S e volessimo individuare il momento esatto in cui il mondo virtuale e il mondo fisico hanno iniziato lentamente a convergere, probabilmente dovremmo tornare al secolo scorso e prendere in considerazione il progresso delle tecnologie digitali, i primi computer e poi i primi laptop, l’avvento di internet, le console portatili e così via… Ma è solo in questo secolo che si è verificato il passaggio fondamentale: il giorno esatto è il 9 gennaio 2007, il luogo è il Moscone Center di San Francisco e sul palco c’è Steve Jobs. Il fondatore di Apple tiene in mano un oggetto nero e rettangolare, il primo iPhone. Sarà, come sappiamo, il dispositivo che più di ogni altro farà fare un salto decisivo alla rivoluzione sociale iniziata con il personal computer e avanzata enormemente nel 1991 con l’avvento del World Wide Web. In questo quadro, l’importanza dell’iPhone e del conseguente successo degli smartphone è tutto nel termine “internet mobile”: perché è solo tramite questi dispositivi che il mondo “digitale” (con cui comunemente – in una sorta di sineddoche – indichiamo oggi tutto ciò che è virtuale, online e alimentato da tecnologie digitali) è uscito davvero dai confini delle case e degli uffici, iniziando ad accompagnarci ovunque e in ogni momento.
È un cambiamento la cui importanza è impossibile da sottovalutare. Fino a quel momento, online e offline – fisico e virtuale – sembravano poter essere ancora condizioni che si escludevano a vicenda. Per immergerci nella rete era necessario accedere a una postazione quasi sempre fissa – a casa, in ufficio o in un internet café – sbrigare le nostre faccende online e poi scollegarci dal mondo digitale per riemergere in quello fisico. O almeno così ce la raccontiamo oggi, perché se ci fermiamo un secondo in più a ricostruire le cose, è chiaro che la divisione, nella nostra esperienza, non è mai stata poi così netta. Già negli anni Novanta, la diffusione dei computer portatili aveva comunque iniziato a modificare parzialmente le nostre quotidianità, consentendo una maggiore – seppur limitata – flessibilità d’utilizzo del digitale e di internet; allo stesso tempo, sistemi di messaggistica come MSN di Microsoft (o anche i vecchi SMS) avevano iniziato a fondere le barriere tra mondo fisico e mondo digitale, dando il via a quella forma di comunicazione incessante, asincrona e spezzata che ha modificato significativamente la nostra esistenza (e che oggi è diventata normalità su app come WhatsApp).
Attorno alla visione di Zuckerberg c’è enorme confusione anche perché il suo metaverso vorrebbe far deragliare l’integrazione tra online e offline che abbiamo conosciuto fin qui, e che probabilmente finirà per prevalere.
Ciononostante, è vero che lo smartphone, dal 2007 in poi, è un passo in avanti cruciale: avendolo sempre in tasca e a portata di mano, il mondo online riduce drasticamente la sua distanza da quello offline. La completa fusione è ancora distante, ma la dicotomia online/offline inizia a cedere: possiamo ricevere indicazioni online che facilitano i nostri trasferimenti fisici in tempo reale, possiamo in ogni momento cercare informazioni relative a qualcosa che abbiamo appena visto di persona, camminando. Con lo smartphone diventa finalmente del tutto chiaro quale sia la direzione che stiamo seguendo: i due ambienti – fisico e digitale, online e offline – iniziano a intrecciarsi sempre di più.
E così, arriviamo di corsa al secondo più importante passaggio in questo processo di avvicinamento, che sono i social network. Senza dilungarsi troppo (e senza entrare nel complesso discorso di come oggi stiano cambiando), possiamo dire però che attraverso Facebook e gli altri social le relazioni prima vissute quasi esclusivamente nel mondo fisico hanno iniziato a trasferirsi anche nel mondo online, integrando ulteriormente le due sfere. Porzioni sempre maggiori delle nostre vite, delle nostre esperienze e dei nostri ricordi hanno iniziato a passare per i social network, dalle piattaforme di messaggistica e anche da forum, social gaming e altre strutture simili; trasferendosi o direttamente prendendo forma in questi ambienti.
Dal 2007 dell’iPhone al 2011 in cui Facebook accelera la transizione mobile, arriviamo così al 2013: anno in cui un altro passo avanti nella fusione che stiamo provando a ripercorrere si verifica con la diffusione dell’app di Snapchat e delle sue “storie”: contenuti video e foto pensati per essere pubblicati e consumati immediatamente, e che scompaiono dopo 24 ore. Fin da subito si comprende di essere di fronte a un’intuizione fondamentale: nel momento in cui le nostre vite corrono parallelamente online e offline – e se questi due ambienti sono sempre più intrecciati – come posso trasferire nel mondo digitale, in tempo reale e senza frizioni, ciò che sto facendo in quello fisico?
