L’ astronomo colombiano Francisco José de Caldas non poteva credere ai propri occhi. A partire dall’11 dicembre 1808, una “nube trasparente che oscura la luce del giorno” si frappose tra la Terra e il Sole. E aggiunse: “[Il Sole] ha perduto il suo naturale colore fiammeggiante e appare argenteo, al punto che in molti lo hanno scambiato per la Luna”. A Lima, in Perù, un medico notò degli insoliti bagliori durante il tramonto. Le osservazioni di questi due testimoni oculari sono l’unica documentazione di prima mano giunta fino a noi in cui si fa riferimento alla gigantesca eruzione, avvenuta probabilmente nell’Asia sudorientale, che produsse variazioni nelle temperature di una vasta area del pianeta. L’unica altra testimonianza ci è offerta dalle particelle di solfato trovate in alcune carote atlantiche e risalenti a cinque anni prima della grande eruzione del Tambora, avvenuta nel 1815 sempre nel Sudest asiatico.
La misteriosa eruzione non fu un evento isolato. Tra il 1808 e il 1835 si susseguirono almeno cinque eruzioni catastrofiche nei tropici e, in quegli stessi decenni, le temperature tra aprile e settembre scesero di 0,65°C rispetto ai trent’anni precedenti: una differenza nient’affatto insignificante e legata con ogni probabilità proprio all’intensa attività vulcanica. I ghiacciai alpini si espansero, i monsoni in India, Australia e Africa si indebolirono e seguirono tempi di siccità, comprovati dall’abbassamento del livello del Nilo e dei laghi africani. Dopo le eruzioni, e a causa dell’indebolimento del monsone africano, il ciclone atlantico‐europeo si spostò verso sud.
Questa intensa attività vulcanica fu all’origine delle violente fluttuazioni climatiche che nell’ultima fase della Piccola era glaciale ebbero durata spesso pluridecennale. Quando le eruzioni cessarono, le temperature risalirono rapidamente, forse anche a causa di un primo, ancora contenuto, processo di riscaldamento antropogenico generato dalla Rivoluzione industriale. Sta di fatto che, a partire dalla fine del Settecento, i gas serra immessi in quantità sempre maggiore dall’uomo nell’atmosfera hanno condizionato l’andamento climatico. Non è un caso che alla Piccola era glaciale sia succeduta un’epoca di progressivo riscaldamento del pianeta.
Tra il 1808 e il 1835 si susseguirono almeno cinque eruzioni catastrofiche nei tropici e, in quegli stessi decenni, le temperature tra aprile e settembre scesero di 0,65°C rispetto ai trent’anni precedenti: una differenza nient’affatto insignificante e legata con ogni probabilità proprio all’intensa attività vulcanica.
Gli anni di più intensa attività vulcanica si accompagnarono a disordini politici e sociali. I vulcani, con le loro primordiali colate di lava e le loro impressionanti esplosioni, divennero un’attrazione turistica. Il cratere del Vesuvio era meta di molti visitatori e rappresentava una tappa imprescindibile del Grand Tour. I curiosi meno facoltosi assistevano a spettacolari e scoppiettanti deflagrazioni vulcaniche ricreate nei giardini o nei teatri di Londra. “L’eruzione del Vesuvio che vomita i suoi quattro fiumi di fuoco” annunciava la pubblicità di un giornale in quello che era ormai diventato un redditizio business.
Il vulcano di Frankenstein
Il Vesuvio era, e continua a essere, un peso leggero se paragonato ai vulcani della cintura di fuoco del Pacifico. L’enorme eruzione avvenuta nel 1808 (sulla data esatta sono ancora in corso verifiche) nella regione pacifica sudoccidentale, documentata da carote di ghiaccio artiche e antartiche, fu la terza per violenza dagli inizi del Quindicesimo secolo, dopo le eruzioni del Tambora (descritta più avanti) e del Kuwae, nell’arcipelago delle Vanuatu, avvenuta nel 1458. L’eruzione del 1808 abbassò le temperature fino in Inghilterra, dove le colline scozzesi rimasero ammantate di neve per tutta la durata della primavera. Più a sud, a Manchester, le temperature mattutine a maggio non superavano lo zero. Nell’estate del 1810, il cielo si annuvolò e per molte settimane rimase oscurato da fitte nubi.
