antropocene. Sei mesi dopo ancora, ad agosto del 2016, l’AWG ritrattò nuovamente dichiarando che avrebbe dedicato gli anni successivi all’elaborazione di una proposta condivisa e perentoria. Gli anni sono passati, a maggio di quest’anno si è tenuta una votazione forse dirimente, e pare che presto l’AWG si pronuncerà presto, definitivamente, sulla nuova epoca geologica. Il presidente del Gruppo, il geologo del tempo profondo Jan Zalasiewicz, ha già annunciato che il prossimo 21 novembre terrà assieme alla storica dell’età moderna Julia Adeney Thomas una tandem lecture al Rachel Carson Center di Monaco, e in quell’occasione potrebbe presentare il suo “libro-verità” sull’epoca umana, The Anthropocene, in uscita per Polity Press.
Fissare un inizio
Pur non facendo parte dell’AWG ed essendo oramai ravvicinata la pronunciazione definitiva sull’Antropocene, in Il pianeta umano Lewis e Maslin suggeriscono un loro “schema in tre parti” (“l’unico pubblicato nella letteratura scientifica”) per il riconoscimento formale dell’Antropocene quale epoca geologica distinta dal precedente Olocene.
Primo: “esaminare le prove del fatto che l’attività umana ha iniziato a far cambiare lo stato della Terra”; secondo: “valutare se questo nuovo stato sia visibile nei depositi geologici”; terzo: “decidere quando avvenne il cambiamento nella transizione della Terra da uno stato preantropocenico a quello antropocenico”.
Passando al setaccio del loro metodo a tre stadi i possibili punti di rottura con l’Olocene – diffusione dell’agricoltura 10.000 anni fa, prima globalizzazione successiva al 1492, Rivoluzione industriale a metà Ottocento, “grande accelerazione” susseguente al 1950 o picco del fall-out nucleare nel 1964/65 – Lewis e Maslin suggeriscono di considerare come data d’inizio dell’Antropocene l’anno 1610. Nel secolo precedente, le malattie globalizzate dallo scambio colombiano che seguì la colonizzazione europea delle Americhe portarono alla morte di circa 50 milioni di nativi e al crollo delle attività agricole in tutto il Nuovo Mondo. Le foreste riconquistarono i terreni e i pascoli abbandonati nel giro di qualche decennio, arrivando a sequestrare dall’atmosfera la bellezza di 12 miliardi di tonnellate in più di anidride carbonica: la concentrazione di quest’ultima diminuì di circa 6 parti per milione, fino al valore minimo di 275 parti per milione del 1610, rilevato in una carota di ghiaccio di Law Dome, in Antartide.
A novembre la comunità scientifica potrebbe decidere di riconoscere formalmente l’Antropocene quale epoca geologica distinta dal precedente Olocene.
La diminuzione dell’anidride carbonica determinò a sua volta un raffreddamento della temperatura globale che coincise con la parte più fredda della cosiddetta “piccola era glaciale”, “l’ultimo periodo globalmente freddo prima del calore a lungo termine dell’Antropocene”. Il placido e temperato Olocene cominciò dunque con la fine dell’ultima, grande era glaciale; l’ignoto e surriscaldato Antropocene in corrispondenza della piccola era glaciale che precedette il mondo moderno.
Ma non si tratta di sole temperature: lo scambio di specie animali e vegetali tra il Nuovo e il Vecchio Mondo rappresentò anche il “momento cruciale dopo il quale i biota della Terra diventano globalmente sempre più omogenei, creando una nuova Pangea e quindi ponendo la Terra su una nuova traiettoria evolutiva”. Questo point-break storico ed ecologico, ricordano Lewis e Maslin, “è stato chiamato Orbis spike perché l’emisfero orientale e quello occidentale dell’umanità si riunirono dopo più di 12.000 anni di separazione e si creò un unico sistema economico mondiale globale (orbis in latino vuol dire mondo)”. In termini geologici, mezzo millennio di navigazione transoceanica e un secolo scarso di aviazione intercontinentale hanno annullato l’azione della tettonica a placche e omogeneizzato la diversità biologica della Terra, introducendo in ogni ecosistema possibile le specie alloctone e quelle domesticate per l’alimentazione umana. È come se avessimo riunito le terre emerse, “la tendenza opposta a quella che negli ultimi 200 milioni di anni ha portato alla separazione dei continenti”.