Ricordo benissimo la prima volta che ho visto un amico fare una “storia” su Snapchat. Eravamo in gruppo a cena, quando – senza nemmeno interrompere la conversazione, senza chiedere a nessuno di mettersi in posa o di dire qualcosa a favore di telecamera, senza mai smettere di fare ciò che stava facendo – ha estratto il telefono, ha registrato un video di pochi secondi della sua serata, l’ha pubblicata su Snapchat, ha rimesso in tasca il telefono e proseguito come prima. Un comportamento quasi incomprensibile, all’epoca. Un comportamento abituale per molti di noi, oggi. L’uso “del digitale” stava cambiando di nuovo: non ci era più richiesto di estraniarci completamente da ciò che altrimenti stavamo facendo, ma di integrare i due mondi. Niente post o fotografie che richiedono un certo livello di cura, come fossero i contenuti di un blog, ma un tipo di condivisione molto più diretta e effimera che fonde ciò che stiamo facendo offline e online, assottigliando ulteriormente la barriera ancora parzialmente esistente tra i due ambienti.
Poi, con il tempo, anche l’utilizzo delle “storie” è cambiato: Instagram ha clonato il formato di Snapchat e lo ha reso ancora più di successo, e le “storie” sono diventate un mezzo per comunicazioni di ogni tipo, non più solo condivisioni immediate ma anche molto elaborate (al punto da far nascere social come BeReal, che chiede ai suoi utenti di scattare una foto una volta al giorno, ovunque siano e qualsiasi cosa stiano facendo, proprio per cercare di recuperare l’originario spirito di spontaneità ormai perso nelle “storie” di Instagram). Dal lato dell’hardware, lungo lo stesso percorso di cambiamento (anche se con un’importanza decisamente minore) troviamo gli smartwatch, che non solo portano la tecnologia ancora più vicino al corpo (anzi, la attaccano al nostro corpo), ma soprattutto riducono ulteriormente la frizione tra mondo fisico e mondo digitale, ponendo quest’ultimo sempre a portata di sguardo (con tutti le controindicazioni del caso, che qui, per scelta, non stiamo affrontando).
Negli stessi anni, nascono e falliscono i primi smartglass (visori che provano a collocare il mondo digitale direttamente davanti ai nostri occhi), vengono presentati i primi brevetti di lenti a contatto smart e insomma, tra mille difficoltà e progetti tanto ambiziosi quanto inquietanti, tutto sembra procedere su una strada ben precisa: un mondo in cui fisico e digitale sono sempre meno distinguibili, in cui corpo umano e tecnologia sono sempre più fusi, in cui la nostra condizione di base non è più offline, ma connessa.
Poi però arriva l’ottobre 2021 e Mark Zuckerberg decide che il suo obiettivo – per il quale è disposto a giocarsi il tutto per tutto – è cambiare la traiettoria di questo percorso. A suo parere – e mentre, non a caso, siamo ancora nel bel mezzo della pandemia – il futuro non deve più proseguire lungo la strada che porta alla fusione tra fisico e digitale. Nel futuro immaginato da Zuckerberg e da Meta, il mondo fisico dovrà invece traslocare almeno in parte all’interno di un ambiente digitale, immersivo e in realtà virtuale: nel fantomatico “metaverso”.
La visione di Zuckerberg – attorno alla quale c’è enorme confusione e che comunque tratteggia qualcosa che ancora non esiste e forse mai esisterà – richiede di indossare un visore per la realtà virtuale e di isolarci da tutto ciò che ci circonda, abitando non più un mondo fisico sempre maggiormente intrecciato a quello digitale, ma un ambiente esclusivamente virtuale all’interno del quale vengono ricreati ambienti ed esperienze che precedentemente avremmo vissuto nel mondo fisico.
Lavorare in realtà virtuale circondati dagli avatar dei colleghi, fare shopping in un centro commerciale digitale spostando il nostro avatar da un negozio all’altro (mentre siamo fisicamente seduti sul divano), socializzare con altre persone in un locale che non si trova in città ma sulla piattaforma di realtà virtuale Horizon Worlds (il sotto-progetto di Meta/Facebook che al momento ricorda più da vicino il metaverso che potrebbe essere). Anche senza approfondire troppo il discorso, è evidente come questa idea di futuro rappresenti un colossale scostamento rispetto al percorso fino a questo momento seguito: invece di unire il mondo digitale a quello fisico, trasferiamo quest’ultimo nel primo.