Una grande eruzione vulcanica può alterare le temperature globali per un periodo di uno o due anni, ma le cose cambiano se più eruzioni si succedono a breve distanza l’una dall’altra. Il clima globale si era già raffreddato in seguito all’eruzione del 1808, quando il Tambora, nell’isola indonesiana di Sumbawa, eruttò dando luogo alla più violenta esplosione vulcanica dell’epoca moderna. Il Tambora era da molto tempo quiescente, ma oggi sappiamo che si era già svegliato in passato, per la precisione 77 000 anni fa, con ripercussioni su vari continenti. Come già era stato per il suo lontano predecessore, anche il cataclisma del 1815 fu un evento di portata globale.
Il 5 aprile del 1815, dopo settimane di brontolii, il Tambora eruttò e per tre ore sputò altissime colonne di fumo e dense nubi di cenere. Cinque giorni dopo il vulcano esplose e la lava prese a sgorgare dal cratere, trasformando la montagna in una massa di fuoco liquido. Almeno diecimila persone morirono tra le fiamme, travolte da fiumi di magma e tempeste di cenere. Due o tre giorni dopo, la cima del vulcano collassò e al suo posto si aprì una caldera del diametro di 6 chilometri. La montagna si abbassò di 1500 metri in seguito alle esplosioni, che furono udite a centinaia di chilometri di distanza. Uno strato di cenere alto più di un metro ricoprì le navi nell’arcipelago. Enormi nuvole cariche di detriti vulcanici oscurarono il cielo. Uno tsunami provocato dall’eruzione devastò le coste della penisola di Sanggar. Nel mezzo dell’oceano Indiano, a grande distanza dalla costa, galleggiavano isolotti di pietra pomice eruttata dal vulcano.
Per un raggio di 600 chilometri la terra piombò nell’oscurità e per due giorni rimase avvolta nelle tenebre. Il paesaggio era irriconoscibile, tutti i campi erano distrutti. In migliaia morirono di fame per le catastrofiche conseguenze dell’eruzione. In tutta Sumbawa non rimase un solo albero e ancora oggi l’isola stenta a rimboschire. La memoria dell’eruzione è ancora viva nelle tradizioni popolari locali. L’aprile del 1815 è ricordato dalla gente del posto come “il tempo della pioggia di cenere”, e a ragione. L’impatto ambientale e sociale dell’eruzione ebbe un’enorme portata in termini sia di tempo che di spazio. La quantità di cenere vulcanica eruttata dal Tambora fu cento volte superiore a quella espulsa nel 1980 dal monte Saint Helen, nello stato di Washington. Quando nel 1883 si verificò l’eruzione del vulcano indonesiano Krakatoa – la prima a essere stata studiata con sistematicità dai nostri predecessori – l’irraggiamento solare sulla Terra diminuì del 15‐20 per cento.
Immediatamente dopo l’esplosione, la cenere raggiunse la stratosfera ed enormi nubi cariche di gas vulcanici formarono una coltre abbastanza densa da riflettere la luce solare, con un effetto di riscaldamento della stratosfera e di raffreddamento della superficie terrestre. Si interruppe l’interazione termica tra terra, acqua e aria, il monsone si indebolì e in una vastissima area del Sud Asia, laddove normalmente ci si sarebbero attese tre settimane di piogge torrenziali, sopraggiunse una grave siccità. Le temperature subirono fluttuazioni vertiginose, l’acqua potabile conservata nelle cisterne divenne imbevibile, nessun seme poté attecchire sui terreni. Gli sbalzi termici e l’inaridimento del suolo bloccarono la crescita degli alberi. Quando infine, nel settembre del 1816, le condizioni atmosferiche si stabilizzarono, il monsone scaricò piogge straordinariamente violente che produssero gravi allagamenti ovunque.
Dietro il pessimo clima che afflisse l’Europa nel 1816 ci fu quindi l’attività di un vulcano posto dall’altra parte del mondo. L’inverno fu gelido e tempestoso e le cose non migliorarono con l’arrivo della primavera. Non per niente, il 1816 è passato alla storia come “l’anno senza estate”, definizione certamente evocativa ma che non rende conto di quello che fu non tanto un evento isolato, quanto piuttosto un’anomalia climatica globale.