Riconosciuta la fondatezza scientifica dell’Antropocene e fissato il suo punto d’inizio in corrispondenza dell’Orbis spike, l’Olocene diventerebbe euristicamente superfluo, uno qualunque dei tanti interglaciali tipici. Per Lewis e Maslin le alternative logiche sono due: “eliminare del tutto l’epoca dell’Olocene dalla scala dei tempi geologici e usarlo come nome informale, oppure farlo retrocedere a livello inferiore – definirlo come un’età – all’interno della precedente epoca del Pleistocene. Nel secondo caso, lo chiameremmo Oloceniano, poiché tutte le età definite formalmente hanno il suffisso -iano”. Ma questo è solo un vezzo da scienziati, le conseguenze del riconoscimento formale dell’Antropocene e della sua data d’inizio non si fermano certo qui.
Immaginari dell’Antropocene
“Qualcuno potrebbe giudicare di scarso interesse scientifico questo dibattito sulla definizione dell’Antropocene”, riconoscono Lewis e Maslin. Il fatto è che il concetto di “epoca umana” ha oramai scavalcato gli steccati accademici che lo vorrebbero circoscritto alle tenzoni di geologi e stratigrafi, diventando terreno di incontro speculativo tra filosofi della scienza, storici del clima, giornalisti ambientali, artisti e attivisti. Dall’uso culturale che questi hanno fatto del concetto di Antropocene è scaturito un dibattito mai così fecondo sui cambiamenti climatici, sull’intreccio irrisolto e forse irrisolvibile tra natura e cultura.
Secondo Stanley Finney, presidente della Commissione Internazionale di Stratigrafia e acerrimo oppositore all’introduzione dell’Antropocene nella scala dei tempi geologici, tutto questo fermento non-specialistico intorno al concetto di Antropocene non dovrebbe interferire con le deliberazioni della comunità scientifica. L’ecologia politica, sostiene Finney, rimanga pure fuori dalle controversie scientifiche dei geologi.
Il concetto di epoca umana ha oramai scavalcato gli steccati scientifici diventando terreno di incontro speculativo tra filosofi della scienza, storici del clima, giornalisti ambientali, artisti e attivisti.
Per Lewis e Maslin è piuttosto vero che “gli scienziati non possono evitare la politica dell’Antropocene”, se non altro perché “la scelta della [sua] data di partenza alimenterà inevitabilmente le storie che narriamo di noi stessi e più in generale dello sviluppo umano”. Per esempio, “agganciare l’inizio dell’epoca umana agli impatti delle prime attività venatorie o agricole dell’umanità potrebbe essere usato politicamente per normalizzare il cambiamento ambientale”, che diventerebbe così una conseguenza ineluttabile della nostra presenza sulla Terra – inutile angustiarsi. Viceversa, optare per la “rottura recente” del fall-out radioattivo nel dopoguerra significherebbe accentuare quelle che Lewis e Maslin chiamano “trappole del progresso”: “quelle situazioni in cui il progresso della tecnologia verso un dato scopo – in questo caso, un’arma letale contro nemici – finisce per creare la possibilità di arrestare il progresso dell’umanità”.
Che storia ci racconta un’epoca umana cominciata nel 1610? Secondo i due autori de Il pianeta umano, “se l’Antropocene è associato allo scambio colombiano, alla morte di 50 milioni di persone e agli inizi del mondo moderno, allora è una storia profondamente imbarazzante di colonialismo e schiavismo”. Ma è anche la storia dell’ascesa del modo capitalistico di vivere e della rivoluzione scientifica: “l’emergere del metodo scientifico e l’idea di progresso sono strettamente legati al progetto europeo di colonizzazione – un nuovo tipo di impero – e al desiderio di un elevato rendimento degli investimenti”.
