La ricerca storica, la geografia, la scienza della musica antica in una conversazione con Jordi Savall, musicista, violista e direttore d’orchestra.
Giancarlo Cinini è nato a Brescia nel 1991. Si è occupato di linguistica
e ha scritto per La balena bianca, Scienza in rete, Deckard e altre
riviste online, collabora con Galileo, Giornale di scienza e problemi globali.
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ordi Savall è un cercatore. Se seguiamo la sua ricerca come fosse quella di un archeologo, possiamo disegnare una mappa della memoria musicale, una mappa di musiche antiche e di testi dimenticati. Basta prendere alcuni punti a caso da questa mappa per farne una specie di scaletta musicale: una gagliarda per ballare nel Rinascimento, un lamento, una musica araba-andalusa, un’ode all’Armenia, un canto di pellegrini in catalano, un’elegia serba, e una danza che si chiama follia e che si diffonde nel vecchio mondo. La mappa è profonda nel tempo.
Cosa resta di quella memoria che innervava l’Europa e il vicino Oriente e che circolava attraverso il Mediterraneo? Jordi Savall ci ha lavorato nell’arco della sua carriera decennale: con la viola da gamba e alla direzione di diversi ensemble è diventato un punto di riferimento nella riscoperta della musica antica, si è dedicato con intento filologico anche ad autori colti del rinascimento, del barocco, e classici fino a Beethoven, ricercando suono e strumenti dell’epoca.
Soprattutto ha squadernato i manoscritti conservati nelle biblioteche. Come nel caso del Llibre Vermell de Montserrat, un manoscritto anonimo del XIV secolo dalla copertina di velluto rossa che si trova nel monastero di Montserrat, meta di pellegrinaggi medievali. Nel tempo il manoscritto ha perso diverse pagine ed è scampato a due incendi delle truppe napoleoniche, ma sette dei suoi fogli conservano ancora canti e danze medievali. Oppure la storia del Kitab-i ilm-i musiki, Il libro della scienza della musica, una raccolta di 355 musiche di area ottomana. A scriverlo nel Settecento fu un intellettuale eclettico, Dimitrie Cantemir, principe moldavo, vassallo del sultano, orientalista e musicista che per primo raccolse le composizioni turche, armene, sefardite.
Savall è un cercatore. Se seguiamo la sua ricerca come fosse quella di un archeologo, possiamo disegnare una mappa della memoria musicale, una mappa di musiche antiche e di testi dimenticati.
Nel senso della ricerca di Savall c’è anche questa fascinazione geografica: ripercorrere viaggi e riattraversare luoghi, evocandone la storia e i contatti ma soprattutto gli immaginari insepolti. Questo fanno diversi album: Mare Adriaticum, per esempio, traccia una rotta musicale da Venezia verso Istanbul mentre in Route de l’esclavage la rotta è quella delle musiche che viaggiano dall’Africa con gli schiavi. La mappa della memoria musicale si allarga allo spirito dei Balcani o alle follie che raggiungono il Nuovo Mondo, si incrociano con i ritmi amerindiani e diventano creole, come in questo esempio.
Riportate in atto oggi quei ritmi e quelle melodie non sembrano così lontani, il loro suono diventa contemporaneo. E infatti, parte di quella mappa è ancora viva e tramandata nel vicino Oriente. Perciò quando la diaspora siriana, dopo la guerra civile, minacciava di disperderne anche la memoria siriana orale, Savall ha suonato dentro Calais e fondato un progetto, Orpheus XXI, per reclutare musicisti professionisti profughi e giovani e formare un’orchestra dove il lavorio della memoria musicale potesse continuare. Incontro Savall una mattina a Cremona. Ha quasi 81 anni, lo sguardo serafico, beve il suo tè e ordina per me un caffè.
Nel suo percorso musicale ha dato nuova vita a manoscritti e testi di musica antica; però normalmente pensiamo alla musica del passato, che chiamiamo classica, come qualcosa di già stabilito, canonizzato. Qual è il lavoro di ricerca che fa, dal momento della scoperta o riscoperta di un testo?