A prima vista sembra un piano folle. Quali sarebbero i vantaggi? Ancora prima dell’ottobre 2021, Zuckerberg li aveva così riassunti in un’intervista rilasciata a The Verge: “Trascorriamo comunque un sacco di tempo mediando le nostre vite e le nostre comunicazioni tramite questi piccoli e luccicanti rettangoli”, spiegava riferendosi agli smartphone. “Penso che non sia il modo migliore che le persone hanno per interagire tra di loro. Ciò che la realtà virtuale è in grado di fornire, e ciò che più in generale il metaverso permetterà alle persone di provare, è una sensazione di essere in presenza molto più naturale rispetto al modo in cui siamo abituati a interagire online”.
Possono esserci dubbi sul fatto che questa presenza sia più “naturale”. Non che sia più immersiva. È però anche molto più faticosa e impegnativa di quanto non sia fare una riunione – pur con tutti i suoi difetti – su Zoom, che quantomeno ci permette di non isolarci dal mondo, di avere comunque un contatto (anche solo visivo) con le persone con cui viviamo e di accorgerci se per caso il cane sta sbranando il divano del salotto. Come ha detto Wes Fenlon su PcGamer, “la cosa meravigliosa degli schermi” è proprio che “richiedono solo una porzione della nostra attenzione, non una completa immersione sensoriale”.
Sarà tramite gli smartglass in realtà aumentata che il percorso che fino a oggi abbiamo seguito potrà riprendere – nel bene e nel male – il suo cammino.
In effetti, fino a oggi, le nostre esperienze digitali vissute tramite schermo hanno avuto soprattutto un obiettivo: semplificare alcuni processi anche a scapito del coinvolgimento o della ricchezza dell’esperienza. L’esempio più semplice è quello dell’e-commerce: la modalità di acquisto su un sito è sicuramente più monotona e meno coinvolgente di quella fatta nel mondo fisico, in cambio però elimina tutte le frizioni di quest’ultimo (recarsi in un luogo, trovare il negozio giusto, cercare un commesso, fare la fila in cassa, eccetera). Per assurdo, il metaverso sembra invece avere l’ambizione di riprodurre nel mondo digitale un surrogato della ricchezza dell’esperienza fisica trasferendo però al suo interno proprio quelle frizioni che il digitale aveva eliminato. L’esempio forse più chiaro di questo cortocircuito è la sperimentazione di un comune norvegese, che ha ricreato l’ufficio delle imposte all’interno di Decentraland – un ambiente immersivo, non in realtà virtuale ma che rientra comunque nelle tradizionali definizioni di metaverso –, nei cui uffici ci si può recare con il proprio avatar per pagare le tasse. Che senso ha? Non è molto più semplice usare un classico sito internet (ben progettato)?
È un po’ la stessa esperienza che, come tanti, mi sono ritrovato recentemente a vivere nel mondo delle conferenze in streaming. Per accedere ad alcune di esse non viene più creato un classico sito che permette di trovare rapidamente l’evento specifico a cui partecipare; viene invece ricreato un ambiente 3D in stile fiera in cui ci si deve spostare con il proprio avatar – un piccolo omino che visualizzo tramite computer e muovo con le freccette della tastiera – per raggiungere il padiglione corretto. L’obiettivo è creare un ambiente più immersivo; il risultato è complicare inutilmente un’esperienza che potrebbe essere molto più semplice.
E così, invece di sfruttare il digitale per eliminare le scomodità del mondo fisico (recarmi all’ufficio imposte, trovare il padiglione giusto, comunicare con l’impiegato e tutto il resto), finisco per riprodurle anche negli ambienti virtuali. Ha senso ricreare queste lungaggini nel mondo digitale per avere in cambio una sensazione di maggiore coinvolgimento? Molto probabilmente, no. O meglio: non ha senso nel caso in cui – come sembra stia cercando di fare soprattutto Zuckerberg – l’obiettivo diventa quello di replicare nel metaverso la nostra quotidianità (dal lavoro allo shopping, fino alla socialità). Ha invece ovviamente senso nel caso in cui l’utilizzo di un ambiente immersivo in realtà virtuale abbia lo scopo, piuttosto, di farci vivere avventure straordinarie o realtà virtuali pensate per uno scopo preciso. Nel caso in cui, in poche parole, lo usiamo come ambiente virtuale destinato al gaming, alla simulazione e all’addestramento, cose per le quali siamo disposti a sacrificare la semplicità degli schermi e del mondo digitale in 2D per immergerci in un’esperienza che altrimenti, nel mondo fisico, non potremmo mai vivere. Insomma, in pochi sacrificherebbero volentieri la semplicità del mondo digitale tradizionale – affrontando invece le scomodità della realtà virtuale o degli ambienti immersivi – per recarsi in un negozio o per fare una riunione di lavoro. Può essere più allettante farlo, invece, per sfuggire agli zombie o viaggiare nello spazio o imparare senza traumi a familiarizzare con la guida di un veicolo, vivendo queste esperienze con un grado di immersione e coinvolgimento molto superiore a quello di un videogioco tradizionale.