Quell’anno, il poeta inglese Percy Bysshe Shelley e la sua seconda moglie Mary trascorsero l’estate in Svizzera, in compagnia del poeta Lord Byron, e salirono in montagna sotto “una violenta tempesta di pioggia e vento”. Così come la gente del posto, anch’essi si lamentarono del tempo freddo e della pioggia pressoché incessante, accompagnata da forti venti, tuoni e fulmini, che li costrinse a passare gran parte del tempo chiusi in casa. Fu l’inverno più freddo registrato a Ginevra da quando, nel 1753, presero avvio le rilevazioni meteorologiche, con 130 giorni di pioggia tra aprile e settembre e persino una nevicata a luglio. Mary, bloccata lì dal cattivo tempo, scrisse la storia terrificante di uno scienziato di nome Frankenstein destinata a diventare un classico immortale della letteratura. Byron compose una poesia intitolata Darkness (Oscurità), in una giornata talmente fredda che gli uccelli smisero di volare a mezzogiorno. In quell’anno terribile, il prezzo della biada schizzò alle stelle e i cavalli morirono o furono macellati. Al di là del confine, nel Baden, per ovviare alla carenza di cavalli, l’inventore tedesco Karl Drais creò una “macchina per correre”, la draisina, progenitrice della nostra bicicletta. Sfortunatamente la sua macchina a due ruote, che il guidatore spingeva puntando i piedi a terra, fu considerata un pericolo per i pedoni e venne bandita persino nella caotica città di Calcutta.
Le temperature si mantennero eccezionalmente basse per tutta la stagione del raccolto, distruggendo non solo il foraggio, ma ogni genere di coltivazione. In Inghilterra, dove le famiglie destinavano due terzi del loro reddito alle spese alimentari, la produzione di grano fu la più bassa registrata fra il 1816 e il 1857.6 I raccolti in Francia risultarono dimezzati, anche a causa di diffuse alluvioni e frequenti grandinate. La vendemmia cominciò il 19 ottobre, in grande ritardo rispetto agli anni precedenti. Il prezzo del grano lievitò ma, grazie alle abbondanti riserve accantonate negli anni passati, non raggiunse cifre esorbitanti. I trasporti relativamente più efficienti e le importazioni di grano trasformarono in una penuria alimentare quella che altrimenti sarebbe stata una carestia universale. In Germania, tuttavia, la crisi si fece sentire con maggiore intensità, e a Zurigo le strade pullulavano di mendicanti. Disordini sociali, sollevamenti popolari, saccheggi e violenze esplosero un po’ ovunque, in un’Europa che non si era ancora pienamente ripresa dalle devastazioni delle guerre napoleoniche.
Gli anni di più intensa attività vulcanica si accompagnarono a disordini politici e sociali. L’arresto del commercio e della produzione manifatturiera, la diffusa disoccupazione e le tensioni prodotte in Inghilterra dal rapido processo di industrializzazione scatenarono grandi sommosse.
L’arresto del commercio e della produzione manifatturiera, la diffusa disoccupazione e le tensioni prodotte in Inghilterra dal rapido processo di industrializzazione scatenarono grandi sommosse popolari, sedate dalle forze dell’esercito. La popolazione irlandese, che nel giro di breve tempo aveva fatto della patata, notoriamente intollerante al gelo e all’umidità, il suo alimento fondamentale, fu straziata dalla fame senza poter contare su adeguati interventi di soccorso. La crisi persistente produsse massicce migrazioni in tutta Europa e migliaia di poveri e affamati si misero in cammino lungo il Reno diretti in Olanda, con la speranza di imbarcarsi per l’America. Più di ventimila contadini della Renania ridotti in miseria, ai quali si aggiunsero numerosi inglesi e irlandesi, emigrarono in Nord America per sfuggire al dissesto agricolo.
Pandemonio
Piogge e temporali non cessarono con l’arrivo del nuovo anno. Nel 1817, la siccità indusse una mutazione genetica nel batterio del colera che contaminava le paludi del golfo del Bengala, ed esplose un’epidemia che fece innumerevoli vittime in India come in Europa (si stima che 125 000 persone morirono nella sola Giava, più di quelle uccise dall’eruzione). Il contagio si diffuse senza alcun riguardo per i confini nazionali. Nel 1822 raggiunse la Persia, nel 1829 Mosca, nel 1830 arrivò a Parigi, l’anno dopo fece il suo ingresso a Londra e nel 1832 sbarcò in Nord America. Le conseguenze furono devastanti. In un mondo dove le distanze si andavano sempre più accorciando, il colera mostrò quanto alto fosse il rischio di pandemie e portò alla luce le gravi diseguaglianze delle società dell’epoca, andando a colpire di preferenza i quartieri più poveri e sovraffollati. Le alterazioni climatiche innescate dall’eruzione del Tambora spianarono la strada alla diffusione di una pandemia che arrivò a competere con la peste nera per virulenza e letalità.