L’epoca moderna ebbe inizio con quella che Yuval Noah Harari, hapax legomenon dell’opera di Lewis e Maslin, definisce in Sapiens (2011) la “scoperta dell’ignoranza”: “pian piano diventò evidente che non tutta la conoscenza derivava dallo studio di antichi testi” ma che stava lì fuori, a portata delle capacità di comprensione degli esseri umani. Colonizzazione, sfruttamento delle risorse e studio scientifico del mondo si saldarono rapidamente insieme e divennero gli architravi di una nuova forma di organizzazione sociale, il capitalismo “mercantile”, divenuto poi “industriale” con lo sfruttamento dei combustibili fossili e infine “consumistico”, con la grande accelerazione del dopoguerra.
Secondo la proposta di Moore, l’Antropocene iniziò insieme al sistema-mondo moderno cinquecento anni fa, un sistema che dà priorità alla produttività, mentre la natura è considerata poco più di una materia prima.
Al centro del modo di vivere moderno, e dunque dell’Antropocene, convergono le spinte ad aumentare la produttività del lavoro, ad incrementare lo sfruttamento delle risorse naturali e la dominanza finanziaria, a potenziare oltre ogni misura la razionalità utilitaristica e strumentale che rende obsoleti tutti i modi tradizionali di vivere e pensare. Chiuse le dissertazioni scientifiche sull’Antropocene e sul suo possibile inizio, Lewis e Maslin si appoggiano a Capitalism in the Web of Life di Jason Moore (2015) per tracciare una loro teoria politica generale dell’epoca geologica in cui viviamo: “secondo la proposta di Moore, l’Antropocene iniziò insieme al sistema-mondo moderno cinquecento anni fa, quando un nuovo modo di organizzare le persone e la natura si diffuse in tutto il mondo. Questo nuovo sistema-mondo dà priorità alla produttività, mentre la natura è considerata poco più di una materia prima”. Possibile che questo modo di vivere e pensare, vecchio ormai di cinque secoli, possa durare ancora a lungo?
Come batteri in una piastra di Petri
Per descrivere quel che accade a una specie che cresce infinitamente in un ambiente finito Lewis e Maslin scelgono la metafora dei batteri in una piastra di Petri: “si moltiplicano fino a consumare le risorse disponibili e poi muoiono quasi tutti”. Tutto sembra andare per il meglio ma poi, all’improvviso, il meccanismo della crescita si arresta e implode, e questo vale anche per gli esseri umani. Come racconta Jared Diamond in Collasso (2005), molte civiltà del passato – rapanui, anasazi, maya, vichinghi – sono crollate immediatamente dopo aver raggiunto l’apice del loro sviluppo. Che cosa succederà a noi, figli dell’Antropocene? Siamo come batteri in una piastra di Petri oppure il nostro attuale modo di vivere verrà soppiantato da qualcosa di nuovo?
Oggi l’economia ha un tempo di raddoppiamento di circa 23 anni, con un tasso di aumento del 3 per cento annuo. Quanti futuri raddoppiamenti sono possibili è una questione aperta, ma di certo si presenteranno problemi e, quando accadrà, ci coglieranno di sorpresa. Il tempo sembrerà accelerare.