Ho seguito lo stesso processo di ricerca sia con la musica medievale che con Beethoven. Si tratta di ritornare alle fonti originali, rimettere tutto in questione e pensare a com’era la musica, quali i tempi, eccetera. Sono abituato così a cercare questi manoscritti e poi cercare le informazioni sulla storia di quel momento, sugli strumenti, sulla pratica musicale, per sapere come si utilizzava l’archetto delle viole, quali abbellimenti musicali si facevano, quali erano le formazioni musicali. E con questi elementi – molti di più di quelli che elenco – ci si può fare un’idea di com’era quella musica. Alla fine ci si rende conto così che quello che permette di fare un’interpretazione, diciamo, più prossima possibile a quello che il compositore ha pensato è lasciar parlare la musica secondo l’originale, il manoscritto o lo stampato. Questo è il punto di collegamento tra noi e il compositore. E – dico sempre – quando si fa un’edizione moderna questa è già un’interpretazione del tutto. Un’edizione moderna deve decidere per esempio se tra più note c’è una legatura [raggruppa più note in una frase musicale, in un solo respiro] o quattro o tre o due; fissa una legatura precisa. Nel manoscritto invece questa può essere indicata in una maniera tale che non si sa decidere cosa vuole il compositore. Perciò il testo resta sempre aperto a un cambiamento di interpretazione, mentre l’edizione moderna fissa. D’altra parte nella partitura ci possono essere segni di articolazione oppure crescendo che sono indicati in una forma che per forza non può essere così precisa ma vedendo l’autografo ne si intende meglio il senso. Per tutte queste ragioni l’interpretazione è sempre il risultato della comprensione della vita dell’epoca, della filosofia dell’epoca, della funzione della musica, della vita del compositore. Perché la nostra sensibilità è molto diversa da quelle epoche e l’unico modo per entrare in contatto è conoscere profondamente tutte quelle cose che sono in relazione con la vita umana, sia parlando in senso stretto di interpretazione sia a proposito di funzione della musica stessa: a cosa serviva, chi la faceva, quando e come. Cose che ci permettono di entrare nella musica, allora la musica ci parla e siamo coinvolti in una filosofia della storia, un processo dove la musica può essere libera.
È un lavoro da filologo?
Certo. Ogni percorso che ho fatto è cominciato dalla biblioteca nazionale di Parigi, dalla biblioteca del British Museum, dalla Royale di Bruxelles, e poi a Bologna, a Madrid, a Barcellona. Prendevo i microfilm di ciò che volevo studiare, li portavo a casa e li leggevo con la macchina o li stampavo e poi lavoravo. Lavoro molto nelle biblioteche per conoscere il repertorio dimenticato, che siano le Cantigas de Santa Maria o il Codex Las Huelgas, il Llibre vermell de Montserrat,i Cancioneros, ma anche Monteverdi. Tutte queste musiche che sono di cultura scritta. Ma accanto a ciò, da più di quarant’anni lavoro molto sulla ricerca della tradizione orale: le musiche sefardite, le musiche di al-Andalus, la musica popolare dell’Armenia, della Grecia, persino celtica. La musica scritta, la musica classica, è una piccola parte, la parte del potere: è il repertorio favorito dal potere politico e religioso. Se non facciamo il resto, dimentichiamo la musica dei popoli, di tradizione orale, le musiche che hanno permesso all’essere umano di vivere i drammi quotidiani.
Quando ascolto i suoi lavori, viene sempre l’impressione che si tratti anzitutto di tragitti o di luoghi. Luoghi nel tempo, come Gerusalemme o Istanbul, e esplorazioni geografiche, come gli intrecci musicali del Mediterraneo o le rotte verso il Nuovo Mondo. Voglio capire qual è il rapporto tra la sua ricerca musicale e i luoghi.
