A dagiati sugli scaffali, riposti nei cassetti, avvolti negli imballi e nelle teche delle più varie tipologie, riposano miliardi di oggetti. Cose inanimate, non di rado impolverate, nelle pieghe delle quali, però, è scritto il mistero di ciò che è stata la loro vita: un racconto infinito, in grandissima parte non ancora decifrato, da cui potrebbe dipendere la nostra, di vita.
Ciò che si trova nei musei di storia naturale di tutto il mondo è, anche, una cronaca biologica: la storia di come i più diversi esseri viventi hanno vissuto nei secoli, adattandosi alle trasformazioni naturali e a quelle antropiche, resistendovi, oppure, viceversa, soccombendo di fronte a sfide che non erano attrezzati ad affrontare. Analizzando, studiando e decrittando tutti i segreti di ognuno di quei reperti, che si stima siano circa 2,2 miliardi in tutto il mondo, raccolti nei musei negli ultimi 300 anni, si potrebbero capire meglio quali sono state le conseguenze qualche catastrofe naturale che ancora conosciamo poco, o di qualche situazione climatica ostile, di una pandemia dimenticata, di un avvelenamento di massa, di una carestia, dell’impatto di un meteorite, e da lì si potrebbero cercare soluzioni per ciò che accade oggi, potendo contare su elementi concreti, su dati.
Ciò che si trova nei musei di storia naturale di tutto il mondo è, anche, una cronaca biologica: la storia di come i più diversi esseri viventi hanno vissuto nei secoli, adattandosi alle trasformazioni naturali e a quelle antropiche.
Già, ma come ci si orienta tra le informazioni che riposano nei sotterranei dei musei, tra reperti diversissimi tra di loro, raccolti nell’arco di secoli, con metodologie anch’esse le più disparate e fino a poco tempo fa finalizzate per lo più agli aspetti morfologici dei reperti, e non alla preservazione dei materiali biologici come il DNA? Il primo passo è ovviamente conoscere, oggetto per oggetto, tutto quello che c’è, e inserirlo in catalogo che abbia un senso, con categorie che siano il più possibile omogenee. È questo il punto di partenza ineludibile, senza il quale nessuna indagine è destinata a varcare la soglia del singolo edificio, o a fornire contributi realmente incisivi. Ed è questa l’idea che sottende il grande progetto avviato da tre dei più importanti musei di storia naturale del mondo: lo Smithsonian’s National Museum of Natural History di Washington D.C., l’American Museum of Natural History di New York e il Natural History Museum di Londra, che hanno chiamato a raccolta tutti i loro omologhi per la prima tappa della realizzazione del Grande Archivio Globale: il censimento. All’appello hanno risposto in tanti: 73 tra le principali istituzioni museali di 28 paesi, governate da 150 direttori e tenute in vita da oltre 4.500 membri del personale (ricercatori, conservatori e addetti di vario tipo) e da quasi altrettanti volontari, che hanno già inserito i dati di un numero strabiliante di reperti: 1,1 miliardi di cose.
L’impresa, illustrata in un articolo di Science, ha coinvolto anche l’Italia, Paese che, per motivi storici, non è tra i primi nel settore. Il fatto che l’unità nazionale sia stata raggiunta solo nel Diciannovesimo secolo ha un suo peso, così come il fatto che l’Italia non sia mai stata una potenza coloniale: gran parte di queste collezioni, infatti, venne costituita durante il colonialismo (e per questo da qualche anno si discute di come decolonizzare sia i musei sia, in senso più ampio, la ricerca scientifica). In Italia non esiste un museo naturale nazionale ma tanti musei nati in circostanze e periodi diversi, che ancora oggi risentono di una confusione organizzativa che li penalizza. Tuttavia i musei italiani, dai più grandi a quelli minuscoli, nascondono spesso autentiche gemme, tesori di inestimabile valore che finalmente potrebbero venire alla luce, ed essere disponibili per chiunque voglia studiarli.