Nel 1816, dopo l’eruzione, il cielo sopra la Cina si infuocò. Un testimone descrisse “balenii di un colore rosa acceso che […] dalla linea dell’orizzonte saettavano verso il cielo”. Come ha scritto Gillen D’Arcy Wood, studioso di scienze ambientali, “bisogna riconoscere che il Tambora, con i suoi zampilli di lava, fu un assassino di grande fascino: una tragedia apocalittica mascherata da tramonto spettacolare”. Gli effetti furono immediati: le temperature nella Cina orientale raggiunsero minimi da record e gran parte dei raccolti andarono distrutti. Nello Shaanxi, provincia nordorientale, fu tale il disastro agricolo che migliaia di persone si videro costrette a migrare, non diversamente da quanto accadeva nel frattempo in Europa, ma gli esiti più disastrosi si ebbero nello Yunnan, provincia montuosa della Cina sudorientale, da sempre in stretti rapporti commerciali con il Sudest asiatico. Con le sue fertili valli incuneate tra le montagne e il suo clima dolce e temperato, al riparo dalla furia dei monsoni, lo Yunnan era tra i principali produttori di riso e frumento. A cavallo tra Sette e Ottocento, l’intensificazione dell’agricoltura produsse un formidabile incremento della popolazione e la provincia, che nel 1750 contava 3 milioni di abitanti, passò a contarne 20 milioni nel 1820.
Nel 1815, a un mese dall’eruzione, il gelo strinse nella sua morsa l’intera regione, che quell’anno non conobbe né primavera né estate. Il maltempo e la pioggia distrussero i raccolti invernali e ad agosto il freddo fece ghiacciare le risaie. Da allora e per tre anni, una terribile carestia si abbatté sulla provincia, dove i freddi venti settentrionali devastarono due terzi e forse più delle coltivazioni. Le temperature erano di circa 3°C inferiori rispetto alla media. La differenza potrebbe sembrare piccola, ma si tenga a mente che ogni grado in meno riduceva di almeno tre settimane la stagione della crescita. Disgrazia volle che lo Yunnan avesse già dato fondo alle sue riserve di grano l’anno prima, a causa di una siccità, e, senza provviste alle quali attingere, la fame dilagò incontrastata. Nel 1816 nevicò e il riso andò nuovamente perduto a causa delle temperature rigide e della nebbia gelata, mai vista prima di allora da quelle parti. La situazione non migliorò che nel 1818, quando le condizioni climatiche tornarono alla normalità.
All’inizio del 1817, il governo centrale inviò nella provincia disastrata rifornimenti di grano prelevati dai magazzini imperiali. Non che fosse una novità. Per secoli i funzionari cinesi avevano vigilato attentamente sui prezzi e sulla distribuzione delle granaglie. Le stoccavano nella stagione del raccolto e le distribuivano in inverno e in primavera, quando le scorte si riducevano e i prezzi cominciavano a salire. A detta dei funzionari locali, nei granai dello Yunnan c’erano provviste sufficienti a sfamare la popolazione adulta della provincia per un mese. Negli anni, la pratica dello stoccaggio delle eccedenze venne sempre più disattesa e la gente, per scampare alla fame, prese a coltivare prodotti destinati alla vendita. Nello Yunnan in molti passarono alla coltivazione del papavero, traendo profitto dal commercio dell’oppio. Un secolo dopo, lo Yunnan importava quasi tutti i suoi cereali dal Sudest asiatico e la Cina importava l’80 per cento circa dei narcotici presenti sul mercato mondiale. I paesi occidentali, prima fra tutti la Gran Bretagna, cominciarono a vendere ai cinesi l’oppio prodotto in India e ad acquistare con i proventi prodotti pregiati, quali porcellana, seta e tè, tutti molto richiesti sul mercato occidentale.
Degenerazione americana?
Nell’emisfero occidentale, l’anno senza estate mise radici nel folklore popolare, e in Nord America fu per molte generazioni l’evento climatico sul quale si scrisse di più. La gente dell’epoca prese a chiamarlo “Eighteenth‐Hundred‐and‐Froze‐to‐Death” (Milleottocento‐e‐si‐muore‐di‐freddo). I primi di maggio del 1816, nubi di polvere oscurarono il cielo sopra Washington D.C. Negli stessi giorni, una vasta zona di alta pressione sulla Groenlandia orientale incanalò l’aria artica verso sud, come succede in pieno inverno. Le temperature precipitarono, il New England fu spazzato da venti gelidi e una saccatura di bassa pressione avvolse la regione dei Grandi Laghi. A metà maggio una nebbia scura distrusse le coltivazioni appena piantate e nel Nordest caddero sui campi oltre 30 centimetri di neve. Sulla costa orientale le temperature scesero spaventosamente fino a Richmond, in Virginia. Ci furono gelate a giugno, luglio e agosto, evento, questo, mai registrato prima nella storia americana. A New Haven, nel Connecticut, la stagione della crescita durò appena settanta giorni e il foraggio per il bestiame scarseggiava ovunque.