L’evoluzione del linguaggio musicale viene determinato dalle diverse culture e le culture sono marcate dal contesto storico di un luogo. Per esempio la Spagna prima del 1492 [anno del decreto dell’Alhambra, col quale i re cattolici di Spagna espulsero gli ebrei] è diversa da quella dopo il 1492. Prima è multiculturale, c’è la cultura araba, quella ebraica e la cristiana. Poi diventa monocromatica. Quando ho cominciato a fare musica del medioevo mi sono domandato perché la musica antica fosse così diversa dalla musica classica. E, facendo musica con musicisti orientali, ho colto subito il rapporto essenziale che c’è tra le musiche del medioevo europeo e quelle orientali: parlano lo stesso linguaggio. Perciò, al di là dello studiare il repertorio classico europeo, ho sentito il desiderio di andare ad ascoltare cosa fanno quei musicisti oggi e così di andare a Gerusalemme, poi nei Balcani, a Istanbul, a vedere come questi rapporti di musica si siano evoluti. È la musica di un mondo molto più ricco di quello che abbiamo oggi e questo è affascinante.
La musica della millenaria Venezia si svolge in parallelo a quella ottomana e a quella ortodossa. Oppure, per esempio, cogliendo l’importanza degli armeni nella storia culturale europea, uno cerca di capire anche cos’è la musica armena. E così ho sentito il bisogno di esplorarla e di comprendere perché la musica armena e, d’altro lato, la musica celtica siano così diverse dalle nostre musiche. Sono come mondi paralleli che hanno sviluppato un linguaggio alle volte popolare e raffinato, che guarda al legame con le radici dell’uomo nel luogo e questo dà loro un senso anche metafisico. Questa è stata per me la scoperta più interessante: la relazione tra le musiche armene, celtiche e pure sefardite è che vengono dal dolore di quei popoli. Sono tutte culture travagliate che hanno attraversato la vita con sofferenza e hanno avuto bisogno della musica come balsamo. Non hai abbastanza da mangiare, non hai lavoro, e la musica compensa questa sofferenza. Ma questo vale in realtà anche per le culture popolari del medioevo e del rinascimento: la gente semplice senza la musica non avrebbe potuto sopravvivere. Per questo cantavano e facevano musica. Se leggi il Don Chisciotte, lì tutti i villaggi, tutta la gente, fa musica e canta, era la forma di compensare la disgrazia continua che vivevano.
C’è anche una volontà da parte sua di immaginarsi altrove. Ascoltando queste musiche in effetti ci si trova in un altro luogo.
Questo lo dice Elias Canetti in La provincia dell’uomo. Scrive: la musica è la vera storia vivente dell’umanità. Quando sentiamo una canzone del medioevo o del rinascimento, stiamo vivendo l’emozione che viveva la gente di quell’epoca, perché l’emozione non è cambiata, ha solo cambiato forme; ma amare, odiare, ridere, è sempre lo stesso. Dunque la musica ci fa viaggiare al punto dove è stata creata.
Tra queste geografie, possiamo riconoscere un bacino di memoria musicale comune nel Mediterraneo?
Certo, le radici del Mediterraneo vengono da epoche molto antiche, dal contatto culturale ed economico, dalle migrazioni delle diverse culture che arrivano, viaggiano, portano merci, e la musica viaggia con loro. C’è una melodia che in greco si chiama Apo Xeno Meros ma che si canta dappertutto in lingue diverse. Questo è un esempio di contatto, che ci mostra la musica come linguaggio comune. Probabilmente all’inizio un linguaggio spirituale: sono canti spirituali che si cantavano dappertutto e che si imitavano e diventavano la base per evoluzioni successive, un po’ come il diritto romano che diventa una base comune europea. Le melodie vanno dappertutto: un greco la canta, un turco la imita e ci mette il suo testo; la musica è la stessa ma il testo è diverso e oggi litigano su chi è stato il primo.
Per di più, il diritto romano viene riordinato tra occidente e oriente, a Costantinopoli con Giustiniano. Poi Costantinopoli diventa turca, centro della sublime porta ottomana. E c’è una stagione in cui in Europa si diffondono le turcherie. Lì in mezzo c’è anche la Marche pour la cérémonie des turcsche il compositore Lully scrive nel 1670 per Il borghese gentiluomo di Molière e un secolo dopo Alla turca di Mozart. Viene in mente Orientalismodi Edward Said: possiamo leggere la fascinazione per l’oriente anche dentro la musica?