Ad aderire al programma, da noi, è stato per ora solo il museo di Firenze, considerato il più importante d’Italia: il primo al mondo ad aprire le porte al pubblico, nel 1775, per iniziativa di Leopoldo di Lorena, e che ha avuto tra i suoi frequentatori Galileo e Leonardo. Il Tascabile ha chiesto a Stefano Dominici, curatore dell’area di geologia e paleontologia e responsabile del progetto, di raccontare come è nato il coinvolgimento del museo, con quali motivazioni, a che punto è l’inserimento dei dati e quali potrebbero essere gli sviluppi. “Abbiamo risposto subito con entusiasmo”, racconta Dominici, “perché l’importanza di una sistematizzazione di questo tipo è evidente: il nostro museo, che ospita tra gli otto e i dieci milioni di reperti in cinque sedi, ha enormi potenzialità, e potrebbe contribuire in misura rilevante, soprattutto in alcuni ambiti. Inoltre, la digitalizzazione di ciò che vi è contenuto è circa del 15%, e noi stessi non conosciamo tutto quello che c’è negli archivi: aderire a un’iniziativa del genere costituisce una spinta formidabile ad accelerare nella catalogazione, secondo criteri omogenei e condivisi con i musei più importanti del mondo”.
La piattaforma in cui anche gli addetti al museo fiorentino stanno inserendo i dati copre sedici aree geografiche di tutto il pianeta, e prevede diciannove aree tematiche, con una sottocategorizzazione in oltre 300 diverse classi, nelle quali i conservatori e i ricercatori fiorentini hanno già inserito il 75% di ciò che è presente, dalla botanica (tra gli otto milioni di fogli di erbari del museo fiorentino ve ne sono alcuni considerati tra i più antichi al mondo) alla zoologia, dall’antropologia alla geologia, e così via. Questo materiale, una volta analizzato, potrebbe permettere di effettuare studi soprattutto genetici, andando a comporre un quadro che, nel loro insieme, i coordinatori dello Smithsonian hanno definito, con una crasi, museomica. “Analizzare il profilo genetico dei reperti presenti nei musei (da qui il nome) oggi è più facile ed economico, e può essere fatto su campioni anche molto degradati, inutilizzabili fino a pochi anni fa”, spiega Dominici. “Basterebbero le potenzialità di questo tipo di indagini a spiegare perché è necessario aderire”. Nei geni e nelle loro mutazioni si possono leggere l’evoluzione e la storia sociale e quella sanitaria delle popolazioni, continua il curatore, e si possono scoprire geni utili per contrastare gli effetti della crisi climatica, o affrontare meglio la presenza dei patogeni, nel pieno rispetto del protocollo di Nagoya, l’accordo internazionale per la condivisione dei dati genetici nato nel 2010 con l’obbiettivo della tutela della biodiversità, cui hanno aderito 137 entità quali stati e unioni di stati come quella europea.
Che cosa questo possa significare lo illustra una crisi che non ci siamo ancora lasciati alle spalle: quella del COVID. Com’è noto, sull’origine di Sars-CoV 2 non ci sono ancora certezze assolute, e per questo due iniziative simili al progetto dello Smithsonian, ma esclusivamente europee, il CETAF (Consortium of European Taxonomic facilities, che riunisce 71 musei) e il DiSSCo (Distributed System of Scientific Collections), hanno coinvolto nove istituzioni museali nella decodifica dei genomi di 20.000 campioni di pipistrelli presenti nelle loro teche e raccolti in più di cento anni di spedizioni. I reperti potrebbero consentire di tracciare una mappa delle migrazioni, delle distanze tra questi mammiferi e gli insediamenti umani, degli animali-serbatoio, del progressivo trasferimento dei diversi coronavirus e, infine, degli spillover avvenuti nei secoli.
Questo tipo di conoscenza custodita nei musei è poi assolutamente cruciale per la tutela della biodiversità ed per eventuali operazioni di reintroduzione: si pensi, per esempio, agli incendi che hanno coinvolto l’Australia nel 2019 e 2020: solo confrontando ciò che è rimasto con i reperti di ciò che era presente è possibile oggi capire e monitorare la perdita di biodiversità, e da lì cercare di contrastare l’effetto di quella devastazione. O ancora: sempre grazie alle indagini sui campioni di zanzare del museo londinese è stato possibile dimostrare che i vettori della malaria endemici nella zona del Sahel, a causa delle condizioni climatiche sempre più sfavorevoli, si stanno spostando, e stanno conquistando areali sempre più vasti, così come hanno fatto le zanzare che veicolano zika e chikungunya, giunti ai Caraibi e in America Latina solo di recente, insieme alla febbre gialla.