Nel 1817, anch’esso un anno di clima secco e di freddo eccezionale, l’ex presidente Thomas Jefferson rese noto che gran parte delle sue coltivazioni era andata distrutta. Tre anni e altrettanti raccolti perduti dopo, Jefferson, che aveva già accumulato molti debiti, cadde in rovina. Aveva sempre immaginato gli Stati Uniti come un paese a vocazione agricola, e ora vedeva crollare i suoi sogni. L’acclamato scienziato francese Georges‐Louis Leclerc, conte di Buffon, che si era attirato le critiche del clero per la scarsa attenzione posta dalle sue opere all’intervento divino sul clima e sulla natura, era giunto addirittura a dichiarare che le gelide temperature dell’America settentrionale non avrebbero consentito alla terra di generare frutti né di sostentare animali, se non di specie piccolissime. Si basava sul vecchio principio secondo il quale è la latitudine a decidere del clima, e la sua conclusione era che i colonizzatori europei non avrebbero potuto che “degenerare” in una terra “completamente desertica”.
Le teorie del conte di Buffon erano ovviamente infondate, ma trovarono largo favore presso l’opinione pubblica e la stessa Mary Shelley parlò di un’America “degenerata” dalla quale il mostro di Frankenstein non desiderava che di fuggire. Il clima divenne un argomento delicato per gli americani in viaggio in Europa. Jefferson, che negli anni ottanta del Settecento, in veste di ambasciatore a Parigi, aveva dato prova di un indefesso patriottismo, si scagliò contro le tesi del conte di Buffon in quella che è considerata la sua opera principale, Notes on the State of Virginia, dove descrive il possente vigore dei mammut, ormai estinti, e si intrattiene sui nativi americani, “non inferiori a noi per vivacità mentale e presenza di spirito”, per non parlare dell’America occidentale, ritratta come l’immagine stessa dell’abbondanza e della felicità. Jefferson aveva un’idea grandiosa degli Stati Uniti. Incontrò il conte di Buffon a cena e i due non poterono che convenire molto civilmente di essere in pieno disaccordo.
L’eruzione del Tambora produsse non solo il crollo delle esportazioni americane, ma minò il sistema bancario e, di fatto, ogni settore dell’economia americana, innescando la peggiore crisi economica vissuta dagli Stati Uniti nel Diciannovesimo secolo.
Come già era accaduto nel Diciassettesimo secolo, l’ottimismo climatico che all’inizio dell’Ottocento pervadeva gran parte delle descrizioni degli Stati Uniti non sopravvisse all’ondata di freddo polare che già nel 1808, in seguito alla prima eruzione nel Pacifico sudorientale, fece precipitare le temperature a New Haven. Fu quindi la volta del Tambora e a risentirne fu soprattutto la costa orientale, mentre a ovest, dall’Ohio in là, il 1816 fu un anno di ottimi raccolti. Ma gli effetti dell’eruzione produssero una depressione economica che durò dal 1819 al 1822. I molti che per sfuggire alla crisi si misero in viaggio verso ovest, finendo spesso nelle grinfie degli speculatori terrieri, furono i primi migranti climatici nella storia degli Stati Uniti. Se a loro si aggiungono le migliaia di profughi giunti dall’Europa, è facile capire il perché della bolla speculativa sui prezzi dei terreni e della crisi finanziaria che esplosero in quegli anni. Quando, a partire dal 1820, i raccolti in Europa tornarono abbondanti, i prezzi del cotone e del grano americani precipitarono. Nel frattempo, un’ondata di panico tra i risparmiatori aveva portato al fallimento di oltre trecento istituti di credito. In ultima analisi, l’eruzione del Tambora produsse non solo il crollo delle esportazioni americane, ma minò il sistema bancario e, di fatto, ogni settore dell’economia americana, innescando la peggiore crisi economica vissuta dagli Stati Uniti (e dai loro dieci milioni di abitanti) nel Diciannovesimo secolo.
Estratto da Storia di cambiamenti climatici (Il Saggiatore, 2022).