In poche parole, il metaverso in salsa zuckerberghiana sta cercando di far deragliare l’integrazione tra online e offline che abbiamo conosciuto fin qui. Cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi anni? Esiste un futuro che non sia puramente immersivo ma che torni a far convergere la comodità del digitale e il coinvolgimento del mondo fisico, riprendendo così il percorso lasciato a metà? In realtà, sì. Anzi: non dovremmo fare altro che ritornare sui passi che fino a poco più di un anno fa stavamo seguendo, lasciare gli ambienti immersivi virtuali alle esperienze di gaming (o simili) e tornare al processo di unione digitale/fisico che già stavamo percorrendo. Forse, più correttamente, dovremmo parlare però di “processo di sovrapposizione digitale/fisico”. È questo, infatti, il prossimo probabile grande passo: eliminare l’ultima barriera tra noi e il mondo digitale: lo schermo. Che ci costringe – ancora oggi – a trasferire continuamente lo sguardo dallo smartphone alla strada per utilizzare, per esempio, le indicazioni di Google Maps.
La tecnologia che ci permette di eliminare le ultime incompatibilità presenti tra fisico e digitale è soprattutto una: la realtà aumentata, che sfrutta dei visori attraverso i quali non solo visualizziamo normalmente ciò che ci circonda, ma sovrapponiamo a esso degli elementi digitali. Le indicazioni di Google Maps in questo modo compaiono direttamente sull’asfalto, una freccia digitale indica dove si trova il negozio che sto cercando o il posto in cui devo sedermi al cinema, posso studiare in classe il sistema solare in tre dimensioni senza immergermi nella realtà virtuale, sovrapporre le istruzioni di montaggio al mobile che ho appena comprato e tantissimo altro ancora. D’altra parte, prima che Zuckerberg decidesse di spostare altrove la nostra attenzione, era in questa direzione che tutti i principali protagonisti della Silicon Valley stavano andando: alcuni producendo (con scarso successo) dei visori pesanti e ingombranti, ma dotati di tutte le funzionalità in realtà aumentata (l’esempio più recente è il Magic Leap One); altri invece puntando su occhiali dalla forma quanto più vicina a quella di normali occhiali, ma dalle funzionalità ancora molto limitate (Spectacles di Snapchat, Echo Frames di Amazon). La cosa curiosa è che perfino Zuckerberg non è estraneo a progetti di questi tipo, avendo ideato i recenti Rayban Stories di Facebook, che però si limitano a scattare foto, girare video, avere auricolari integrati e poco altro (al tempo stesso, forse per evitare future figuracce, Zuckerberg sta iniziando a utilizzare il termine “metaverso” anche per i suoi esperimenti di realtà aumentata, e quindi al di fuori dal vero e proprio “metaverso”; perché in fondo se tutto diventa “metaverso”, il “metaverso” non potrà mai essere un flop). Probabilmente molti di questi prodotti si riveleranno un fallimento commerciale, almeno all’inizio. Ma in generale, il vero obiettivo di questi prototipi sembra essere, per il momento, quello di farci abituare agli smartglass, integrando poi gradualmente le funzioni più evolute mano a mano che la miniaturizzazione della tecnologia lo consente.
Nell’ambiente c’è grande attesa per i visori in realtà aumentata di Apple, i cui tempi per la commercializzazione non sono ancora chiari, ma che – se il colosso di Cupertino manterrà la sua fama – potrebbero avere lo stesso ruolo di rottura che ha avuto il primo iPhone più di quindici anni fa, e rappresentare quindi il momento in cui questa tecnologia raggiungerà la maturità e l’appetibilità commerciale necessaria a diffondersi tra la popolazione, iniziando a sostituire gradualmente (e forse parzialmente) lo smartphone. A quel punto, il nostro futuro digitale non sarà più un ambiente in stile metaverso in realtà virtuale, che limita i nostri movimenti, ci aliena dal mondo fisico e ci costringe a interagire con degli avatar: sarà invece il nostro solito mondo, arricchito digitalmente. Ovviamente, visto che parliamo di un tipo di tecnologia così pervasiva, ci saranno anche qui criticità, problemi etici, limiti e pericoli nuovi: cognitivi, comportamentali, di controllo dei dati, di invasività delle pubblicità… Ma sarà comunque tramite gli smartglass in realtà aumentata che il percorso che fino a oggi abbiamo seguito potrà riprendere – nel bene e nel male – il suo cammino.