Il lavoro dei musei è anche un lavoro politico, oltre che di conoscenza, ricerca e conservazione.
Ma lo studio di ciò che un museo ha accumulato nel tempo racconta anche molto altro. Lo spiega un bel libro appena pubblicato dall’antropologo della London School of Economics Adam Kuper, The Museum of Other People. Kuper spiega come i musei – soprattutto quelli antropologici ed entografici, ma anche quelli naturalistici–, istituiti nell’epoca coloniale (tra i quali lo stesso Smithsonian) riflettano ancora oggi, in molti casi, un’impostazione non più attuale, e debbano essere profondamente ripensati. Ancora Dominici: “Il tipo di reperti presenti nei musei più antichi è anche il riflesso del tipo di Stato che lo ha finanziato e mantenuto. Si pensi, per esempio, al dibattito in corso sulla restituzione dei beni antropologici ed etnografici (oltreché, naturalmente, artistici) sottratti nelle colonie dai paesi conquistatori: negli ultimi anni, paesi come India, Brasile e Australia hanno avviato complesse trattative per avere indietro beni che sono tasselli fondamentali della loro storia e dell’identità nazionale”. Nelle speranze di molti, il censimento dovrebbe aiutare anche da questo punto di vista, e cioè a trovare un maggiore equilibrio, aprendo un canale di collaborazione internazionale.
Il processo di rientro presuppone però che i reperti da restituire trovino strutture adeguate e personale formato. A tale scopo musei come quello di Firenze o il Museo delle Scienze di Trento hanno lanciato programmi di collaborazione con singoli paesi (nel caso specifico il Vietnam e la Tanzania, rispettivamente), per accompagnare questi processi, rendere possibile una digitalizzazione adeguata e favorire il varo di leggi che agevolino la conservazione, lo studio e lo scambio.
Ma le questioni problematiche non finiscono qui. L’imminente messa all’asta, in Svizzera, dello scheletro del Tyrannosaurus rexchiamato Trinity, vecchio di 67 milioni di anni (in realtà costituito dalle ossa di tre T. rextrovati tra Montana e Wyoming tra 2008 il e il 2013), ha acceso un altro dibattito: lo scheletro rischia di finire in mani private (valore stimato tra i 5,5 e gli 8,8 milioni di dollari). È giusto vendere simili reperti? Non sarebbe invece necessario conservarli in istituzioni pubbliche che ne assicurino la fruizione a tutti (oltreché la possibilità di compiere studi)?
Il lavoro dei musei e di progetti come quello dello Smithsonian diventa così anche politico. Spiega Dominici: “Mantenere i reperti in condizioni ideali costa, e richiede molto personale, ma non sempre i governi ne sono consapevoli. Aumentare la visibilità e sostenere le ricerche che partono da ciò che è conservato può aiutare a migliorare la situazione, soprattutto in paesi come il nostro che non hanno un museo nazionale, ma diverse realtà grandi e piccole, con una dispersione e un carico burocratico che di certo non agevolano il lavoro”.
Che i musei meritino un approccio diverso, e maggiore attenzione, lo dimostra anche la storia della mostra delle cere anatomiche della Specola alla Fondazione Prada di Milano. Le magnifiche cere (un piccolo campione delle oltre 1.400 conservate a Firenze, realizzate tra i secoli Diciottesimo e Diciannovesimo), erano quasi sconosciute, ed è stato necessario il coinvolgimento di un ente privato come la Fondazione Prada perché fossero esposte in una sede che garantisce una grandissima visibilità internazionale. A Milano, grazie al contributo del regista David Cronenberg, sono diventate spunto per una riflessione sul possibile dialogo tra le collezioni storiche e quelle contemporanee (lo stesso argomento, peraltro, affrontato dal libro di Kuper), che la stessa Fondazione sta portando avanti da qualche anno. Nella Specola, oltre alle cere, ci sono 3,5 milioni di esemplari di animali, 3.000 scheletri e la raccolta geologica Mineraliter (dai Medici a oggi), oltre al Torrino astronomico e alla Tribuna di Galileo. Da settembre 2019 però La Specola è chiusa per lavori di riqualificazione.