Assolutamente. Penso che il fascino per le altre culture sia stata una costante soprattutto per la cultura delle classi dominanti. Era una forma di divertimento, di contrasto e probabilmente anche di ricercare e di capire. Ma, certo, la visione che avevano era la loro visione, guardano all’oriente e lo trasformano nel loro linguaggio. Ci sono degli elementi turchi tanto nella marcia di Lully come in Mozart, ma trasformati alla nostra maniera. D’altro canto, ho interpretato molti maqam turchi dell’epoca di Lully e anche lì ci sono delle cose in comune. Al contrario in questo caso le cose in comune, curiosamente, arrivano dal fatto che alcuni musicisti francesi un secolo prima erano andati a Istanbul col re Francesco di Francia e là erano rimasti, avevano lasciato la loro impronta musicale e dei musicisti turchi avevano ripreso quei ritmi. I contatti sono là.
Là c’è anche la storia di Dimitri Cantemir, il principe, intellettuale e musicista, un centauro che nel Settecento
Il libro della scienza della musica.
Esatto.
In quel libro, che lei ha interpretato, Cantemir raccoglie molte musiche dell’area ottomana del XVI e XVII secolo. Quando invece abbiamo cominciato a raccogliere musica strumentale in Europa e a scrivere le musiche popolari?
Prima del Trecento non c’è musica strumentale scritta: si fa a partire da canzoni e si inventano le danze. Ma poi comincia a emergere un linguaggio strumentale che diventa indipendente dal linguaggio vocale e di questo l’esempio più chiaro sono tutte le danze del Trecento italiano: istampitta, ductia e anche dei lamenti strumentali. Tuttavia il momento di cambiamento sono i primi cinquant’anni del Cinquecento. Il violista Diego Ortiz, per esempio, scrive il Tratado deglossas e dà qualche esempio di recercadas. E cosa scrive? “Questi esempi saranno sufficienti per capire come ognuno deve procedere”. Insomma elenca degli esempi per dire: è così che si fa. Era un metodo di lavoro per i musicisti. Usi quel modello ma poi fai la tua improvvisazione.
Ecco, l’improvvisazione è una cosa che incuriosisce e che non ci si immagina della musica antica o barocca. Però anche in una sera del 1747 Federico II di Prussia inventa un tema al flauto e chiede a Bach di improvvisarci sopra. Nasce così L’offerta musicale. Che ruolo gioca l’improvvisazione in quella musica e quando la suonate voi sul palco?
Ci sono diversi momenti di improvvisazione nella programmazione che suoniamo. Quando c’è un’opera composta, la si interpreta ma all’interno ci sono momenti in cui si improvvisano cadenze, ornamenti, passaggi. Poi ci sono pezzi come la gallarda napolitana, i canarios, le follie nei quali la maggior parte degli ornamenti suonati sono improvvisati. Per esempio nel concerto di stasera a Cremona, su musiche del rinascimento e del barocco, l’accompagnamento di arpa e chitarra è tutto improvvisato. Hanno una linea di basso e su quel basso improvvisano tutto il tempo.
È questo che dà alla musica antica una modernità, perché è una musica che nasce nella spontaneità e creativa; e ciò affascina anche il pubblico non abituato, che sente quella freschezza. Però fino a Beethoven, a Brahms, tutti i musicisti improvvisavano preludi e fughe: l’improvvisazione era molto viva. Ancora oggi i buoni organisti improvvisano. Poi però l’improvvisazione nel mondo della musica classica è finita definitivamente con l’invenzione della dodecafonia, nel momento in cui si annullano tutte le influenze locali e si crea un linguaggio astratto e universale, uguale all’esperanto. Curioso che, tra l’altro, l’esperanto si diffonda nella stessa epoca della dodecafonia, con la differenza che dell’esperanto non c’è nessun scrittore di genio, invece nella dodecafonia abbiamo Alan Berg e Schoenberg.