Secondo Lewis e Maslin, i cambiamenti del modo di vivere sono rari. “Stando a quanto è avvenuto in passato, […] sono più probabili quando si instaurano circuiti di feedback positivo, associati a nuove forme di energia, a nuove informazioni e a una maggiore agentività umana collettiva”. Risalendo la storia dell’umanità fino all’Antropocene, i due autori de Il pianeta umano individuano quattro transizioni principali, due legate alle forme d’uso dell’energia e due alla scala dell’organizzazione sociale, che modificarono in modo fondamentale sia le società umane sia il loro impatto sul pianeta Terra: la cattura di una quantità maggiore di energia solare con l’invenzione dell’agricoltura, la “globalizzazione 1.0” del modo capitalistico di vivere, l’impiego dei combustibili fossili nella rivoluzione industriale e la “globalizzazione 2.0” della grande accelerazione. Nel corso di questo “two-step doppio” dello sviluppo umano si sono avvicendati cinque diversi idealtipi di società, dall’impronta ecologica crescente: società di caccia e raccolta, società agricole, capitalistiche mercantili, capitalistiche industriali e capitalistiche consumistiche. “Quanti altri stati esistano oltre a questi non è noto”.
Quel che è certo, però, è che “una volta costruito un circuito di feedback positivo, non si torna più indietro”, e che “ogni nuovo modo [di vivere] dura meno del precedente”. Le comunità ancestrali di caccia e raccolta hanno abitato la Terra per milioni di anni, quelle agricole per decine di migliaia, il capitalismo ha solo mezzo millennio di vita e tuttavia potrebbe non traguardare la fine del Ventunesimo secolo. Guardando al futuro, il nostro attuale modo di vivere basato sulla crescita infinita sembra il meno probabile. Ma cosa seguirà?
Per alcuni siamo davvero come batteri in una piastra di Petri, decretati al collasso e alla regressione a forme più sostenibili di organizzazione sociale, come la vita agricola e organica del periodo preantropocenico. Per altri, invece, l’Antropocene rappresenta la vertiginosa opportunità di un definitivo controllo antropico dei regimi ambientali e climatici, magari per mezzo della geoingegneria, che attende soltanto di essere scatenata. “Forse la nostra specie”, scrivono Lewis e Maslin citando di nuovo Harari, “è diventata una “specie divina”, Homo deus, capace di utilizzare in modo intelligente tecnologie che risolvono i nostri problemi”. Sarà davvero così? Ci ergeremo al rango di eoni o finiremo soltanto per salvare il mondo distruggendolo in modo diverso, sostituendo un disastro con uno ancora più grande?
La cauta risposta di Lewis e Maslin è che noi non siamo come batteri in una piastra di Petri: in fondo, il nostro potere è riflessivo, siamo saggi abbastanza da “non continua[re] a crescere fino all’esaurimento delle risorse alimentari o di qualche altro fattore limitante”. Nelle ultime pagine del loro libro, i due si limitano a constatare che i fattori determinanti lo stato di una società – energia utilizzata, quantità di informazioni e agentività collettiva – sembrano essere in aumento, “suggerendo una potenziale quinta transizione a un sesto modo di vivere”. Costo delle energie rinnovabili in rapida diminuzione, aumento esponenziale delle reti di connessione, progressi entusiasmanti nel campo dell’automazione: tutto sembra disporsi verso una nuova forma di organizzazione sociale. Questa dipenderà da quale storia sull’Antropocene riuscirà a imporsi nei prossimi anni, da quale immaginario sceglieremo di adottare contro la fine del mondo.
Da storie diverse derivano visioni del mondo diverse e quindi linee di azione alternative. Appena l’Antropocene sarà definito, inizierà a svilupparsi una narrazione. A seconda della definizione scelta, sarà naturale giudicare adeguate alla crisi ambientale che ci troviamo ad affrontare alcune soluzioni e non altre.
È una battaglia aperta, immensa, capitale. Formalizzato l’ingresso dell’epoca umana nella scala dei tempi geologici, non ci troveremo a scrivere d’altro che di storie su come viverci dentro e, più in là, su come provare ad uscirne.
Tutte le immagini sono tratte dal progetto Images of Change della NASA. 1. Il lago Aculeo, in Cile, nel 2014 e nel 2019 2. L’isola di East Island, scomparsa dopo l’uragano Walaka, nell’ottobre 2018 3. Il ghiacciaio sopra il vulcano Ok, in Islanda, nel 1986 e nel 2019. 4. La crescita del porto di Busan, in Corea del Sud, tra 1988 e 2017.