Un’altra storia dalle geografie complesse è quella della follia, un tema musicale e un giro armonico che si diffonde in Europa, una specie di standard che viene ripreso da molti compositori, e addirittura segue i colonizzatori e si interseca con le musiche amerindiane. Da dove arriva?
Il tema della follia è del tutto popolare. Le prime follie che troviamo sono delle canzoni di pastori che giocavano con la musica, canzoni che raccontano dell’occuparsi quotidiano delle capre e scherzano confondendo capre e ragazze, cose veramente umoristiche e popolari. È in un canzoniere spagnolo anonimo della fine del XV secolo che appare per la prima volta, con un canto che si chiama Rodrigo Martinez. Era musica viva e facilmente memorizzabile perché la melodia sintetizza la scala
[canta]
e il basso descrive gli accordi più importanti dell’armonia. Chi l’ha trovata era un genio. Questa base è l’ideale per improvvisare e infatti arriva fino a Mozart, fino a Liszt. Nel 1815 Salieri fa una splendida invenzione sulla follia. Insomma, è facilmente memorizzabile ed è la base per l’improvvisazione.
Riportando in atto quelle musiche, tra tradizioni orali e improvvisazione e testi magari parziali, c’è anche una forma di nuova creazione?
La musica si ricrea sempre e, a seconda delle epoche, ci sono elementi che devi inventare. Se fai un requiem di Brahms, tutto è scritto. Se fai un requiem del medioevo, devi immaginare molte cose perché hai semplicemente una melodia e tutto il resto lo devi fare con l’interpretazione: quanti cantanti, cosa fanno gli strumenti, e così via. Più vai indietro più gli elementi base sono sottili. Ma si faceva musica lo stesso. Oggi ti trovi di fronte a una partitura a 5 voci di Francisco Guerrero, compositore del Cinquecento. Ma quando si faceva a Siviglia, nella sua epoca, lui scrive rivolto agli strumentisti che suonavano il cornetto, la ciaramella: È proibito che improvvisiate tutti insieme. Almeno uno deve suonare le note scritte! Allora, immagina come doveva suonare con cinque strumenti che improvvisavano assieme! [canta]
Quando studiavo, ero nell’orchestra dell’università, nel coro. Capitava di fare molte prove per un solo concerto finale, un lungo esercizio di memoria per una manciata di minuti: e allora mi sembrava di stare a cavallo e, come raramente, di essere esattamente lì e non altrove. Mi viene in mente Lévi-Strauss che in Il cotto e il crudo scrive: “tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo”.
In un certo senso la musica non dipende dal tempo. Nel senso: noi parliamo ora di musica antica ma per me è un termine inappropriato. Io parlerei di manoscritti antichi. Perché la musica è sempre attuale, la musica viva esiste solamente nel momento che cantiamo e suoniamo. E se tu interpreti oggi un’opera di Josquin [compositore del Cinquecento], stai facendo musica oggi e questo corrisponde a quel sentimento che tu avevi. L’atto di cantare qualsiasi musica è un atto sempre attuale, contemporaneo. È come si fa in teatro: non ha senso parlare di teatro antico parlando di Shakespeare, e anche il teatro dei greci, se lo si mette in atto diventa moderno.
Oggi si parla di ecologia in molti sensi. Ha mai pensato al suo lavoro come anche a un lavoro di ecologia musicale?
[Ride] In una certa forma sì. Per esempio ritrovare l’orchestra di Beethoven, della sua epoca, recuperare i suoni originali degli strumenti, i legni, i metalli, le colle, la formazione molto più piccola, è una forma di ecologia perché si tratta di ritrovare il gusto esatto di quello che si sta creando. E poi recuperare il coinvolgimento di ogni musicista in quel lavoro, in quanto musicista e non come massa, è una forma di ecologia. Fare musica è implicarsi assieme non come una massa omogenea ma con masse diverse. E in più non bisogna dimenticare che nei paesi dove la cultura musicale è basata sulla trasmissione orale, i musicisti sono come biblioteche viventi, ogni persona è un archivio di cose, cose che esistono nella loro memoria e se queste cose non sono protette spariranno.